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La verità in democrazia

di Luisa Muraro e Massimo Adinolfi

[Il 21.03.06 nel quotidiano il manifesto è apparso un articolo di Luisa Muraro che, a partire da altri articoli dedicati al caso dello storico David Irving, affronta la questione della verità in democrazia. A me è sembrato un articolo interessante. Ieri in Left Wing è apparso un articolo di Massimo Adinolfi che discute, mi pare assai utilmente, l’articolo di Luisa Muraro. Li riporto, qui di séguito, entrambi. giulio mozzi]

Possiamo dire la verità?, di Luisa Muraro

Sul manifesto del 7 marzo, nella rubrica delle lettere, Giorgio Pecorini ha obiettato che quello di David Irving, condannato in Austria a tre anni di prigione per aver negato pubblicamente le camere a gas e i forni crematori, non si può chiamare un reato d’opinione, come aveva scritto Maurizio Matteuzzi. Il giornalista si difende dicendo che, in alternativa, si potrebbe parlare di falso storico, ma che non sarebbe una soluzione, primo perché, come reato, non si lascia definire bene (falsificare la storia non è lo stesso che falsificare denaro) e, secondo, perché sarebbe pericoloso farne un reato, in quanto alla fine del falso storico o scientifico c’è sempre una Santa Inquisizione e un Galileo Galilei.

Con la sua replica il giornalista ha finito per evocare un problema enorme, che si ha paura ad affrontare ma che, una volta evocato, non si può neanche far finta di niente, intendo il problema della verità come minaccia alla libertà di pensiero. Una formulazione meno spaventosa del problema potrebbe riassumersi in questa domanda: nel discorso pubblico di una società laica e democratica il vero/falso può entrare in gioco con il suo valore dirimente? In altre parole, in una società laica e democratica ha senso presentarsi pubblicamente con la pretesa di dire la verità, come fa il papa, per fare un esempio che ci riguarda?

C’è una risposta accomodante secondo cui di vero/falso può essere questione in certi contesti a certe condizioni (chiesa, scuola, società scientifica, ecc.) e non in altri, non nella formulazione di una legge che deve valere per tutti. Ma ci sono delle difficoltà non piccole a definire i contesti come le condizioni, e a regolarsi di conseguenza.

Ci sono studenti che usano il «secondo me» anche per fatti storici assodati, come le circostanze della morte di Hitler, e l’insegnante non può non giudicare scorretto questo uso del «secondo me» sia dal punto di vista del linguaggio storico sia dal punto di vista della lingua italiana, in quanto non si tratta di opinioni. Ma dove finisce lo studente e dove comincia il seguace di David Irving? In altre parole, dove finisce la scuola e dove comincia il mondo? Un certo confine esiste, lo fa il diverso tipo di rapporti che si praticano di preferenza, ma sarebbe sbagliato considerarlo impermeabile, per cui sappiamo che bisogna impegnarsi per la verità storica dentro e fuori dalla scuola, senza soluzione di continuità. Senza però fare ricorso alla sanzione penale, qualcuno può obiettarmi e mi trova pienamente d’accordo per quel che riguarda la/lo studente. Ma un giudizio ci vuole e si dà il caso che proprio la giustizia penale, per esercitarsi, non possa fare a meno della testimonianza veridica, tant’è che la impone e sanziona chi vi si sottrae. Anche qui, dov’è il confine tra un tribunale e la storia? David Irving non somiglia forse a un falso testimone di una verità difficile da ricordare per tutti?

L’analisi critica potrebbe continuare con un altro caso, quello del capo del governo italiano, il cui ricorso alla menzogna ha oltrepassato i taciti confini finora assegnati alla licenza di non dire la verità in politica, e ha prodotto un disordine simbolico demoralizzante, nel senso forte della parola. Come si può contrastare questo disordine senza fare appello al valore del dire la verità anche in politica?

Insomma, io penso che la risposta accomodante somigli molto a un evitamento del problema. E passo a riformulare quest’ultimo nei suoi termini radicali, così come mi pare che si presentino. Da una parte, non c’è modo di fare a meno della «verità» perché è una parola che ci appartiene (e alla quale apparteniamo), per antica tradizione che non è morta, e questo apre delle possibilità (e delle impossibilità) che Franca D’Agostini ha spiegato ragionando sui «superconcetti» (la verità ne è uno) nel suo ultimo lavoro, Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza (Carocci, Roma 2005). D’altra parte, e vengo al punto, nessuno dei significati storici della parola «verità» ricevuti dalla tradizione, si accorda abbastanza finemente con le istanze di una società che pratica un’effettiva libertà di pensiero, non riservata a una minoranza colta. (Con queste parole vorrei riassumere lo spirito liberale non liberista di una società laica e democratica.) Da qui viene la contraddizione che porta i sostenitori della libertà laica e democratica a rinunciare alla «verità».

