Bocconi

di Giorgio Vasta

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Da bambino nascondevo il cibo masticato dentro una scanalatura metallica che correva sotto il lato corto del tavolo della cucina. Il tavolo della cucina era uno di quelli degli anni ’60, rettangolare, un metro e venti per un metro e ottanta all’incirca. I quattro angoli erano arrotondati, la struttura era di metallo, il ripiano era fatto con un’impiallacciatura di formica, di un celeste sgranato.Ci mangiavamo in sei. Io stavo a un capotavola, quindi sul lato corto, spalle ai mobili crema della cucina, e alla mia sinistra, sul lato lungo, c’era mia madre; accanto a lei mio fratello; poi, all’altro capotavola, mio padre, spalle alla porta della cucina e quindi di fronte a me; alla sinistra di mio padre mia zia, mentre accanto a lei, e, completato il giro, anche accanto a me, c’era mia nonna.

Non so quando e come venne definita per la prima volta questa disposizione conviviale (il perché è forse facilmente deducibile: mia madre era al centro tra me e mio fratello, quindi in grado di intervenire nel caso di capricci, di rifiuti, e la presenza di mio padre accanto a mio fratello, ed esattamente di fronte a me, era un buon argine, fisico e psicologico, a qualunque tentazione eversiva). Non so il quando e il come di questo assetto, dicevo, come di solito non si conosce mai l’origine di una prassi familiare. Un giorno ci si trova seduti intorno a una tavola, anni decenni millenni dopo la prima volta che ci si è seduti lì, e non ci si ricorda minimamente delle ragioni per le quali si era scelta quella geometria, chissà quando, in che modo l’improvvisazione o la casualità siano riuscite a collocarci definitivamente in quei posti (una collocazione salda, fra l’altro, apodittica, tanto che si dice il mio posto, il tuo posto, come riferendosi a un dato originario, biologico, indiscutibile, instaurando una connessione tra posto occupato a tavola e codice genetico), come se in effetti questa e tutte le altre prassi familiari non avessero un’origine individuabile, riconoscibile, ma discendessero da una serie di contingenze imprevedibili, da un insieme di comportamenti accidentali, che non venendo subito contraddetti né modificati, sedimentano quindi in forme e ruoli dentro i quali prendiamo alloggio e identità.

Effetto evidente di questa organizzazione spaziale era la mia ineliminabile visibilità, per lo meno di tutta la parte esposta, testa torace braccia e mani (un panopticon domestico), solo pube e gambe restando invisibili, e i piedi, oscillanti nel vuoto.

Riuscire a compiere la rimozione forzata del cibo traslocandolo dalla bocca alla scanalatura era quindi un lavoro di precisione, di dissimulazione attoriale, un frammento di fiction funzionale allo smaltimento dei sapori o delle consistenze indesiderate.

La procedura standard era questa.

In un momento di stanca del pasto, in un suo golfo, una risacca, verso la fine del tempo fisiologico di consumazione del primo o del secondo (preferibilmente del secondo, essendo la portata che concentrava in sé, tra carni pesci e contorni il maggior numero di insidiose variabili), quando la conversazione, se c’era, era emarginata a vantaggio degli ultimi movimenti delle mani, che separavano mescolavano impiastravano mantecavano oppure brutalmente disossavano, e a sopravvivere erano soltanto gli screzi dei rebbi contro la stoviglia e la meccanica complessa e affaticata della deglutizione di mio padre, in quel momento io, trattenendomi dal fischiettare soltanto per un residuo di pudore (ma molto di più per la consapevolezza che fischiettare in quel momento sarebbe stato, nel suo ostentare una casualità di maniera, la segnalazione inoppugnabile del crimine in corso), portavo la mano davanti alla bocca come a grattarmi il naso, o un labbro, e facendomi schermo con il dorso intrudevo indice e pollice, prendevo il boccone masticato rifiutato (condotto fino al limite delle labbra da uno strategico mandibolare lavoro di lingua) e con un altro movimento, guardando contemporaneamente il vuoto o fissando autistico le macerie nel piatto (per crearmi un alibi, per distogliere, come si dice, ogni sospetto), abbassavo il braccio, per caso, senza volontà, adagiavo la mano in grembo (il boccone veniva intanto rapidamente appallottolato, sfericizzato dalla pressione dei polpastrelli) e cominciavo a muoverla lentamente, la mano, come un cieco, sotto il ripiano, giustificando la prossimità con il bordo del tavolo attraverso un generale addossarsi indolente dell’intero corpo contro il tavolo, inscenando ed esibendo la postura della noia maleducata, dello spleen postprandiale, lievemente sbuffante, sufficiente, contorcendo carpo e metacarpo, fino a incastrare la pallotta masticata nella scanalatura, attentissimo a non urtare con il nuovo espulso o con le dita altri frammenti già incastonati nel metallo (visualizzavo la fila di corpicini di cibo affastellati solidificati sul metallo, tragicamente elencati a pochi centimetri dall’alimentazione civile, sulla superficie del tavolo, sulla tovaglia di lino).

