Da recitare nei giorni di festa
di Giuliano Mesa
I
Dopo che l’afa prosciugò la gioia
e i bambini tacevano, assopiti sull’erba.
Il cane la tovaglia le racchette.
Passato via, il tempo, di qualcuno.
Le carezze. E i ceri che non ardono.
Fuoco, davvero, tutto in fiamme.
Il bosco e il prato, le racchette.
Chi aveva portato melagrane,
chi limoni, e poi delle focacce,
il vino nuovo.
Però quel caldo, d’autunno,
chi se lo aspettava?
(Ein schöner Feiertag
während das Feuer brannte)
II
Mé pêder l’ê gnu a tórom
Mo l’ê ’rivê ’l dé dop.
I tedesch i m’ìven bèle purtê via.
“Caro Giacomo,
ti mando questa lettera
per farti sapere
che mi trovo bene.
Non mi parli dei fratelli
e o paura che se trovano
sotto alearmi
e che vi trovate in brutte condizioni
con la guerra.
Se il signore mi lasia la salute,
presto ritornerò,
e se potete
risparmiatemi un po di uva,
che per natale sono a casa.”
Fullen, Stalag Vic 23,
23 settembre 1944
III
Le artiglierie sparavano
e noi correvamo verso casa
nella tormenta di neve.
Le strade erano gelate.
Interminabili convogli.
Dai carri
cadevano bambini morti.
(und schön und schnell kam auch ihr Tod)
Ritornati in città, quelli ancora vivi,
sentivano il bosco bruciare.
Tutto crepitava, nelle strade,
nel caffè dove c’erano soltanto tre avventori
(un gobbo che rideva,
un ubriaco vecchissimo, una bambina scalza) –
ogni loro gesto
mandava fumo e odore di bruciato.
If the hoar frost grip thy tent
Thou wilt give thanks when night is spent
(und schön
und schnell)
IV
Il sogno è quello del cerbiatto,
quello che bruca, gli occhi sorridenti.
Però ha il ventre troppo gonfio
e da uno zoccolo esce un liquido scuro,
a fiotti. Dietro di lui
un uomo grande, incappucciato,
e un altro, mingherlino,
che si gratta le ascelle.
Il sole, alto nel cielo –
il cielo è azzurro –
all’improvviso non c’è più.
Dai rami cadono fiocchi di neve,
dolci, zuccherati.
Il cerbiatto si sdraia su un fianco,
apre la bocca
e mangia la neve che cade.
I due uomini hanno scavato una tana.
Il mingherlino raccoglie rami secchi.
Quello grande rattoppa una camicia.
Poi è buio nero. Squittiscono dei topi.
V
A Parigi César era povero.
Così scese giù in strada
con la bottiglia di vino
che gli era rimasta
per venderla ai passanti.
Poi cambiò idea, il cholo,
e rientrò, a bere il vino
insieme con Georgette.
Me moriré en Paris con aguacero.
E così accadde. Scrisse anche
Niños del mundo,
si cae España,
e cadde, Spagna, e dopo
i suoi nemici
strinsero un patto, e gli altri,
altri nemici, li guardavano,
sperando che finisse tutto lì
(Varsavia a uno, all’altro qualcos’altro).
I vsë na svete naisnanku,
scriveva Osip a Voronež,
e voleva studiare lo spagnolo,
nel dicembre del 1936.
Invece gli insegnarono a tacere,
giusto due anni dopo,
in una baracca di legno
fra la neve,
vicino a Vladivostok.
César, sotto la pioggia d’aprile,
era già morto.
¡Cuidate
del futuro!
VI
A-ièren ‘na squèdra.
A-ghiven da scaver al fósi per i mort.
A-i fèven tóti bein squadredi.
L’era dvintê
Propria un bel simitèri.
I aparecc i gniven sò
e i mitraglieven.
(A gh’era di persunêr
ch’i-s mitiv’n in cò un giurnel, a-t capirê!)
A partiv’n a la matèina,
a scavéven al fósi.
Dop, inséma, agh-mitìven ‘na craus.
A stéven lè.
A sembréva
d’es’r a la fin dal mond.
VII
Boulevard Sébastopol, le sette e trenta,
le camionette della polizia
(la guerre, la guerre ne passait pas).