Questa deliberata rinuncia traspare anche nelle parole del giornalista del manifesto che si adatta a parlare di «reato d’opinione» per qualcosa di cui sa bene che non è affatto riducibile a un’opinione. Si ha paura di dare esca a una concezione autoritaria e fanatica della verità, ma si deve anche avere paura di lasciare la verità esposta all’uso demagogico e strumentale, e di finire così tutti nel relativismo e nell’indifferenza. Un esito, quest’ultimo, temibile specialmente per chi non accetta che le nostre vite e la convivenza umana siano subordinate alla ricerca del profitto. Assistiamo in questi anni a un imprevisto risveglio d’interesse per la filosofia e mi chiedo se la ragione non sia proprio quella di un bisogno diffuso di sottrarsi all’effimero e di trovare un orientamento personale, per una specie di rivolta tacita alla miseria simbolica dei consumi facili. In questa sorprendente moda della filosofia forse c’è più che un sintomo, e cioè quasi un suggerimento circa la direzione da prendere. Che sarebbe secondo me, di cominciare a pensare alla verità nei termini di un processo in cui sia coinvolta la comunità dei parlanti, fatto di pratiche e di ricerca, processo di «generazione» della verità dicibile e riconoscibile dal comune delle persone.

Che cosa c’è di diverso, in questa proposta, dal processo che porta la società scientifica a stabilire il vero/falso? Due cose, che si tratta di un processo non chiuso nel laboratorio, tra specialisti, ma operante nella vita ordinaria del corpo sociale. E coinvolgente, oltre ai rapporti interpersonali, anche la soggettività delle singole persone. Anni fa una prof mi disse che non voleva più accompagnare classi ad Auschwitz perché i ragazzi erano capaci di mettersi a ridacchiare e a fare orrende battute. Eppure, anche lei sapeva che lì si esprimeva un turbamento senza parole che non andava represso con il conformismo. Insomma, non si tratterebbe più di far riconoscere una verità oggettiva (storica o politica o altro che sia) già stabilita, spesso non si sa da chi, ma di generarla in prima persona, dal vivo di una situazione, e di generarla come dicibile e condivisibile da altri, secondo una concezione relazionale e contingente: la verità come ciò che può avvenire, avere luogo, nella parola scambiata con altri, sapendo, bisogna aggiungere, che il suo luogo preferito non è dalla parte di chi dice ma da quella di chi ascolta.

Questo privilegiamento dell’ascolto, nella generazione della verità, era un’antica dottrina mistica e si ritrova in Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé , dove dice parole che faccio mie: io vi racconterò quello che ho pensato, come l’ho pensato, e voi, se c’è del vero, lo riconoscerete.

La sinistra che ha paura del relativismo, di Massimo Adinolfi

La filosofa Luisa Muraro ha riproposto la questione della verità in democrazia (Il manifesto, 21 marzo). Lo spunto è offerto dal caso Irving, lo storico condannato in Austria per un reato d’opinione, come se fosse materia opinabile il fatto che gli ebrei furono uccisi a milioni dalla Germania di Hitler. Eppure, per non condannare Irving, dobbiamo accettare che nelle nostre società liberal-democratiche anche sul genocidio nazista ognuno abbia la propria opinione. Secondo la Muraro, se lo accettiamo, è perché abbiamo paura di una “concezione autoritaria e fanatica della verità”: nessuno infatti, e per fortuna, desidera infrangibili verità di Stato; nessuno desidera che sia stabilita per decreto una lista di fatti su cui non ci sia spazio per opinioni diverse. Eppure, scrive ancora la filosofa, dovremmo avere paura anche “di lasciare la verità esposta all’uso demagogico e strumentale, e di finire così tutti nel relativismo e nell’indifferenza”. Anche la Muraro accredita dunque l’idea che a lasciare a tutti la libertà di opinione ci sia il rischio di finire nel relativismo e nell’indifferenza. Se infatti uno Stato non sanziona le bugie sesquipedali di Irving, mostra di essere indifferente a che nel dibattito pubblico circoli la verità piuttosto che la menzogna sulle atrocità commesse dal nazismo.

Il fatto è che non è così. Nei libri di testo, nei programmi televisivi, nelle chiacchiere al bar, l’opinione di Irving è trattata per quel che è, anche senza il ricorso alla giustizia penale. Non è vero che versiamo in un imperdonabile indifferentismo, e non è vero non solo nelle materie di fatto, ma neanche nelle materie di valore. Potete verificarlo da voi stessi con il piccolo esercizio seguente: scegliete anzitutto una qualunque materia, empirica o valoriale, e guardatevi intorno per verificare se tutte (ma proprio tutte) le opinioni relative a quella materia ricevano lo stesso trattamento, abbiano il medesimo spazio nella vita pubblica, siano parimenti accolte e godano effettivamente dello stesso credito, nei luoghi di formazione del consenso o anche solo nei luoghi che voi abitualmente frequentate. Se trovate una roba del genere, per favore mandatemi una mail.

Ma, si dirà, in linea di principio sarebbe possibile. Qui in primo luogo rispondo che nemmeno in linea di principio lo è, ma essendo complicata la dimostrazione che dovrei fornire al riguardo mi accontento di osservare in secondo luogo che se anche fosse, la linea di quel principio sarebbe così lontana, così poco alle viste, che non vedo perché dovrei stare a preoccuparmene fin d’ora. Forse sarà pure troppo tardi se me ne preoccuperò solo quando quello stato di morte della verità nell’indifferenza si verificherà, ma adesso è sicuramente troppo presto perché me ne occupi da subito.