Solo a quel punto, completata l’operazione, mi facevo indietro col busto e lasciavo riemergere la mano (che letteralmente sbocciava dal polso segretamente indolenzito), tamburellando o scuotendo una posata per farla tinnire, chiamandomi così per un momento gli sguardi addosso a constatare, in questi gesti sommari e negligenti, la mia categorica innocenza.

Nel tempo, esauritosi lo spazio orizzontale, quello sulla scanalatura sotto il mio posto, non sapendo più dove nascondere i bocconi, scoprii con le dita che alle due estremità della scanalatura sotto il tavolo (ovvero in coincidenza sulla superficie con gli angoli arrotondati del tavolo e, sotto, con le sue gambe metalliche) c’erano due cavità profonde, nel senso che le gambe del tavolo erano di metallo cavo, vuoto, pieno d’aria, quindi perfettamente utilizzabile allo scopo.

Le gambe del tavolo avevano la forma di un cono rovesciato con il vertice alla base (la punta metallica non toccava il pavimento perché coperta da un “piedino” di gomma nera), allargandosi progressivamente verso l’alto fino a raggiungere nell’apertura un diametro di circa dieci centimetri.

A quel punto la prima parte della procedura rimaneva la stessa di prima, modificandosi dal momento in cui portavo la mano, mettiamo la sinistra, sotto il tavolo, e mi inclinavo scomposto con il gomito destro poggiato verso lo spigolo del tavolo (stirando o increspando la tovaglia), il pugno chiuso che mi deformava la guancia generando una piega di carne molle sotto lo zigomo, così da mascherare, con questo teatro, i traccheggi della sinistra che come un boia lasciava intanto cadere nella buca, nel corso dei mesi, pezzi di cotoletta molliche di pane spicchi di mela rondelle di uova bollite (il tuorlo sbriciolato) un pugnetto di ceci o di lenticchie agglutinato dalla saliva olive nere crackers non salati masticati sezioni di teste di sedano mezze carote tutto ormai annichilito dalla permanenza in bocca, per quanto breve, una grandine ovattata di cibi diversi senza nessuna coerenza, secondo i disgusti del momento, uno sull’altro (la visualizzazione di tutto questo era sicuramente più odiosa dell’altra perché, in questo secondo caso, al cibo rifiutato non era concesso neppure il rispetto dell’allineamento ordinato su una superficie, che lo lasciava sì insepolto ma in un certo modo lo proteggeva, adesso invece era l’onta della fossa comune, dove ogni boccone precipitava ancora pulsante, agonizzante, con un odore e un sapore potenziale, e a rendere ancora più orribile questa visualizzazione contribuiva l’immagine del cibo che a poco a poco si accumula dal basso del cono rovesciato verso l’alto riempiendolo fino all’orlo, all’eruzione, il momento nel quale il mio stomaco sarebbe traboccato fuori, non da dentro la mia bocca ma da dentro la gamba di un tavolo, in una evacuazione tanto dolorosa quanto imbarazzante, perché molte di più sono le spiegazioni da dare quando a espellere il tuo cibo non è il tuo corpo ma un elemento d’arredo, un mobile di cucina, e a nulla valeva pensare che in fondo la gamba del tavolo non era altro che una metafora concreta, la sintesi delle mie abitudini alimentari, un loro riassunto, una protesi domestica nella quale avevo voluto conservare un campione di tutto il cibo degustato, disgustato, nel corso della mia vita ancora così breve, come quelle casse riempite di oggetti diversi, un disco una fotografia una caffettiera, che vengono sepolte sottoterra con valore di memorandum in caso di disastro nucleare senza sopravvissuti o, meglio ancora, considerata anche la somiglianza della forma, come quei missili spaziali nei quali sono state accumulate cose terrestri, emblemi pubblici e privati della nostra esistenza contemporanea, un poster con la faccia di un’attrice una raccolta di francobolli un rasoio elettrico un mestolo una guida telefonica una ciocca di capelli la gamba del tavolo in orbita con dentro il contenuto spurio del mio stomaco il cibo masticato rifiutato immerso in un metallo cavo immerso nello spazio siderale immerso forse in uno sguardo la mia digestione astrale, la fermentazione nell’orbita dei pianeti, la decomposizione tra le stelle.

