Come fuori dentro/Paola de Luca
LA STRADA DI ARETUSA
di
Paola de Luca
Siamo sotto Natale, ognuna col suo respiro, con la maglia sulla camicia da notte, nell’odore della sua pelle. Io nel letto nobile, Isa su quello di sopra, la straniera per terra. Quando si rimette a piangere, accendo due sigarette e ne passo una a Isa, senza guardarla, so che non dorme, alzo il braccio che s’illumina del faro nel cortile, vedo lo strascico di fumo giallo, incontro dita fredde, appuntamento spaziale, l’altra singhiozza.
“Prima o poi si calmerà”, dico.
“Se non si calma da sola ci penso io”, dice Isa.
Quella è passata all’urlo, biascica frasi bagnate, impervie.
Vado ad accendere la luce, prendo una scarpa e la sbatto forte contro la porta. Già conosco tutti i rumori di ferro che ci invaderanno le orecchie, le tempie, la nuca. Pesto con cura il tacco sulla parte più alta, quella che risuona di più.
Scrosciano altre porte nel corridoio, arrivano urla metalliche, passi di piombo, io torno a letto, le ginocchia sotto al mento, mi copro la testa
con le braccia, accovacciata tra i cespugli di gelsomino, diventata profumo, e stormire fresco e spinoso, carezzata da una fila di formiche, pelle e terra tiepide, ad occhi chiusi perché nessuno possa orientarsi sulla carta degli sguardi e raggiungerla indesiderato, mentre l’ansia dell’attesa si disfa come la tunica lasciata sul ramo del salice, e stilla momenti di vita senza forma,
e loro forzano la porta, quattro giri di chiave, entrano in due, una resta fuori per sicurezza, livide, col trucco da puttane all’alba, che succede qua, che succede qua, che succede qua.
“La nuova fa una crisi”, dice Isa dall’alto.
La nuova si scuote tutta sotto la coperta marrone, suda e trema, geme e stride.
“Datele un calmante”, dico io, seria.
La farmacia è chiusa. Che s’arrangi. Quella rimasta nel corridoio urla contro le musiciste che hanno ripreso il ritmo inventato qualche giorno fa: contro la porta, Uno, piedi di sgabello, Due, scarpa scarpa, Tre, spazzola di plastica, e via così in crescendo.
A me e a Isa ci scappa da ridere, poi torniamo serie, diciamo insieme “datele un calmante”, la mazurca impazza nel corridoio e ci riviene la ridarella.
La nuova ci getta uno sguardo vacuo.
Arriva il calmante nelle mani della suora, bicchierino di plastica trasparente con un papero celeste in decalcomania, intruglio celeste che va nella gola della tossico, vedo la faccia grigia della monaca senza bocca, vedo la gola sussultante della tossico, non voglio vederla, né le linee delicate delle spalle, le anse delle orecchie, l’attaccatura dei capelli così perfetta, vedo le gocce di sudore tremolare sulla fronte, non voglio vedere niente, m’infilo sotto la coperta marrone, quelle inchiavardano di nuovo la porta, spengono la luce dall’esterno, un filo di voce appenata insiste in basso a sinistra, è l’ombra dell’eco delle chiavi, dei tonfi che si perdono nel corridoio, primo cancello richiuso, sospiro di Isa, secondo cancello, cancelli all’infinito che si chiudono uno dietro l’altro, lamento sempre più debole al centro del mondo, un materasso per terra tra il mio letto e il paravento che copre i sanitari, mucchietto di dolore-con-calmante-celeste, e tutt’intorno, a trecentosessanta gradi, orge di ferri che s’incastrano.
Respiro l’odore del mio seno, ansimo per catturarlo tutto, perché non s’allontani da me
e non offra una traccia ai predatori. L’arco e la faretra sfiorano la caviglia, piovono fiori bianchi, il bosco s’ammalvisce nella sera, adagia immagini tremolanti nello stagno – guai ai vivi che oseranno guardarle! Le creature devono fabbricare sogni e lasciarli disprendere, volteggiare e posarsi sull’acqua, anche il salice freme nel sonno, l’alto castagno dondola e fruscia, un leprotto rotola fuori dalla tana ingombra e subito si riaggomitola tra i suoi, solo allora Diana, pallidissima, passerà sfiorando ninfe e erbe argentate.