Ma la Muraro obietta: se siamo tutti d’accordo che in tribunale o a scuola non basta premettere un “secondo me” per giustificare una qualunque opinione, perché nella società dovrebbe essere possibile? Nessuno studente può dire a scuola, in nome della libertà d’opinione, che secondo lui Napoleone è nato e vissuto a Vibo Valentia: non lo può dire, senza essere sanzionato da un voto negativo. In società invece, si può dire un’enormità simile senza rischiare un voto negativo. Rispondo: ma lo si può dire davvero senza rischiare un voto negativo? Voi per esempio eleggereste a sindaco uno il quale pensi convintamente che Napoleone Bonaparte era calabrese?

Avendo a cuore la verità, ma non volendo imporla d’autorità, la Muraro suggerisce una concezione “relazionale e contingente” della verità. Suggerisce cioè di “pensare alla verità nei termini di un processo in cui sia coinvolta la comunità dei parlanti”. Non so a voi, ma a me sembra che dopo un lungo periplo la Muraro abbia trovato una buona definizione per quel che c’è già, ovvero le società liberal-democratiche. Le quali, quando funzionano, sanzionano in forme diverse dalla condanna penale l’opinione falsa e chi la difende, coinvolgendo la comunità dei parlanti invece che i tribunali. Certo, la Muraro può lamentare che esse non funzionano affatto, ma sarebbe altra questione. O almeno: non sarebbe una mancata sanzione penale per Irving e per l’apologia del nazismo il segno che quelle società non funzionano e non hanno a cuore la verità tanto quanto la Muraro.

E se poi non funzionassero, potrebbe mai essere che questo accada perché la verità in esse non riesce ad imporsi da sé? Se così fosse, non resterebbe che imporre la verità che non riesce ad imporsi. Ma questo dimostra solo che, a meno di non volere assumere una concezione autoritaria della verità (cosa che la Muraro dice di non volere fare), se una questione di principio deve effettivamente essere elevata, deve esserlo in direzione opposta a quella indicata da quanti accusano la democrazia di indifferentismo: nessuno Stato e nessuna società può infatti affidarsi al libero gioco democratico di formazione delle opinioni se, posto che la verità sia preferibile all’errore, non si ritiene che la verità si impone da sé in mezzo alle opinioni – o anche: che l’uomo in generale ha interesse alla verità. Democratico è solo uno il quale ritiene che la democrazia selezioni verità, proprio come autocratico è chi ritenga che sia l’autocrate a selezionare la verità per tutti. La democrazia non ha solo un fondamento negativo: nessuno possiede la verità, ma ne ha anche uno positivo: tutti, insieme, camminano verso la verità. Se dunque si vuole criticare la democrazia “da sinistra”, lo si faccia pure. Il mio modesto consiglio è però che si lasci ad altri (che di solito lo sanno fare pure meglio) la lagna sul presunto indifferentismo delle democrazie.

15 COMMENTS

  1. Quello del “reato d’opinione” è un termine che, a mio avviso, dovrebbe essere bandito dal lessico di qualunque stato democratico.
    Il reato, infatti, è una categoria ben precisa del diritto penale che implica l’esistenza di presupposti quali la tipicità (azione, evento e nesso di causalità), l’antigiuridicità (cioè l’assenza di scriminanti) e la colpevolezza (dolo, colpa, preterintenzione). E’ questo il caso, per esempio, del cosiddetto falso ideologico.
    Orbene, ritenere che il fatto di esprimere un’opinione, qualunque essa sia, possa essere inquadrato nello schema di un fatto tipico, essere poi sottoposto al vaglio della presenza o meno di cause di giustificazione ed infine valutato nel suo aspetto psicologico, lo ritengo qualcosa di assolutamente improponibile in una democrazia. Anche perchè, come è evidente, l’accertamento di tutti questi requisiti non potrebbe che essere accertato attraverso un inevitabile giudizio di valore che per forza di cose il giudice sarebbe chiamato a formulare, ed in ciò potrebbe inconsciamente essere influenzato dalle proprie idee, dalla prorpria cultura o semplicemente dalla propria formazione. Sicché, come sostiene giustamente Massimo Adinolfi, non tutte le materie avrebbero lo stesso trattamento.
    Ma al di la di questo, la libertà di stampa, di parola, di pensiero costituiscono degli elementi strutturali, costitutivi di un sistema democratico, limitando i quali verrebbe meno la stessa democrazia.
    E’ ovvio che ognuno poi si assumerà la responsabilità delle opinioni che esprime, ma il giudizio e le conseguenti sanzioni, saranno date, a seconda dei casi, dall’opinione pubblica, dagli elettori, dalla critica ecc. La responsabilità penale va individuata in ben altri comportamenti.
    Per cui, parafrasando il poeta, lasciamo libero ognuno di dire la sua, anche se non ne condividiamo le opinioni.

