Sternstunden
di Sergio Garufi
Sternstunden è una suggestiva espressione tedesca che significa, letteralmente, “le ore della stella”. In senso più estensivo, viene generalmente intesa come una sorta di epifania esistenziale, qualcosa che sta ad indicare un momento o un incontro che illuminano un destino. E’ un concetto molto romantico che trova però rarissimi riscontri nella quotidianità, e che viene difatti adoperato in letteratura come espediente retorico per riassumere una vita intera attraverso la narrazione di un singolo episodio; come capita in molti racconti e saggi di Borges (vedi Biografia di Tadeo Isidoro Cruz, Emma Zunz e La forma della spada).
Nel caso fortunato di Emir Rodriguez Monegal, quell’istante fatale verso il quale tutto il tempo converge, preparandolo e subordinandovisi, si verificò realmente; e la sua vita ci dimostra come l’attimo cruciale in cui il destino di una persona si compie e si rivela può anche originarsi dalla semplice lettura di una recensione. Prima di diventare uno dei più autorevoli studiosi di letteratura ispanoamericana contemporanea, di ottenere la cattedra a Yale e di scrivere fondamentali biografie e saggi su Borges, nel 1936 Rodriguez Monegal era un ragazzo di appena 15 anni che viveva a Montevideo e coltivava una grande passione per i libri. Nell’ottobre di quell’anno ebbe l’occasione di leggere una rivista intitolata El Hogar (Il Focolare domestico). Si trattava di un periodico illustrato rivolto soprattutto a un pubblico femminile della media borghesia argentina, del tipo di quelli che oggi si sfogliano distrattamente dal parrucchiere o nella sala d’attesa di uno studio medico.
In mezzo a servizi il cui tema era il trucco, l’abbigliamento, le ricette di cucina e l’ultima moda in fatto di acconciature vi era pure una piccola rubrica culturale, la cui sezione “Libri e autori stranieri” era curata da Jorge Luis Borges. In quella smilza paginetta l’argentino faceva il critico militante, segnalando al lettore le opere e gli scrittori del panorama letterario internazionale che riteneva più interessanti e meritevoli di attenzione. Grazie a quelle recensioni, Rodriguez Monegal ebbe la sua “ora della stella” e ne fu folgorato. Persuaso di trovarsi di fronte a un grande talento letterario, l’imberbe ed entusiasta uruguagio s’informò sull’opera di quell’oscuro recensore e passò quindi alla lettura di saggi più articolati, tipo quelli apparsi sulla rivista Sur, e in seguito a libri come Inquisizioni e Storia universale dell’infamia, eleggendo Borges a proprio mentore. Ma ancora in età matura, cioè quando scrisse la biografia di Borges nel ’75 (qui edita da Feltrinelli), Rodriguez Monegal continuava a pensare che quei brevi e illuminanti articoli costituissero “la migliore introduzione possibile alla sua opera”.
Le ragioni per cui Borges critico viene quasi sempre relegato in secondo piano rispetto al narratore e al poeta non sono chiarissime. Forse dipende dal fatto che in molti studiosi è ancora diffusa l’opinione di considerare il saggio borgesiano non come un’entità propria, un genere a sé stante, bensì come un complemento utile per la comprensione dei suoi racconti e poemi; niente di più che un mero strumento a disposizione dell’autore per enunciare la sua poetica. Va da sé che questo modo semplicistico e riduttivo di intendere la sua attività di critico non spiega il fascino indiscusso che questi scritti esercitarono su molti giovani del tempo. Stese con uno stile brillante e originalissimo – che Vargas Llosa definì “uno dei miracoli estetici del Novecento, che ha sgonfiato la lingua spagnola dall’elefantiasi retorica, dall’enfasi e dalla reiterazione che l’asfissiavano, depurandola fin quasi all’anoressia e obbligandola ad essere luminosamente intelligente” -, quelle indicazioni di lettura furono per molti argentini come i chicchi di Hansel e Gretel: guida e nutrimento insieme; e contribuirono non poco a sprovincializzare una cultura troppo spesso ripiegata su se stessa.