E immaginavo in particolare una stella impercettibile che fortuitamente penetrava nel cavo della gamba inoltrandosi in mezzo ai bocconi sfatti mescolati, un pigmento di luce stellare che illuminava questo mio stomaco astronauta).

Nell’aprile del 1978, il 23 aprile 1978, me lo ricordo perché era il mio onomastico, un giovedì, e per regalo non mi avevano mandato a scuola, intorno alle dieci venne un fabbro per saldare una parte della struttura metallica del tavolo della cucina, una giuntura tra gamba e ripiano inferiore, dall’altro lato rispetto al mio, dissaldatasi per colpa di una ginocchiata involontaria di mio padre nel sedersi, di qualche giorno prima, così che adesso c’era un lembo di metallo che sporgeva un poco pericolosamente, verso il basso, ed era indispensabile ricomporre la lacerazione e suturare con la fiamma ossidrica.

Paradossalmente, nonostante l’attenzione per una specifica gamba di quel tavolo dal mio lato, un’attenzione che si era trasformata in passione, in ossessione accumulativo-ostruttiva, l’arrivo del fabbro mi lasciò del tutto indifferente e mi limitai a guardarlo mentre sistemava sul pavimento la cassetta di ferro piena di attrezzi scuri, oleosi, e si chinava a studiare il danno, a prenderne le misure. E ancora restai indifferente quando disse che dovendo saldare sarebbe stato meglio rovesciare il tavolo per lavorare con maggiore comodità dall’alto verso il basso, anzi, credo che eccitato all’idea di poter guardare la fiamma blu e bianca della fiamma ossidrica mi feci avanti io stesso per aiutarlo, scavalcando mia madre e afferrando il tavolo nel punto in cui le gambe si univano alla parte bassa del ripiano inferiore, compiendo per intero la rotazione di centottanta gradi, facendo attenzione a non far cadere niente dagli altri mobili intorno, fino a sistemare il ripiano del tavolo sul pavimento (le piastrelle, mi ricordo, erano verde ramarro, molto lucide).

Non accadde niente, io non pensai a niente, ero soltanto emozionato, volevo la fiamma della fiamma ossidrica (sentirne l’odore), la fiamma che non si deve guardare senza schermatura, come la luce del sole, perché si diventa ciechi, così come non si deve tenere la lingua tra i denti andando sugli autoscontri perché si rischia di tagliarsela con un colpo netto, si diventa muti.