  2. Se mi chiedo cosa vorrebbero dimostrare questi due articoli, devo arrivare alla conclusione che personalmente non mi è facile capirlo.
    Senza offese, mi sembra che ci sia una serie di ragionamenti che rischia il corto circuito.
    Sarà che ragiono da “scienziato” o, al piu’, da comunicatore di scienza. Sarà, ma non ho capito se secondo Pecorini o la Muraro sia giusto che Irving venga sanzionato penalmente.

    Qualcuno mi sa rispondere?

    Sull’articolo di Adinolfi, poi, ho gravi riserve, se ho capito bene il senso delle sue parole.

    Innanzi tutto:
    “Il fatto è che non è così. Nei libri di testo, nei programmi televisivi, nelle chiacchiere al bar, l’opinione di Irving è trattata per quel che è, anche senza il ricorso alla giustizia penale. Non è vero che versiamo in un imperdonabile indifferentismo.”
    Mi chiedo qui di cosa stia parlando. Pare che ovunque si sia convinti dell’entità della Shoah. Be’, non è così, anzi, sono io a dire che
    “Il fatto è che non è così.”
    Non solo, ma non si è neanche convinti che la Shoah vada condannata in toto. Un mio alunno, l’anno scorso, dopo aver visto l’ennesimo film sulla Shoah nella settimana per la Memoria, mi ha chiesto seriamente se io stavo con gli ebrei o con Hitler.
    E non a caso ho scritto “ennesimo” e “settimana” perchè negli ultmi anni sono aumentati enormemente nella scuola – così come in tivu’ – i filmati su nazismo, fascismo, seconda guerra mondiale e Shoah. E la giornata della Memoria è diventata quasi una settimana perchè la proiezione di film, la visita di mostre, le lezioni ecc. proseguono per piu’ giorni.
    Questa almeno è la mia esperienza.
    E aggiungo a quanto dice la Muraro che in questi anni, a mio parere, è cresciuta una visibile insofferenza verso gli ebrei nei ragazzi adolescenti.
    Non mi si fraintenda: si tratta comunque di una minoranza, ma a mio modo di vedere crescente.
    A mio parere tutto questo è correlato con l’eccesso di informazione sul tema della Shoah. Una sovraesposizione, direi. A cui va aggiounta la retorica ad esso spesso associata nelle aule scolastiche, nonché, a volte un preteso “dovere di ricordare” che è a mio modo del tutto nocivo e privo di fondamento etico.
    A questo punto, prima che diciate che io sia favorevole alla rimozione di questo tema dall’ambito educativo, preciso che sono favorevole a trattare il tema, sono anzi convinto che sia un dovere trattarlo, soprattutto con l’esperienza diretta: visita ai campi di concentramento, dialogo con i sopravvisuti, visone di spettacoli teatrali tipo quelli di Moni Ovadia. Anche film, per carità, purchè non si esageri, purchè la si smetta con retorica e moralismo, basta Male assoluto, basta Dovere di ricordare.

    In secondo luogo:
    “Non so a voi, ma a me sembra che dopo un lungo periplo la Muraro abbia trovato una buona definizione per quel che c’è già, ovvero le società liberal-democratiche. Le quali, quando funzionano, sanzionano in forme diverse dalla condanna penale l’opinione falsa e chi la difende, coinvolgendo la comunità dei parlanti invece che i tribunali.”
    Democratico è solo uno il quale ritiene che la democrazia selezioni verità, proprio come autocratico è chi ritenga che sia l’autocrate a selezionare la verità per tutti.”
    Queste frasi mi sembrano difficilmente condivisibili. La democrazia seleziona (per lo meno a maggioranza) molto spesso falsità, non verità. E non ci si può appellare a un ideale stato liberal-democratico che non esiste.

    Non possiamo, a mio parere districarci da questo ginepraio senza dicutere cosa sia la verità, quanto sia appurabile la verità. E questo discorso, orrendamente complicato, non dovrebbe essere disgiunto dal linguaggio (cioè il mezzo che abbiamo per comuncare la verità).

    La scienza ha rinunciato alla pretesa di avere la verità assoluta e a voltre mi chiedo se filosofi e storici (e scienziati) se ne siano accorti. (“Che cosa c’è di diverso, in questa proposta, dal processo che porta la società scientifica a stabilire il vero/falso?” scrive la Muraro.)
    Tuttavia è pur vero che alcune proposizioni vengono considerate fatti, non teorie o opinioni. D’accordo, ma anche sui, “fatti”, bisognerebbe fare dei distinguo – difficilissimo – in base al grado di verità loro intrinseco, che si può stabilire ahimè solo approssimativamente, forse arbitrariamente.
    Faccio un esempio:
    Che Napoleone sia morto è un fatto certo.
    Che ebrei siano stati uccisi a milioni dal nazismo è altrettanto certo.
    Che ne siano stati uccisi 6 milioni è un enunciato che contiene minor verità perchè la cifra è stata approssimata e non credo tutti gli storici siano d’accordo su un numero esatto, tipo 6.096.342 E questo vale per tutte le grandi cifre. (tipo morti di una guerra ecc.)
    Infine, se andiamo a parlare di fatti avvenuti molto tempo fa, i gradi di verità diminuiscono inevitabilmente, per non dire poi delle teorie e dei “fatti” scientifici.
    Si aggiunga che vi sono sempre state verità omesse dalla società, dalla scuola ecc. E si consideri anche il fatto che le verità omesse condizionano il giudizio (privando l’esercizio di comparazione) sulle verità piu’…vere!
    E infine, si consideri che molte presunte verità (che – per la …verità erano verità di grado molto basso – sono state poi smentite dalla scienza o dalla ricerca storica e si arriva alla conclusione che ogni discorso sulla verità è un discorso piu’ o meno approssimato, piu’ o meno vero.