Più di mille, a sirene spiegate,
fucili caschi manganelli
(ils remontaient comme moi dans la ville,
au boulot sans doute, le nez en bas).
Alle sette e cinquanta la chiesa è circondata,
dopo venti minuti sono dentro
(i portoni li hanno aperti con grandi pinze rosse,
je l’ai remarqué).
Le donne cantano, Coindé – il prete – prega
(question de temps, seulement: souricière
au fond des boues tenaces et des banlieues insoumises).
Qualche minuto e poi le donne urlano,
piangono i bambini, e allora, ecco,
sparano i lacrimogeni, e quei dieci,
quelli che non mangiano da cinquanta giorni,
sempre fermi lì (j’ai essayé, c’est pas la peine).
Dopo, in trecento, tutti a Vincennes
(ça me rappelait les convois de la guerre).
Per i maschi adulti sono pronti i charter.
Il giorno dopo, verso sera, da Evreux ne parte uno,
per Bamako (on s’est pas fait d’adieux,
c’est pas la peine).
Le donne e i bambini, un centinaio in tutto,
li lasciano per strada, alcuni anche nel bosco.
Qualche bambino ha la bronchite, qualcuno la diarrea.
Qualche donna, rimasta sola, vaga per la città
(elle ne voulait plus mourir, jamais – elle
n’y croyait plus à sa mort).
A rue Pajol, il deposito ferroviario,
la polizia l’ha sùbito murato, con dentro
i bagagli di quelli là,
che stavano dentro Saint-Bernard
(plus de vie au monde pour personne
qu’un petit peu pour elle
et tout presque fini).
Elle ne voulait plus mourir,
jamais
VII
all’hóte dé r’ eniautòs éen, perì d’ étrapon hórai
mnenôn phthinónton, perì d’ émata póll’ etelésthe
ma quando un anno fu, e si voltarono le stagioni
dei mesi svanenti, e molti giorni terminarono
all’hóte dé r’ eniautòs éen… oh!
se tu fossi mio fratello,
allattato dallo stesso seno,
io ti potrei baciare
trovandoti per via.
Ti prenderei per mano,
ti porterei nella casa di mia madre.
Di te potresti raccontarmi,
bevendo una coppa di vino aromatico,
berresti il succo
delle mie melagrane…
23 – 24 agosto 1996
ai sans papiers
NOTE
I
20-21: Un bel giorno di festa / mentre il fuoco bruciava.
II
1-3: Testimonianza orale, nel dialetto di Salvaterra (provincia di Reggio Emilia), di mio padre sulla sua prigionia nei campi di concentramento nazisti fra il 1943 e il 1945: «Mio padre è venuto a prendermi / ma è arrivato il giorno dopo. / I Tedeschi mi avevano già portato via.»
4 sgg.: Da una lettera di mio padre spedita alla famiglia dal campo di Fullen. Nell’elenco dei campi di sterminio contenuto in Ideologia della morte di Domenico Tarizzo (Il Saggiatore, Milano, 1963) si trova questa descrizione: «FULLEN (Vestfalia), campo per ammalati (Lazarett) e di sterminio a pochi chilometri ad ovest di Meppen, lungo il confine olandese, costituito da sole 5 baracche di legno. Era conosciuto come il ‘Lager della morte’».
III
1-7: Da Doppelleben di Gottfried Benn. La descrizione, che riguarda la città di Berlino il giorno 24 gennaio 1945, è solo parzialmente utilizzata. «In der folgenden Nacht um fünf Uhr war dann Alarm, Artillerie-beschuß, und wir liefen mit einer Aktenmappe im Schneesturm bei zehn Grad Kälte zu Fuß nach Hause auf den vereisten Chausseen, verstopft von den endlosen Reihen der Trecks mit ihren Planwagen, aus denen die toten Kinder fielen.» (cito dalle Gesammelte Werke, hrsg. V. D. Wellershoff, Limes Verlag, 1961).
19-20: «Se la brina afferra la tua tenda / Renderai grazie che la notte è consumata»: sono i versi conclusivi dei Pisan Cantos di Pound (cito la traduzione di Alfredo Rizzardi).
V
1-8: Dalla biografia di César Vallejo: cfr. Georgette de Vallejo, César Vallejo. Obras completas, Laia, Barcelona, 1977, III.