Il fabbro si inginocchiò accanto al danno, finì di montare la fiamma ossidrica, indossò il casco con lo schermo e fece partire la fiamma che si allungò oblunga, stretta e ogivale, andando a incidere esattamente il frammento di metallo spezzato, cauterizzandolo, soltanto che tutto questo più che un fatto fu l’ipotesi di un fatto, una sua premessa, perché quindici secondi dopo l’accensione del raggio, dal lato opposto del tavolo, la gamba, la mia gamba metallica, la mia gamba-stomaco metallica, probabilmente stimolata dalle vibrazioni prodotte dalla fiamma ossidrica, e dal calore, cominciò a rilasciare il suo contenuto, tac, all’inizio solo lo strato superficiale, tac, e poi, a blocchi, le sepolture inferiori, toc toc toc, abbandonando sul ripiano del tavolo rovesciato (color crema, sporadiche tracce di ruggine) e, di rimbalzo, anche sul pavimento, i miei bocconi fossili, biancastri, vetrificati, minerali, singoli noduli oppure bilobati, trilobati, ognuno in grado di stimolare immediatamente il ricordo, in me, dello specifico rifiuto, nello specifico giorno, nella specifica ora, a pranzo o a cena, in cui lo avevo clandestinamente espulso da me, dalla mia bocca (e, così facendo, preventivamente dal mio stomaco), suscitando anche una particolare memoria quasi commossa del sapore (una memoria palatale) e dell’odore (una memoria olfattiva) una tenerezza, un rimpianto postumo, per molti versi ipocrita, coccodrillesco, e comunque a questo punto inservibile, considerato che il fabbro aveva spento la fiamma ed era rimasto inginocchiato a guardare, così come mia madre, in piedi da qualche parte (e forse, non ricordo, anche mia nonna), la strage post organica ex biologica, spostando lo sguardo, solo mia madre, dai bocconi morti a me e ancora ai bocconi morti, toc-figlio tac-figlio toc-figlio tac-figlio, ricostruendo a poco a poco l’accaduto, la sua origine e i suoi connotati, più sconcertata che arrabbiata, anzi direi persino ammirata dalla varietà di alimenti decomposti ai suoi piedi, riconoscibili solo parzialmente, a stento, alcuni mummificati, altri che rivelavano ancora una matrice animale o vegetale, in ogni caso egemonizzati nella morfologia e nel colore dal tempo trascorso nel cono metallico e quindi a loro volta metallizzati, come per induzione, cioè spolverati di un color ferro, specialmente le piastre di cibo fuse insieme, che però sotto una pellicola di biancastro standard facevano ancora intravedere, chiusi nel pallore, un filamento arancione di carota, il giallino macerato dei crackers, la scoria beige di una crosta di pane, un cecio cupo, grigio topo (come presi in un bozzolo o in una goccia di umilissima resina).

In quel silenzio generale (tranne che per i tac toc che imprevedibilmente rintoccavano secchi nella cucina), sotto gli sguardi del fabbro e di mia madre, mi accorsi che ogni boccone o blocco di bocconi sedimentari in quel momento sembrava (sarà stata la luce del mattino o il mio luminoso imbarazzo) un frammento di luce dura, un sasso di luce pietrificata, una luce pesante, consistente, che volendo poteva essere scagliata contro un vetro, e lo avrebbe rotto, una luce-arma contundente, una luce che doveva essere contenuta nel cibo, nei bocconi vivi, e che quindi era destinata a finire nel mio stomaco, e io sotto gli sguardi guardavo i pezzi di cibo-sasso-luce sparsi intorno, con l’impulso di prenderli e spaccarli contro la parete, contro la porta della cucina, contro lo sportello del frigorifero, senza rabbia, solo per vederli esplodere e polverizzarsi o per lo meno ridistribuirsi nelle forme di partenza, ritrovare il volume originario separato dagli altri bocconi, ma non feci assolutamente nulla, restai ancora un po’ fermo in piedi, in silenzio, senza provare più imbarazzo, rinunciando a qualunque spiegazione, e non per un precoce nichilismo o perché falciato dalla vergogna o per arroganza, ma per il semplice fatto che non provavo nulla, nessun patema, nessuna particolare emozione (la mia prima esperienza di neutralizzazione, di calmo azzeramento delle cause e degli effetti).

