Vocazioni
di Sergio Garufi
Fra i molti meriti ascrivibili a Occidente per principianti, il bel romanzo di Nicola Lagioia, vi è anche quello, non irrilevante, di una sapiente maestria nella resa dei dialoghi. Più di mezzo secolo fa, in un brano famoso di una missiva a Milton Hindus (in Lettere dall’esilio), Céline chiarì molto efficacemente in cosa consistessero i problemi inerenti la mimesi dell’oralità. Per illustrare questo concetto, lo scrittore francese si servì dell’icastica immagine di un bastone spezzato e immerso per metà nell’acqua. Solo rompendolo, e tenendo le due parti leggermente disgiunte, era possibile, per un effetto ottico, dare l’impressione che il bastone fosse integro. Allo stesso modo, la trasposizione del parlato nello scritto non è mai una semplice operazione meccanica – come se bastasse stenografare una conversazione e poi trasferirne il contenuto sulla pagina per ottenere il sapore dell’oralità -, bensì un adattamento fra ambiti diversi che richiedono perciò forme espressive specifiche. In questo senso, Céline ci spiega che per conseguire un effetto di spontaneità e verosimiglianza del parlato nel testo occorre manipolare la realtà, ricorrere a un artificio, “imprimere alle frasi e ai periodi una certa deformazione”, una torsione che traduca “la lingua in puro ritmo”.
Sull’importanza dei dialoghi in un romanzo si era soffermato a lungo pure Tondelli in un saggio incluso in Un week-end postmoderno, individuando in questi il punto debole più frequente nelle opere degli esordienti, sovente incapaci di caratterizzare un personaggio mediante le sue stesse parole. Lagioia, al suo secondo romanzo, ha fatto di più. E’ riuscito a restituire lo stile anacolutico, brachilogico e sincopato delle conversazioni per mezzo di quello che potremmo chiamare, con una definizione di Heidegger in Sein und Zeit (quando parla del circolo ermeneutico), un meccanismo di aspettative di senso. I discorsi dei suoi personaggi, difatti, sembrano a volte viziati da una carenza di attenzione. Prima ancora che qualcuno termini di esporre le proprie idee, l’interlocutore già ipotizza il proseguimento della frase, e, in base a quella congettura, o aspettativa di senso, comincia a pensare alla possibile replica od obiezione. Questa dialettica inceppata parrebbe figlia del cattivo gusto dell’era catodica, fatta di tempi strettissimi e di scarsa disposizione all’ascolto, in tutto simile alle caotiche chiacchiere da talk-show dominate dai battutisti e dai prevaricatori; se non fosse che già nel 1824 Leopardi lamentava, nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, l’assenza nel nostro paese della “civil conversazione”.
A cosa è dovuto allora il disinteresse che i personaggi di Occidente per principianti dimostrano verso l’interlocutore? A mio avviso a una dimensione solipsistica della vita, rinserrata in un’autoscopia che concede spazio unicamente ai loro interessi. E gli interessi coincidono quasi sempre, in questi trentenni, con le loro vocazioni artistiche, autentiche o presunte che siano. Chi è preoccupato solo del suo film, come Mario Materia, e chi pensa alla scrittura, come il ghost writer io-narrante della storia, costretto a scrivere articoli che saranno firmati da altri. E l’abilità di Lagioia si esprime anche nell’armonizzare, e rendere transitivo per il lettore, questo coro stonato di voci soliste, ciascuna impegnata a realizzare le proprie aspirazioni.