  3. Caro Lorenzo Galbiati, se “ragioni da scienziato”, l’affermazione di Massimo Adinolfi: “Nei libri di testo, nei programmi televisivi, nelle chiacchiere al bar, l’opinione di Irving è trattata per quel che è” devi contestarla citando libri di testo e programmi televisivi nei quali l’opinione di Irving non sia “trattata per quel che è” (la parte relativa alle “chiacchiere al bar” è, per ragioni pratiche, inverificabile e infalsificabile). Oppure puoi avanzare l’ipotesi che sia un’affermazione avventata (possiamo scommettere che Massimo Adinolfi si sia basato sulle sue esperienze di lettura e non su un’indagine a tappeto su libri di testo e programmi televisivi); e doppiamente avventata, anzi, perché la condanna è avvenuta in Austria, e bisognerebbe pur andare a controllare come l’opinione di David Irving è trattata nei libri di testo e nei programmi televisivi austriaci.
    Nel tuo commento all’affermazione di Massimo Adinolfi (cioè, nel tuo intervento, da “Mi chiedo qui di cosa stia parlando” a “basta Dovere di ricordare”) non c’è traccia di questo. Riferisci alcune esperienze personali, esprimi dei pareri (“A mio parere”, dici; “A mio modo di vedere”), ma non dici nulla che possa sollevare dubbi sull’affermazione di Massimo Adinolfi. (Ciò che io ho scritto qui ora, invece, li solleva).
    Non avrei scritta questa pedante postilla se tu non avessi dichiarato: “Sarà che ragiono da ‘scienziato’ ” (l’hai dichiarato riferendoti all’articolo di Luisa Muraro, certo; ma credo di poter presumere che, se uno dichiara di “ragionare da scienziato”, questa dichiarazione valga almeno per l’intero testo che la contiene – poi, in altri testi, o in altre situazioni della vita, uno può ragionare da innamorato, da tifoso, da credente-in-dio ecc.).

  4. “Non è vero che versiamo in un imperdonabile indifferentismo, e non è vero non solo nelle materie di fatto, ma neanche nelle materie di valore”.

    Da quanto messo tra virgolette qui sopra non ne consegue necessariamente questo qui sotto:

    “Potete verificarlo da voi stessi con il piccolo esercizio seguente: scegliete anzitutto una qualunque materia, empirica o valoriale, e guardatevi intorno per verificare se tutte (ma proprio tutte) le opinioni relative a quella materia ricevano lo stesso trattamento, abbiano il medesimo spazio nella vita pubblica, siano parimenti accolte e godano effettivamente dello stesso credito, nei luoghi di formazione del consenso o anche solo nei luoghi che voi abitualmente frequentate. Se trovate una roba del genere, per favore mandatemi una mail”.

    Strano modo di fare deduzioni.

    D’altra parte basterebbe osservare ciò che accade alla psiche quando il bombardamento della presunta comunicazione (è solo informazione) colpisce l’apparato percettivo.

    La coscienza in psicoanalisi di Antonio Alberto Semi.

  5. Sul primo punto sollevato da Lorenzo Galbiati, la risposta di Giulio Mozzi mi soddifa. Sul secondo punto (“Democratico è uno…”), credevo fosse chiaro dal soggetto della proposizione (e dal contesto) ma preciso volentieri: non parlo di stati ideali, ma neppure dico con l’affermazione citata quel che una democrazia fa, bensì solo quale genere di discorso ha forza di legittimazione della democrazia. (Chi pensasse che la democrazia seleziona anzitutto o soprattutto falsità, difficilmente avanzerebbe questo discorso per legittimare una scelta per la democrazia, mi pare).
    Vorrei poi rassicurare Lorenzo Galbiati: i filosofi si sono accorti di molte cose, anche senza ragionare da scienziati ma a volte semplicemente ragionando. (E per esempio sulle verità ne dicono di cose).
    A Luminamenti (che saluto) dico solo: quella che chiama una ben strana deduzione non è una deduzione.
    (A Giulio Mozzi: va bene che nazione indiana la leggo spesso e volentieri, però avvertimi!)