La nuova se l’è fatta addosso. Sta seduta sul materasso zuppo, inebetita, incosciente. Un lucore traversa a fatica il vasistas bloccato, hanno spento il faro, devono essere passate le sei, i metalli ricominciano a scontrarsi, cancelli, chiavi, vassoi della colazione, “arriva il carrello!”, strilla Isa che ha un udito prodigioso.
Vedo una sua gamba atterrare sul bordo del mio letto, poi l’altra, poi tutta Isa che si precipita dietro il paravento, saltando con un balzo la cuccia della nuova imbambolata.
Scatto anch’io, le braccia nel lavandino, è già tardi, non c’è più acqua calda, sicuro che sono quasi le sette, brividi e pelle d’oca, spruzzo Isa seduta sul cesso. Protesta, ride, l’acqua ha spento la sua prima sigaretta, mi tira uno spazzolo, frenetiche ci laviamo a fondo, schiumano ascelle e dita dei piedi, un lago per terra, poi pulirò io, “maniaca che sei!”, profumiamo di saponetta di spaccio, umide e eccitate, un altro giorno da vivere, dietro il paravento quella sempre immobile, mi sporgo verso di lei mentre m’infilo le calze, sbatto un ginocchio contro il legno, “se non ti vesti non ti danno il caffè, muoviti! E lavati, che puzzi!”
Sbatte le palpebre, apre la bocca e la richiude, Isa le passa sopra, nuda e splendida, “la va ti. Tu capire? Acqua, sapone, se non ce ne hai prendi il nostro, dài, un due, un due” Intanto entra in quei suoi pantaloni incredibili, sei taglie al di sotto della sua, vestiti della sartoria della suora capo-psicologa e guardarobiera, maglia bianca con buco sul davanti, volevo rammendarglielo ma non ha voluto, “maniaca che sei”, eccoci pronte insieme, vassoio in mano, davanti alla porta di ferro che si sta aprendo.
Carrello spinto da una lavorante, liquido marrone e liquido bianco bollenti nei thermos, pane umido e zucchero.
E’ aperta anche la porta della cella difronte, le musiciste in camicia già leticano con la sorvegliante, infame! peggio per voi, vi faccio anche il rapporto, potevate svegliarvi prima, il regolamento, ma allora pure dormire è un delitto, avete sabotato la radio, non è vero, era rotta da prima, ci avete trasferite l’altro ieri, quando esco ti sparo, “Dacci il caffè anche per la terza”, dico io alla detenuta di servizio, lei controlla la sorvegliante con un’occhiata in tralice, sta riempiendo la tazza quando quella si volta e se ne accorge, gliela toglie di mano, alza il mento per il solito sermone ma non la lascio cominciare, “E’ arrivata ieri, non la vedi come sta, doppia dose di temestal, s’è pisciata sotto: ora mi dai il caffè per lei e poi vai a cercare un altro materasso e le lenzuola pulite”. Come mi permetto di darle ordini?
Protesto tutta mielosa, ma quali ordini, ci mancherebbe altro, solo una preghiera.
“Una ferma preghiera”, appoggia Isa con la bocca già piena di pane.
La porta si chiude dietro la tazza per la nuova.
Gliela metto sul tavolo, senza guardarla, “scollati da quello schifo di letto, apri al massimo il vetro, metti fuori tutti gli stracci, ce l’hai un cambio?”
Si alza, si muove come in transe, si cala calze e mutande, ammucchia i panni e aziona il vasistas, noi vediamo le naticucce violacee scuotersi nello sforzo inutile. “Si apre di esattamente diciotto centimetri”, dice Isa.
Questa informazione sembra sconvolgerla, si volta verso di noi sedute al tavolino a intingere il pane nella brodaglia e prende a piangere a lacrimoni silenziosi.