Cechov, di cui ricorreva l’anno scorso il centenario della morte, era ossessionato dal tema delle vocazioni. Penso a Il violino di Rotschild, in cui il fabbricante di bare è preda di rimorsi per non aver vissuto come avrebbe voluto o dovuto; o al tradimento delle vocazioni naturali di Gùrov e Anna ne La signora col cagnolino, in cui l’autore ravvisava la causa prima della loro infelicità. Tradimenti che si consumano per viltà, per convenienza, per paura di mettersi in gioco, e che generano frustrazioni, rimorsi e recriminazioni. Chi desiderava fare il cantante d’opera e ha finito per accettare un posto in banca, e chi ha barattato i suoi sogni di libertà e d’indipendenza per un matrimonio con un uomo mediocre però abbiente. Cechov stesso, che da giovane faceva il medico e scriveva a tempo perso mascherandosi dietro pseudonimi, fu sollecitato a dedicarsi con maggior impegno alla letteratura dall’apprezzamento e dal perentorio invito dell’illustre scrittore Dmitrij Vasil’jevic Grigorovic, che riconobbe in quei racconti scritti di getto i segni di “un talento sprecato”; com’ebbe a rimproverargli in una lettera del 25/3/1886.
Tuttavia esiste anche una frustrazione speculare e opposta, ossia quella di chi è dominato da aspirazioni inadeguate alle sue possibilità e si ostina ottusamente, malgrado i rifiuti reiterati e i pressanti inviti a desistere, a inseguire un sogno irrealizzabile, a coltivare un’ attitudine che non possiede; come nel romanzo The philosopher’s pupil di Iris Murdoch. Chi ha talento ma è privo di un Grigorovic che lo sproni e lo sponsorizzi, invece, il più delle volte è obbligato a mendicare ascolto e attenzioni a un mondo, quello editoriale, spesso freddo e indifferente con chi ne è escluso. Una delle testimonianze più amare di queste lamentazioni clandestine è probabilmente Lettere a nessuno di Antonio Moresco, diario di un penoso e interminabile calvario consumato fra redazioni, editor e grandi firme milanesi, in cui la supllica si evince meno dal tono, a tratti anzi risentito e forastico, che dall’assiduità delle richieste di ascolto. E non è un caso che il suo primo romanzo pubblicato, Gli esordi, si articoli in tre parti che trattano appunto il tema della vocazione (religiosa, ideologica e artistica).
Ma cos’è un’autentica vocazione, come riconoscerla? James Hillman la descrive come un demone che spinge per emergere, mentre Cristina Campo ne Gli imperdonabili la paragona a una musica, e scrive che “esiste per ciascun viandante un tema, una melodia che è sua e di nessun altro, che lo cerca fin dalla nascita e da prima di tutti i secoli”; aggiungendo che è inutile nascondersi, fingere di non sentirla, perché “il sottrarsi a una vocazione conduce, per necessità meccanica, proprio là dove più infuria il pericolo”. Gadda, che per assecondare la volontà della madre rinunciò a iscriversi alla facoltà di lettere e si laureò in ingegneria, in Racconto italiano di ignoto del novecento commenta da par suo uno dei capolavori del Caravaggio: la Vocazione di San Matteo nella cappella Contarelli a San Luigi dei Francesi. Lì, in quel gioco di sguardi, gesti ed espressioni, in quel dialogo muto e serrato fra il Cristo in piedi e il pubblicano Matteo, il gabelliere seduto e intento a contare i soldi; Gadda individua magistralmente il senso ancipite del travaglio di una vocazione repressa. La salvezza consiste nel riconoscere un compito, un destino, perché “vi sono legami profondi tra la felicità e il dovere”, e “la gioia intensa non è altro che la sensazione di un possibile adempimento della funzione vitale”. Nelle sue parole, il comando di Gesù si rivela ora un’ingiunzione ineludibile, una chiamata imperiosa che non si può più ignorare; e il viso di Matteo, in quell’istante fatale, “s’illumina di una tristezza tragica e di una gratitudine gioiosa”, perché sente che dovrà seguire quella vocazione pur intuendo il terribile rischio che essa comporta.
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“Chi ha talento ma è privo di un Grigorovic che lo sproni e lo sponsorizzi, invece, il più delle volte è obbligato a mendicare ascolto e attenzioni a un mondo, quello editoriale, spesso freddo e indifferente con chi ne è escluso. Una delle testimonianze più amare di queste lamentazioni clandestine è probabilmente Lettere a nessuno di Antonio Moresco, diario di un penoso e interminabile calvario consumato fra redazioni, editor e grandi firme milanesi, in cui la supllica si evince meno dal tono, a tratti anzi risentito e forastico, che dall’assiduità delle richieste di ascolto.”