  6. Caro Giulio Mozzi, premesso che sono un docente abilitato all’insegnamento di scienze naturali nelle scuole secondarie, e che ho un master in comunicazione scientifica (giusto per far capire il perché del mio pretendere di ragionare da “scienziato”), premesso questo, se io leggo che “Nei libri di testo, nei programmi televisivi, nelle chiacchiere al bar, l’opinione di Irving è trattata per quel che è” io
    concludo, con un po’ di buon senso, che secondo Adinolfi OVUNQUE, l’opinione di Irving è trattata per quel che è: falsità (sottinteso).
    E lo deduco proprio perchè ci ha messo dentro le chiacchiere al bar, che reputo mediamente di minor livello culturale delle chiacchiere che ho fatto io (peraltro anche al bar) con studenti diplomandi, diplomati, laureati che non trattano l’opinione di Irving per quel che Adinolfi dice essere, anzi sottintende essere.
    Ragionando da scienziato, direi che questo basta, no?

    Teoricamente non ho nulla da eccepire al tuo discorso iniziale, ma nella sostanza mi sembra francamente ben povero.
    Scusa, ma io son certo dell’ “avventatezza del discorso di Adinolfi (certo con la certezza relativa che può avere un umano, spero di non dover fare sempre queste premesse), non ho bisogno della prudenza di “avanzare ipotesi” di avventatezza, vista la genericità del discorso che, se presa alla lettera, dovrebbe farci presupporre il fatto che conosca TUTTI I LIBRI DI TeSTO; TUTTI I PROGRAMMI TELEVISIVI; TUTTE LE CHIACCHIERE AL BAR.
    Che io sappia, di persone onniscienti – almeno in 3D – non ne esistono.
    E se esistessero, dovrebbero ammettere almeno delle eccezioni, quelle relative alla mia esperienza.

    Quindi, cerchiamo di rendere il discorso un po’ più profondo, e il senso di ciò che è scientifico un po’ più ampio di una logica di corto respiro.

    Ad esempio, potremmo continuare a ragionare “scientificamente”, pensando che se in una trasmissione televisiva si intervistano neonazisti o altri che negano la Shoah, ridimensionandola
    drasticamente, di fatto si dà voce a un’altra possibilità interpretativa, che rende la certezza, la “verità” della Shoah, meno certa del caso in cui non fossero mostrati pareri difformi, anche se stigmatizzati.

    Sui libri di testo, ovviamente non ne conosco alcuno che neghi la Shoah, ma possiamo affermare che non possa esserci in futuro un ministro, che so, neonazista in Europa che voglia affiancare una “teoria” storica alternativa che ridimensiona molto il numero delle vittime ecc?
    E qualcuno potrebbe vietare a uno storico o sedicente tale di pubblicare un libro indirizzato alle scuole con tali contenuti?

    Si potrebbe aggiungere che su internet, che forse conta come le chiacchiere al bar si legge già di tutto sulla Shoah.

  7. Non ho ancora letto i commenti qui sopra, ma voglio dire una cosa lo stesso.
    Mi interessa molto la formulazione di Adinolfi sulla democrazia come ambiente nel quale la verità emergerebbe per selezione naturale tra tutte le sue alternative, le quali, per un verso o per l’altro, proprio in quanto non-verità, sono menzogne o verità parziali.
    Il processo in cui “è coinvolta la comunità dei parlanti” della Muraro, sarebbe dunque pressoché un processo di selezione darwiniana.
    Ora mi domando: se è “l’ambiente democratico”, con la sua pluralità teoricamente infinita delle voci, che seleziona e modella costantemente la verità (facciamo finta che questa parola abbia un referente oggettivo), ogni alterazione di questo ambiente che punti alla diminuzione delle voci, produrrà verità incomplete, deformi, o addirittura menzogne.
    La forzatura in questo senso delle condizioni ambientali tipiche della democrazia, fa parte ormai dello stesso gioco democratico: l’ambiente produce i suoi modificatori – accade lo stesso “in natura”.
    Ma un’eccessiva modificazione ambientale – come sta accadendo oggi all’informazione in Italia, e come è forse fatale che accada nelle democrazie mediatiche, dove l’ambiente democratico tende a traslocare di sana pianta nella tv da dove agisce sull’immaginario individuale – seleziona menzogna.
    Arrivo dunque all’ovvio: per questo occorre temere Berlusconi.

  8. Ricambio i saluti all’acuto Massimo Adinolfi e aggiungo che non mi convince neanche la brava Muraro. L’idea che propone intorno alla verità sa di sintesi hegeliana, e siccome della verità ho una idea “in negativo”, che non mi sembra emerga neanche nel discorso di Adinolfi, non posso condividerlo.

  9. Caro Lorenzo Galbiati: sì, “questo basta”. Ma andava detto.
    Poi dico: “questo non basta”, e mi faccio una domanda: posto che le “chiacchiere al bar” sono un fenomeno assai difficile da studiare (per la loro labilità ecc.); posto che le personali esperienze di conversazioni con Tizio e con Caio possono suggerire ipotesi di ricerca, ma è meglio che non ci portino a immediate conclusioni; sarei curioso di sapere se “nei libri di testo,” e “nei programmi televisivi”, almeno italiani, effettivamente “l’opinione di Irving è trattata per quel che è”. Oppure (non è esattamente la stessa cosa, ma è analoga) sarei curioso di sapere qual è la penetrazione dell’ “opinione di David Irving” all’interno della comunità scientifica (intendo gli storici, principalmente): se è presa in considerazione (per sposarla o per “trattarla per quel che è”) o se viene semplicemente ignorata, ecc.
    Presumo che, poiché ci sono studi praticamente su tutto, ci siano degli studi anche su questo. Se qualcuno ha informazioni e me le passa (anche privatamente: giuliomozzi[at]gmail.com), lo ringrazio.

