Il catalogo del mondo
di Sergio Garufi
In un epico scontro consumatosi diversi anni fa tra due giganti della critica letteraria, Tzvetan Todorov accusò Northrop Frye di essersi limitato, con il suo saggio Anatomia della critica, a proporre una semplice tassonomia, una mera classificazione di generi letterari non logicamente coerenti tra loro. Lo studioso bulgaro aggiungeva, inoltre, che affermare che gli elementi di un insieme possono essere classificati significa formulare su questi elementi l’ipotesi più fragile che esista. Il testo del canadese gli sembrava insomma “un catalogo in cui erano state repertoriate innumerevoli immagini letterarie, ma un catalogo non è la scienza stessa, è solo uno dei suoi strumenti, e chi non fa altro che classificare non può farlo bene: la sua classificazione è arbitraria non potendosi basare su una teoria esplicita – un po’ come quelle classificazioni del mondo vivente, prima di Linneo, in cui si stabiliva la categoria degli animali che si grattano”. Todorov proseguiva affermando che “se ammettiamo con Frye che la letteratura è un linguaggio, abbiamo il diritto di aspettarci che nella sua attività il critico non si discosti molto dal linguista”. Frye gli ricordava invece quei dialettologi-lessicografi dell’Ottocento che visitavano i villaggi più remoti e isolati a caccia di vocaboli rari e sconosciuti. “Per quanto si faccia raccolta di migliaia di parole, non pertanto si risale ai principi del funzionamento di una lingua. Il lavoro dei dialettologi non è stato inutile e tuttavia poggia sul falso, giacché la lingua non è una riserva di parole, bensì un meccanismo”.
E’ interessante notare come critiche simili, in epoca più recente, siano state rivolte da Pier Vincenzo Mengaldo a Giorgio Manganelli, definito “più convincente scrittore nella saggistica che nella narrativa”, perché alfiere di una “narratività senza narrazione” che concepiva il narrato come pretesto del fuoco d’artificio stilistico. Anche in questo caso, all’origine di tutto stava l’approccio lessicografico di Manganelli, la sua smodata passione per i cataloghi, le enciclopedie, i dizionari e perfino gli elenchi telefonici (di tutto ciò vi è ampia testimonianza ne Il rumore sottile della prosa), visti come depositi di microstorie da sviluppare (tipo Centuria), serbatoio di tutti i possibili linguistici, riserva di lemmi fantastici ed evocativi; ragion per cui, come con eccessiva severità osserva Mengaldo, a volte ciò che rimane di lui è solo il suo sorprendente glossario. In realtà, quella di Manganelli era una profonda immersione nella lingua alla ricerca delle sue residue linfe vitali, non di rado rintracciate paradossalmente nei polverosi e obliati barocchismi di Torquato Accetto e di Daniello Bartoli.
La questione della lingua è sempre stata strettamente connessa a quella delle classificazioni. Jorge Luis Borges ci ricorda, in un saggio incluso in Altre Inquisizioni, che il progetto di un idioma universale, che il vescovo John Wilkins ideò a metà del XVII secolo, prese avvio proprio da una nuova tassonomia dell’universo articolata in quaranta categorie o generi primari. Non a caso il pioniere dell’analisi strutturale del racconto, Vladimir Propp, faceva sovente ricorso nei suoi studi ad analogie con la biologia e la botanica, perché il concetto di genere deriva appunto dalle scienze naturali. Commentando le bizzarre categorie di Wilkins, Borges le giudica non meno arbitrarie e congetturali della classificazione delle specie animali proposta dall’enciclopedia cinese intitolata Emporio celeste di conoscimenti benevoli; in cui è scritto che questi “si dividono in: a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in liberta’, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche”.