Se “Lettere a nessuno” ha trovato un editore, e abbastanza presto nella vita del mittente delle stesse, non ha molto senso definire il calvario di Moresco “interminabile”. Sul tema del genio incompreso il miglior romanzo resta “Il violinista” di H.C. Andersen:-/
Curioso, questo Garufi.
Non apprezza Foster Wallace, ma La Gioia invece sì.
Mah.
Articolo come sempre interessante di Sergio Garufi, salvo un eccesso di generosità verso il Lagioia, che ha scritto un romanzo ben scritto ma del tutto inoffensivo (che tarda all’atto che nessuno, poi, distrugge, come dice il Poeta).
Ahò, ma cuanto ve rosicate. Ecchè, tutti er manoscritto ner cassetto e a’ pistola sula tempia, c’avete?
Quer poraccio, Moresco, s’è fatto ‘n’ culo così a scrive nela stanzetta sua tomi de na cierta ‘nportanza co’ nessuno che se’o’ cacava per anni, e mo’ er suo nun è un carvario ma solo ‘na passeggiata.
Cuel artro, Laggioia, ha scritto ‘n’ libbro che uno dell’età sua se’o’ sogna ed è ‘no steronzo inoffensivo.
Er povero Garufi, che pure lui se fa er culo e studia e mette alla disposizione de noartri l’intelligenza sua co a speranza de facce capi’ cualcosa…
Evvoi… siete bravi solo a di’ “sì cierto ha ragione ma”. “acuto ragionamento ma anche ottuso”. “e be’, contessa, ma il destriero non è sellato ancora a doveve”.
Managgia a cuanto siete fighetti e nevrastenici, managgia.
Non sto criticando La Gioia.
Piuttosto, mi stupisco di come gli standard così alti di Garufi (standard tali da lasciare fuori Foster Wallace), accolgano invece La Gioia (che sarà anche molto bravo, ma non può ancora confrontarsi con Scrittori al momento così più Grossi di lui).
è di Garufi che mi stupisco, non di La Gioia.
@Mario Bauer
nei commenti al pezzo su Wallace avevo provato a spiegare che si trattava di una provocazione tesa a mettere in discussione il mito dell’intelligenza nella scrittura. lo scrittore americano era solo un pretesto, tant’è che lo reputo uno dei migliori narratori oggi in circolazione; e questo l’ho scritto sia in quei commenti che in articoli di diversi anni fa, consultabili anche tramite google. ma se la provocazione non è stata colta è colpa mia.
@giuan & pasquino
grassie, troppo buoni.
* Chi ha talento ma è privo di un Grigorovic che lo sproni e lo sponsorizzi, invece, il più delle volte è obbligato a mendicare ascolto e attenzioni a un mondo, quello editoriale, spesso freddo e indifferente con chi ne è escluso. Una delle testimonianze più amare di queste lamentazioni clandestine è probabilmente Lettere a nessuno di Antonio Moresco, diario di un penoso e interminabile calvario consumato fra redazioni, editor e grandi firme milanesi, in cui la supllica si evince meno dal tono, a tratti anzi risentito e forastico, che dall’assiduità delle richieste di ascolto. E non è un caso che il suo primo romanzo pubblicato, Gli esordi, si articoli in tre parti che trattano appunto il tema della vocazione (religiosa, ideologica e artistica).*
Qui c’è un’inesattezza nel pur interessante articolo di Garufi. La terza parte de Gli esordi non tratta della “vocazione artistica”, ma dei tentativi di farsi pubblicare. L’unica differenza rispetto a “Lettere a nessuno” è nel registro, realistico qui, e lì a chiave (a prop., chi è il Gatto – editore zoppo?). Sicché a Moresco riesce il miracolo di pubblicare 2 libri che parlano entrambi dell’impossibilità di pubblicare (uno avrebbe potuto chiamarsi “Pane” e l’altro “Pesce”).