  10. Caro Mozzi, mettendo su google “franco cardini libro irving” ecco la prima voce.

    “IL GIORNALE”
    Milan, 12 April 2000

    ————————————————————————–
    I guidici contro Irving

    “Ha negato l’Olocausto”

    FRANCO CARDINI

    Caro direttore, Il professor David Irving, noto e discusso contemporaneista inglese, e’ senza dubbio un personaggio inquietante. Non e’ qui in causa la sua serieta’ scientifica: si tratta di un ottimo ricercatore, di un brillante scrittore, di uno studioso spregiudicato. Forse, fin troppo spregiudicato: se e’ possibile esserlo nel mondo degli studi. In realta’, tale mondo dovrebbe essere completamente libero da pregiudizi di sorta. Ma la realta’ e’ un’altra.

    La vera colpa di David Irving sta forse nell’avere scritto anni fa un bellissimo libro, Apocalisse a Dresda. La denunzia implacabile, sistematica, documentata, del terribile bombardarnento che nel febbraio del ’44 distrusse la bella citta’ tedesca annientando in poche infernali ore centinala di migliaia di persone, la stragrande maggioranza delle quali profughi inermi.

    David Irving ha poi continuato la sua brillante ma contrastata carriera redigendo vari studi dedicati principalmente al nazionalsocialismo e alla biografia di alcuni suoi principali leaders. Non c’e’ dubbio che dalle pagine, sempre documentate e spesso originali, dello storico risulti una certa simpatia per l’oggetto privilegiato dei suoi studi, il nazismo. Ma, si sa, gli studiosi si innamorano un po’ sempre dei loro oggetti di studio. Il fatto e’ che il professor Irving e’ una specie di dottor Jekyll, assolutamente serio e scrupoloso nel suo lavoro ma che pare talvolta si muti in un enigmatico signor Hyde, vestito di giacconi di pelle, che se ne va in giro per le strade di Londra magari in poco raccomandabile compagnia di ragazzacci neonazisti.

    In fondo, finche’ il signor Irving continuera’ a scrivere discutibili ma tutto sommato serie e documentate opere di storia non si rendera’ responsabile di crimini: la sua vita privata e’ affar suo. Pero’ e’ strano. Non so dire se davvero Irving si puo’ ritenere un negazionista, cioe’ uno di qucgli studiosi o sedicenti tali che negano l’Olocausto e tendono in genere a ridurre le responsabilita’ criminali naziste. Per quel che ho letto, posso ritenere che Irving vada collocato in quell’ambito degli studiosi cosidetti revisionisti, tenendo pero’ conto che anche tale categoria e’, scientificamente parlando, abbastanza bislacca. E’ fresca d’agenzia la notizia che l’Alta Corte di Londra ha dato torto a Irving, il quale aveva querelato una sua collega statunitense, la signora Deborah Lipstadt, che gli aveva dato senza cerimonie del neonazista. A questo proposito e’ forse necessario fare un paio di considerazioni.

    Una prima, in favore della sentenza. E’ molto pericolosa la tendenza, che si registra anche nel mondo degli studi, di ricorrere agli strumenti giuridici della diffida o della querela come complemento alla discussione. Mi chiedo dove andremmo a fmire, nella necessaria libera dialettica degli studi, se al gia’ rovinoso politically correct si aggiungesse un demenziale juridically correct se cioe’, voglio dire, gli studiosi prendessero l’abitudine di difendere le loro ricerche e le loro tesi non gia’ presentando sempre piu’ convincenti argomenti a sostegno di esse, ma ricorrendo in tribunale contro i colleghi di differente avviso. Una seconda, contro la sentenza e un pochino anche contro la Signora Lipstadt. In effetti. quel che si dovrebbe fare quando si parla di storia, e specialmente di quegli argomenti storici che ci toccano da vicino e che bruciano ancora – e il nazismo e’ forse il primo di essi – si dovrebbe resistere alla tentazione dl ricorrere alle etichette definitorie e talvolta diffamatorie e limitarsi alla lettura dei documenti e ai fatti che da essi emergono. Non credo che la tesi dell’interlocutrice americana dello storico inglese avrebbe sofferto se, anziche’ ricorrere a definizioni che sembrano denunzie – e che anzi, a dir la verita’, hanno il sapore dell’intimidazione e del ricatto intellettuale – si fosse attenuta alla discussione dell’oggetto storico di comune interesse.