Poi, senza dire niente, uscii dalla cucina, percorsi il lungo corridoio luminoso che collegava le due bolle di camere della casa (che era fatta come una clessidra con la strozzatura molto stretta e molto lunga), illuminato io stesso dalla luce bianca che passava dai vetri smerigliati, entrai nella mia stanza, andai a distendermi sul letto, le braccia lungo i fianchi, il respiro morbido dai polmoni alla bocca. Chiusi gli occhi, mi addormentai dopo pochi secondi.

Non se ne parlò più, o meglio non se ne parlò mai, né in quel momento né in seguito, ma alcuni anni dopo, frugando in uno dei cassetti pesanti del mobile-cassettone in camera dei miei, cercavo cinque o diecimila lire da rubare, trovai, avvolti in un fazzoletto di carta tempo, tre cose piccole e bianche, gessose, calcaree, due di forma cubica con gli spigoli morbidi tondeggianti, e una piatta e larga, ovale, una specie di ostia oversize, e in ognuno di questi reperti, dentro il bianco, si riconosceva ancora qualcosa, una sfumatura tenue di rossiccio, di bluette, del viola necrotico, e ancora adesso non so per quale ragione mia madre avesse deciso di conservare quei pezzi di cibo rimosso, gli aborti della mia bocca, con addosso i segni dei miei denti, la mia saliva congelata, forse per un’incomprensibile (a lei stessa incomprensibile) tenerezza nei loro confronti, nei confronti di quei bozzoli di cibo morto, o perché anche a lei erano sembrati dei sassi di luce, meteoriti, monoliti da adorare, o semplicemente perché a modo loro erano belli, un performer ci avrebbe potuto costruire sopra uno spettacolo, avevano qualcosa di affascinante, di religioso, non mi avrebbe stupito più di tanto trovare cose del genere sotto la teca di vetro di un negozio di oggetti curiosi, o addirittura esposte in una piccola galleria alternativa di arte contemporanea, o in un reliquiario, fatto sta che negli anni ancora a venire, pur continuando entrambi a tacere, mia madre ha sempre portato con sé, da una casa all’altra, attraverso i traslochi, il fazzoletto tempo con dentro i miei bocconi (non un nome migliore, per quei fazzoletti, in questo caso), magari ripromettendosi prima o poi di dirmi qualcosa, di dirmi sai, ti ricordi di quando venticinque anni fa avevi nascosto pezzi di roba da mangiare dentro la gamba del tavolo della cucina, ecco, un campione di quella roba da mangiare io ce l’ho, l’ho conservato fino a ora, non so perché, cerchiamo di capire cosa farne.