Ma il meglio del Borges critico non risiede solo nei Testi prigionieri, che è il titolo del bel volume pubblicato da Adelphi in cui sono raccolte quelle recensioni, ma anche nei Prologhi con un prologo ai prologhi, dati alle stampe pochi mesi fa dal medesimo editore. Corredato da un pregevole studio dell’ispanista Antonio Melis, questo testo riunisce trentotto saggi introduttivi redatti da Borges nell’arco di circa mezzo secolo. Sovente, come ammette l’autore all’inizio del libro, “il prologo confina con l’oratoria del dopotavola o con i panegirici funebri, e indulge a iperboli irresponsabili che la lettura incredula ammette come convenzioni del genere”, ma “quando gli astri sono propizi il prologo non è una forma subalterna del brindisi, è una specie collaterale della critica”. E’ il caso appunto di questi Prologhi, non di rado più affascinanti degli stessi libri di cui si occupano; come peraltro dimostra l’incarico che, in anni più recenti, l’editore Franco Maria Ricci affidò a Borges di selezionare e introdurre le opere di una sua collana intitolata “La biblioteca di Babele”; libri che molti acquistavano meno per il testo in sé che per le presentazioni dell’argentino. In un periodo come questo, in cui la critica militante sui giornali si fa sempre più spesso a colpi di pettegolezzi e di sensazionalismo, fornendo così un perfetto esempio di litterature (nel senso attribuitogli da Lewis Carroll, cioè da litter, spazzatura); questa raccolta di brevi e densissimi saggi borgesiani, con il suo stile lucido e misurato, restituisce dignità ed autorevolezza ad un’attività che nacque come servizio al lettore, non come suo sfruttamento.
Da Cervantes a Ray Bradbury, da Kafka a Macedonio Fernandez, i Prologhi testimoniano un’erudizione sterminata e una vastità di interessi che spaziavano indifferentemente dai classici ai contemporanei, dalla letteratura argentina a quella straniera. Paradossalmente, proprio la insaziabile curiosità verso la letteratura di oltre confine valse a Borges l’infamante epiteto (pronunciato da Carmelo Samonà) di “scrittore coloniale”, con il quale lo si accusava in sostanza di essere troppo cosmopolita (sempre che ciò possa essere un difetto), perché privilegiava “la cultura della metropoli, cioè dell’Europa, rispetto a quella autoctona”. Queste polemiche pretestuose e insensate, esaminate con acume da Michel Berveiller in un voluminoso saggio (Le cosmopolitisme de Borges, Didier, 1975), erano per la verità nient’altro che le conseguenze di un’ubriacatura ideologica che adesso, per fortuna, pare definitivamente smaltita.
Con la pubblicazione di questo prezioso volume di Prologhi, solo apparentemente un testo “minore”, Borges offre ora, intera e compiuta, la sua parabola artistica alla pacata valutazione dei critici e dei lettori, affinché la giudichino il più possibile al di fuori di schemi e di miti. Certo, il bilancio finale del contributo che lo scrittore argentino ha dato alla letteratura del Novecento spetterà come sempre al tempo, e la fama sarà ancora una volta di natura pendolare, fatta di eclissi e di ritorni, come per ogni valore del passato. Quale che sia il responso, quel che ci sembra di poter affermare da subito, però, è ciò che lui stesso disse, in Altre inquisizioni, di un classico come Quevedo, e cioè che Jorge Luis Borges è oggi “meno un uomo che una vasta e complessa letteratura”.
(pubblicato su Stilos, Novembre 2005)
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Bellissimo!
Bellissima la recensione. Belllissimo l’aneddoto. Grandissimo Borges e Sergio Garufi che ce lo ricorda.
Chissà che oggi, un solitario navigatore di siti web, non trovi proprio in questo scritto il suo sterstunden …
Complimenti.
Sono andato a rileggermi tutte le introduzioni di Borges ai trenta volumetti della Biblioteca di Babele, e ho ritirato fuori i saggi e le interviste di Rodriguez Monegal, i testi di Macedonio Fernandez, di Félisberto Hernandez comparso all’improvviso dalla polvere degli anni (ricordate quel meraviglioso libro che è “Nessuno accendeva le lampade”?): tutto per rivivere il senso di una delle sternstunden della mia vita di lettore, e non solo, insieme allo stupore di fronte alle pagine di El Aleph scoperto per caso a quindici anni. Grazie, Garufi, per questo piccolo magico scritto: gli aggettivi usati da Girolamo Lazoppina sono anche i miei.