    Si sta da piu’ parti delineando in questi ultimi anni – e la ridicola polemica sul cosiddetto revisionismo ne e’ la palestra principale – una preoccupante tendeuza al terrorismo accademico e intellettuale. Davanti a tesi o anche a semplici ipotesi che paiano in qualche modo modificare una visione ormaa vulgata della storia, si registra sempre piu’ spesso una reazione scomposta e isterica. Non ha senso dare del neonazista a chiunque modifichi, alla luce di nuovi documenti o di nuove interpretazioni, una visione della storia che per piu’ versi appare in effetti ideologicamente forzata e moralisticamente manichea. Del resto, i poveri morti di Dresda, vittime di un bombardamento criminale, non servono a spostare nemmeno di un millimetro le pesanti responsabilita’ del nazismo dinanzi all’umanita’ e alla storia. Non si rimedia con un cumulo di morti di un certo segno politico alla realta’ di un cumulo, magari ancor maggiore, di morti di altro segno. Questa contabilita’ funebre e’ davvero repellente.

    C’e’ solo un modo per spuntare le armi degli studiosi revisionisti. Scrivere libri migliori dei loro, dimostrare con maggiore ragione di loro il proprio assunto. Altrimenti di Irving, etichettato terroristicamente dai colleghi e penalizzato dalle corti di giustizia britanniche, si rischia di fare a torto o a ragione una vittima: e c’e’ sempre qualcuno disposto a simpatizzare con le vittime. Gli studiosi come Irving vanno ascoltati, scientificamente controllati, intellettualmente contestati. Se e quando hanno torto. E non e’ detto che ce l’abbiano sempre e del tutto. Il resto e’ una perversa abitudine ideologico-intellettuale alla repressione inquisitoriale che deve essere a sua volta condannata e repressa. In futuro, la signora Lipstadt – vittoriosa in tribunale – si limiti ad esporre fatti e a organizzare tesi storiche piu’ convincenti di quelle del suo avversario. Tutto cio’ sara’ sufficiente: e sara’ meglio anche per la sua rispettabilita’ scientifica, che forse e’ alta, ma alla quale la sentenza britannica nulla di positivo aggiunge.

    Franco Cardini is a very well-known Italian medieval historian. Il Giornale is the third Italian national newspaper, after Il Corriere della Sera and La Repubblica

  11. Saggio discorso quello di Cardini, che fa la differenza tra l’indifferenza dominante

  12. Vale la pena dire la mia sulla lettera di Cardini, premettendo che non sono uno storico e che non ho letto alcun libro di Irving (mi sono limitato a cercare di seguirne la vicenda leggendo vari articoli su di lui)

    1. E’ vero, il ragionamento di Cardini è in apparenza intellettualmente onesto libero da pregiudizi, ma solo se si sposa il suo dicustibile assunto iniziale: “Non e’ qui in causa la sua serieta’ scientifica: si tratta di un ottimo ricercatore, di un brillante scrittore, di uno studioso spregiudicato.” e ancora: “David Irving ha poi continuato la sua brillante ma contrastata carriera redigendo vari studi dedicati principalmente al nazionalsocialismo e alla biografia di alcuni suoi principali leaders. Non c’e’ dubbio che dalle pagine, sempre documentate e spesso originali…”
    Io, per le idee che mi son fatto finora, dubito molto della serietà scientifica dello studioso Irving e anche della sua volontà di documentare nel modo più completo possibile i fatti di cui tratta.

    2. Mi sembra ancor più discutibile – e nella sostanza pericolosa – la posizione di Cardini secondo cui Irving andrebbe collegato tra i “revisionisti” piuttosto che nei “negazionisti” della Shoah, anche perché, ponendo in questo modo il discorso, Cardini ha concluso che “C’e’ solo un modo per spuntare le armi degli studiosi revisionisti. Scrivere libri migliori dei loro, dimostrare con maggiore ragione di loro il proprio assunto”. Ora, questo discorso forse potrà valere per il bombardamento di Dresda (non lo so, sono ignorante in tal caso), o per altri fatti discussi e discutibili, ma può valere anche per la Shoah?
    Se sì, si dovrebbe concludere che Cardini considera le tesi di Irving in proposito valide e degne di discussione, tanto che dovrebbero essere gli altri storici a doverlo smentire, ad avere “l’onere della prova”.
    E’ accettabile una simile posizione?
    Peraltro non si è ancora capito se Irving abbia ritrattato e ammesso la Shoah alla luce di nuovi (per lui, suppongo) documenti: al processo disse di averlo fatto ma recentemente pare tornato a dire che i morti di Auschwitz furono molti meno di quanto si dica. E ridurre di molto significa, a mio parere, negare di fatto la Shoah, che era un piano programmato di sterminio.

  13. palla al centro per me vuol dire che l’arbitro è Adinolfi. Quello che dice Galbiati è giustissimo de facto, ma il de jure lo dà Adinolfi, non la Muraro il cui ragionamento è più pericoloso di quello di Cardini, che tolti gli apprezzamenti filistei regge al 100%. Democrazia, in concreto questa volta e cioé qui, significa combattere col ragionamento, l’impegno ecc. i negazionisti lasciando loro il diiritto di scrivere, parlare ecc. Altrimenti bisognerebbe vietare Mein Kampf prima di Irving… e non sarebbe più finita (o finita subito, in una Repubblica platonica, magari di donne).

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