Del resto, adesso che ci penso, mia madre ha anche conservato un dente di mio padre in un astuccio, un vecchio molare estrattogli anni fa e sostituito con un gemello di ceramica, e credo, dico sul serio, che da qualche parte, forse in uno di quei piccoli contenitori metallici per le pillole, conservi un suo neo che si è fatta estirpare oltre quindici anni fa dalla fronte, era molto grosso e pettinandosi se lo graffiava senza volere con i denti del pettine, a lungo andare poteva diventare pericoloso e allora se l’è fatto togliere, microchirurgia, ma l’ha tenuto con sé, perché evidentemente c’è in lei un affetto per i nostri corpi e per quello che li riguarda direttamente, che non si accontenta del presente, del presente organico, organismico, dello stato presente delle nostre metamorfosi corporee, ma desidera anche preservare quello che per una ragione o per un’altra perdiamo per strada, e non mi stupirebbe se, così come al primo taglio di capelli mio e di mio fratello conservò una ciocca di ognuno in due buste di carta con i nostri nomi scritti sopra, che poi si portava sempre in borsa fino a quando la borsa le venne scippata e con quella le nostre prime ciocche (come ci fossero state strappate via in quel momento, direttamente dalla testa, da un ragazzo in motorino, strette nel suo pugno, mischiate svolazzanti nella corsa), non mi stupirebbe, dicevo, se fosse riuscita nel tempo a recuperare e conservare il calcolo che mi hanno estratto dall’uretere destro qualche anno fa, una specie di chicco di pop corn color coca cola, forse bastava domandare ai medici, o l’appendice di mio fratello, sottraendola alla prassi dell’incenerimento, e anche l’unghia dell’alluce destro che mio padre ha perduto contro uno scoglio al mare due estati fa, non mi stupirebbe e anzi probabilmente mi tranquillizzerebbe sapere che c’è qualcuno che discretamente, senza il minimo clamore mette da parte tutto quello che perdo, che perdiamo, i pezzettini di corpo e di vita che si staccano da noi, per ricostruirci poi da qualche parte, una scatola familiare con dentro un dente, un neo, ciocche di capelli, unghie e organi o porzioni d’organi rimossi, corpi estranei involontariamente ingeriti o alimenti legittimi volontariamente nascosti, un ritratto di famiglia sui generis ma possibile, un ritratto senza soggetti ufficiali, un ritratto metonimico, le parti, varie piccole parti per il tutto, una genealogia viscerale – e questo mi fa venire in mente qualche estate fa, quando per il sole Jas e io spellavamo e al mattino eravamo cosparsi di frammenti infinitesimali di pelle, minuscole pellicole trasparenti, una polvere di pelle che al risveglio ci ricopriva i capelli e la faccia, le braccia il petto e le gambe, e quando ci alzavamo dal letto la nostra pelle spezzettata e triturata dalla frizione del corpo contro il letto e contro se stesso e contro l’altro corpo restava sulle lenzuola, con due spazzolate forti del palmo aperto la gettavamo sul pavimento, poi passava il vento basso e non se ne sapeva più niente (se non ci fosse stato un ricambio cellulare, tempo qualche giorno e saremmo scomparsi), e io immaginavo di raccogliere nel cavo della mano questa polvere di pelle, mescolarla alla mia saliva e fabbricare un piccolo noi inorganico, essenziale, la radice quadrata, cubica, ennesima dei nostri corpi mescolati.

10 COMMENTS

  1. Io ho avuto un periodo in cui non riuscivo a mangiare carne (a dirlo adesso mi pare così strano), ma ovviamente dovevo mangiarla perché fa crescere. Parte dei miei bocconi, masticati e rimasticati fino a farli fibra pura, finiva negli ampi spazi sotto il tavolo di legno. Immagino che mia madre li trovasse, ogni tanto; ma non ricordo di essere mai stato sgridato o cose simili (lasciato a tavola finché c’era cibo sul piatto, sì).

  2. Bella la conclusione. Una metafora della morte e della procreazione, anche. Forse. Così l’ho letta. Anche io conservo i capelli di entrambi i miei bambini (un ciuffetto del primo taglio della loro vita). Dev’essere un vizio delle madri. Un modo, credo, per illudersi di poter conservare qualcosa di quei corpi che crescono e che ci ricordano, nel loro cambiamento, il tempo che passa. Anche per noi.

  3. forse vanno in questo senso i simulacra di Lucrezio, secondo il quale ogni immagine è un composto di atomi finissimi che si staccano da un corpo per toccare il nostro occhio (+ o -)

  4. Coinvolgimento e identificazione. E la norma che nasconde la più profonda inquietudine.
    Mi ha fatto ricordare certe manìe dell’infanzia, ma anche i comportamenti di certi animali (gatti) compagni d’infanzia. Questa somiglianza con gli animali che siamo tenuti a negare con forza crescendo e diventando adulti.

  5. Giorgio, complimenti per il pezzo, anche perchè, leggendolo, si riesce financo a respirare. E questa mi sembra una bella novità…;-)
    Ciao

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