Michel Foucault, che s’ispirò proprio a questa astrusa tassonomia per la composizione del suo Le parole e le cose, rilevava che l’ironia dell’argentino aveva innanzitutto lo scopo di scombussolare tutte le familiarità dei principi ordinatori del pensiero razionale. Il filosofo francese scelse quel brano di Borges per descrivere una crisi del sapere che risaliva al Seicento, e pure per denunciare la fine del paradigma della “somiglianza” e di un sistema di classificazione basato su tale paradigma. In fondo, il bisogno di classificare non corrisponde solo al desiderio di dare ordine al caos informe, ma esprime anche la speranza che quel caos apparente celi invece un senso e un disegno, e che noi si sia in grado di coglierli. Chi, come David Hume, negava l’esistenza di un’armonia segreta della Natura, lo faceva soprattutto per confutare i sostenitori della natural teology protestante del Settecento, i quali adoperavano quell’argomento per indicare la necessità della presenza di un creatore. E difatti l’agnostico Borges, per dar conto dell’universo miniaturizzato contenuto nell’aleph, utilizzò l’espediente retorico dell’enumerazione caotica di Walt Whitman, che escludeva un troppo evidente criterio ordinatore.
Per un curioso segno del destino, il più tassonomista degli scrittori del Novecento – cioè Georges Perec – trascorse gli ultimi anni della sua vita in un appartamento parigino situato in rue Linné. In Pensare/Classificare, un volume pubblicato postumo che raccoglieva prose sparse del francese, l’autore sostenne che l’umanità si trova nella stessa condizione dei borgesiani bibliotecari di Babele, alla perenne ricerca del catalogo definitivo che fornirà loro la chiave di tutti gli altri, oscillando così “fra l’illusione della compiutezza e la vertigine dell’inafferrabile”. L’ossessione classificatoria permeava quasi tutte le opere di Perec, era la sua contrainte, ossia la costrizione formale di matrice oulipiana che ciascun autore aveva il dovere di imporsi nell’atto di scrivere. Lungi dal poter essere considerati delle lunghe e tediose pause della narrazione (e poi non era W.H. Auden che affermava che “non si comprende la poesia se non si ama il catalogo delle navi de l’Iliade“?), gli elenchi perecchiani costituiscono il vero motore della storia, lo strumento di approfondimento e di analisi della psicologia dei singoli personaggi. Si veda, ne La vita istruzioni per l’uso, il catalogo dell’impresa commerciale della vedova Moreau (cap. XX), articolato come una sorta di poema tecnologico con l’epistrofe lirica della dicitura finale “garanzia totale 1 anno”. In quelle pedanti enumerazioni Perec fotografava luoghi ed oggetti come se il suo occhio fungesse da superficie riflettente, restituendoci così un’immagine isomorfa alla realtà descritta, e che tuttavia non nascondeva, con alcune sapienti interpolazioni, la sua autentica natura di inganno visivo, di abile trompe-l’oeil. Per lui si doveva “censire tutto” affinché nulla andasse perduto, e l’arte era innanzitutto il luogo privilegiato della conservazione e della memoria contro la minaccia dell’erosione del tempo e dell’oblio.
Ebreo francese come Perec, per le sue creazioni anche l’artista Christian Boltanski impiega procedimenti di accumulazione, impilando in una gigantesca libreria migliaia di elenchi telefonici di tutto il mondo o inventariando enormi quantità di abiti e oggetti appartenuti a defunti. In Les Suisses morts, Boltanski ritaglia centinaia di foto tessere in bianco e nero dagli annunci mortuari di un giornale della provincia elvetica. Scegliendo un popolo che è stato sostanzialmente risparmiato dalle grandi tragedie della Storia, e che sull’anonimato ha costruito la propria identità, l’artista ha inteso rappresentare l’umanità intera nei suoi tratti meno individuali e più comuni. Lo sguardo fisso di queste persone normali chiama direttamente in causa lo spettatore, ed è al contempo testimonianza di un’angosciante assenza. La monumentalità iconica trasforma quest’opera in un un altare della memoria, la cui funzione commemorativa ci spinge ad accostarci ad essa come a un’iconostasi laica che celebra la vita scomparsa. Un obituario fotografico dunque, cioè la rivelazione che gli elenchi e i cataloghi, come scrisse Manganelli, “sono il nostro libro sacro”.
(pubblicato su Stilos, 25/4/2006)
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Sei stato un po’ insalatesco ma direi senz’altro efficace.
Ho scritto qualche anno fa un volumone quasi sull’argomento e devo dire che io mi fermo e mi soffermo assai prima, essendo abbastanza anacronisticamente un convintissimo formalista lotmaniano. Ma solo per dirti comedove sto, ora qui non mi metto a rompere i c.
Come sempre, leggerti significa imparare un mucchio di cose.