9: «Morirò a Parigi sotto l’acquazzone»: è il primo verso di Piedra negra sobre una piedra blanca, 1936, di Vallejo.
11-12: «Bambini del mondo / se cade Spagna»: sono i primi due versi di España, aparta de mí este cáliz (1937) di Vallejo.
19: «tutto nel mondo è alla rovescia»: dai Quaderni di Voronež (1935-1937) di Osip Mandel’štam.
20-22: N. Stempel, in una testimonianza sul confino di Mandel’štam a Voronež, riportata nell’edizione italiana dei Quaderni (Mondadori 1995) ha scritto: «Ricordo come lo turbarono i fatti di Spagna. Iniziò addirittura a studiare lo spagnolo».
23-27: Mandel’štam morì il 27 dicembre del 1938 nel lager di transito di Vtoraja Recka, presso Vladivostok.
28-29: Vallejo morì a Parigi il 15 aprile del 1938.
30: «Stai attento al futuro!»: è il verso conclusivo di España, aparta de mí este cáliz.
VI
«Eravamo una squadra. / Dovevamo scavare le fosse per i morti. / Le facevamo tutte ben squadrate. / Era diventato / proprio un bel cimitero. // Gli aereoplani scendevano in picchiata / e mitragliavano. / (Alcuni prigionieri / si coprivano la testa con dei giornali, capirai!) // Partivamo la mattina / scavavamo le fosse. / Poi, sopra, ci mettevamo una croce. // Stavamo lì, / sembrava di essere alla fine del mondo»: dalla testimonianza orale di mio padre riferita al campo di Fullen.
VII
I versi in italiano sono basati sulle cronache giornalistiche – in particolare quelle di Anna Maria Merlo ne «il manifesto» – dello sgombero messo in atto dalla polizia parigina il 23 agosto 1996 nella chiesa di Saint-Bernard per scacciarne i sans papiers che l’avevano occupata per protestare contro le cosiddette «leggi Pasqua».
I versi in francese sono tutti ricavati dalle frasi che chiudono le «lasse» del Voyage au bout de la nuit, 1932, di Céline. Ne do qui una versione indicativa: «la guerra, la guerra non finiva»; «l’ho notato»; «questione di tempo, soltanto: trappola nel fondo delle fanghiglie tenaci e delle periferie ribelli»; «ho provato, non ne vale la pena»; «lei non voleva più morire, mai più – non credeva più alla sua morte»; «non più vita al mondo per nessuno, solo un poco per lei e tutto quasi finito»; «lei non voleva più morire, mai più».
VII
1-2: I versi – formulari – sono tratti da Esiodo, Teogonia, 58-59 (cfr. M. L. West, Hesiod Teogony, Oxford, Clarendon Press, 1966) e sùbito seguiti dalla versione, postuma, di Cesare Pavese (Einaudi 1982).
6 sgg.: E’ un adattamento dal Cantico dei Cantici, VIII, 1-2, verificato sulla Septuaginta e sulla Vulgata e letto secondo la cosiddetta «interpretazione naturalistica» (condannata dal Concilio Ecumenico Costantinopolitano II nel 553 d. C.).
[Giuliano Mesa mi invia questa sequenza – scritta nel 1996 – in reazione alla lettura di questa poesia. Lo ringrazio.]
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La forza della parola poetica di Giuliano è in questa prospettiva di scrittura, ligne de fuite – studio e vita- che raramente (in Cepollaro sicuramente) ho potuto sentire leggendo altri versi. C’è il rigore del senso. Ogni poeta dovrebbe al termine di una scrittura chiedersi: questa poesia ha un senso?
La scrittura di Giuliano non solo ha un senso ma ce ne rende partecipi. E in quest’epoca confusa è già un buon “segno”
grazie a Giuliano e grazie ad Andrea
effeffe
Testi bellissimi, nei quali un furore quieto, come un fuoco che cova sotto la cenere, si trasforma in una vampata etica che illumina e riscalda. Una traccia oltremodo significativa, una scia di senso sulla quale incamminarsi.
…e in fm.
effeffe
le tragedie infinite del Novecento
onore al padre che ci onora
(e al figlio e allo spirito)