Inoltre l’incipit del paragrafo dà per assodato un “talento” tutto da dimostrare. Nel paragrafo precedente la parola “talento” era stata usata tale e quale per il giovane Cechov, il quale non aveva difficoltà a pubblicare, per giunta sotto pseudonimo. A rigor di logica, un eventuale, novello Grigorovic avrebbe dissuaso, anziché spronato…
@pasquino
complimenti per quello “steronzo”.
rivela sensibilità e orecchio.
io, che pure sono nato qui nella Grande Lurida Frittella Eterna, avrei scritto semplicemente “stronzo”, ma in effetti la pronuncia esatta è “steronzo”, da dirsi lentamente, con distacco e non-curanza.
bravo.
@garufi
sul giudizio attorno al libro di La Gioia non entro, mentre mi pare ottima l’impostazione del problema del dialogo, com’è ottima l’immagine di Céline.
Ottima l’immagine di Céline, come ottimo lo studio che ne fece Descartes nelle Meditazioni.
E il Gatto?
lagioia tutto attaccato è un doppio senso
@db
Il tema delle 3 vocazioni ne “Gli esordi” era inteso in senso estensivo, e allo stesso modo è stato ripreso da diverse recensioni e perfino dalla 4^ di copertina del libro. La frase contestata forse poteva essere formulata in modo più neutro cambiando solo l’incipit, e cioè dicendo che “chi è convinto di possedere del talento ma è privo di un Grigorovic…” Il personaggio del gatto non so se si riferisce a qualche editore in particolare. Ad ogni modo è molto interessante la tua affermazione circa il fatto che “Moresco ha pubblicato due libri che parlano dell’impossibilità di pubblicare”.
@tashtego
grazie per l’apprezzamento.
@christian
sarà pure un doppio senso, ma la versione corretta del suo cognome è tutto attaccato, giusto? (nella copertina di OPP è così).
in effetti, se il libro fosse una merce come le altre, Gli esordi di Moresco andrebbe ritirato, poiché non vi compaiono gli ingredienti segnati in quarta di copertina. non per colpa di Moresco. il quale, lamentandosi per iscritto di non poter pubblicare, segue invece una regolare strategia di marketing inaugurata col football.
Sono assolutamente d’accordo con Garufi, di cui in genere apprezzo moltissimo gli interventi qui su NI o su Stilos. Ho percepito spesso astio, diffidenza o sarcasmo nei confronti di Nicola Lagioia, fin dai commenti al vecchio post-intervista di Scarpa che proprio qui definiva Occidente “un capolavoro”. Non so bene il perché di questo coro, e non pretendo di fornire risposte, sarebbe arrogante e meschino immaginare che chiunque dissente lo fa senza fondate ragioni critiche. Io per me so che, ancora a due anni di distanza dalla pubblicazione, lo reputo di gran lunga il miglior libro italiano recente (con la cautela di ammettere che non ho letto tutti i libri italiani recenti). E soprattutto sposo la frase iniziale di Garufi: “Fra i molti meriti ascrivibili a…”. Ecco, il punto è proprio che Occidente è un libro, secondo me, di eccezionale intelligenza del nostro presente. Il fatto che sia brillante, arguto, scorrevole, fa forse ombra a quanto è penetrante. Sembra “facile”. Ma questo non lo si può imputare a Lagioia, è spesso, piuttosto, manchevolezza di noi lettori.
Tutto il regola: *Spero che la pubblicazione di “Lettere a nessuno” apra la strada finalmente agli “Esordi”*, p. 10.
A p. 15 invece si desume (dalla zoppia et alia) che il Gatto di Moresco è Fofi.
PS Se il lavoro dello storico fosse sempre così easy…
grazie luigi. ti ho scritto privatamente, spero che l’e-mail segnalata da “sguardo mobile” sia corretta.