“Welcome nella più moderna galera di Francia e di Navarra”, scherza Isa.
Da sotto la porta spunta il mio giornale. Quello del giorno prima, passato al vaglio della censura, non si sa mai. La sorvegliante mette l’occhio nel buco d’osservazione e noi osserviamo l’occhio – immenso e slabbrato, facciamo un saluto smorfioso e sgraniamo parolacce sfiatate.
“Che succede nel mondo?” chiede Isa.
Non lo so, leggo tutte le notizie e non capisco niente, giorno dopo giorno leggo tutte le frasi in fila e non so cosa leggo, mi succede anche con i libri, diligente arrivo all’ultima pagina e resto a fissare la carta bianca della terza di copertina, tutte quelle parole passate, fogli di tempo sprecato, un blocco di pagine a sinistra di me, osservo la colla della legatura, finito di stampare a, nel millenovecentoetanti, e mi viene da piangere e non piango.
“Al solito. Per fortuna che c’è l’America che salva tutti.”
Intanto la nuova fruga in un sacchetto di tela, si mette dei jeans e un maglione infeltrito.
“Non ci ho le scarpe”, annuncia. L’hanno arrestata a casa del suo amico che gliele nascondeva perché non uscisse a cercare la roba da sola.
Isa è piegata in due dalle risate. Quella s’imbambolisce ancora di più.
“Non le passano, qui, le scarpe?”
No, non le passano, forse ti sbagli col collegio delle Orsoline, qua le scarpe non passano neanche coi pacchi delle famiglie, hanno paura che nei tacchi ci si nascondano armi e droghe. Le spieghiamo che passa un mercante ogni due mesi, che bisogna averci i soldi nel conto corrente speciale, che bisogna prenotarsi con due mesi d’anticipo, senza sbagliarsi di modulo, e poi sperare che ci abbia il tuo numero e infine pagare le ballerine di plastica verdi o gli stivali coi pompons come se fossero d’oro.
Oppure cercarsi qualche ciabatta sfondata nel deposito di Suor Amélie.
E smettila di lagnarti che adesso ti ridanno il calmante.
Quello è sempre gratis.
La cella puzza d’orina, fuori è grigio. Ora d’aria.
Io e Isa di nuovo davanti alla porta, col cappotto e la sciarpa.
Sbloccano la porta per esattamente due secondi, tocca gettarsi nell’apertura come per scampare a un incendio, poi allinearsi in fila davanti al cancello G.
Sciamiamo nel corridoio, tutte naufraghe dopo la notte, gridando saluti e ingiurie, molte diventano come maschi, il collo s’ispessisce, l’andatura pesante, il gesto greve, quelle del turno di doccia coi capelli bagnati nell’aria gelida, il cortile è ampio, con due alberelli che inorgoglirono gli architetti, le nere s’aggruppano verso i cancelli dei laboratori, dai vetri guardano le detenute lavoranti guadagnarsi sette lire all’ora: incastrano trucchi per gli occhi in certe scatolette di celluloide con lo specchio, se te ne rubi una quindici giorni di cella di rigore, e le nere fuori a additarsele deliziate, guarda quella come ci dà dentro, ha già fatto sei scatole, scommetti che la mia batte la tua? Le tailandesi hanno ritmi terrificanti, ma anche l’indiana non è male.
Le nere hanno pezze variopinte che gli fasciano le reni, nessuna porta calze e tutte hanno calzature scompagnate. Ghislaine la guarderei per un anno, ha la pelle quasi blù, un turbante di maglioni di tutti i colori, gli occhi come le foglie d’alloro in inverno, lunghi, puntuti, con le iridi cenere. Assortisce uno stivaletto di cuoio e una pianella rossa, zoppica un poco e agita il sedere.
Isa dice che mi sono innamorata di Ghislaine. Non è vero. Oppure bisogna dire che sono innamorata anche del gioco che fa il sole nell’aula dove impiastricciamo l’argilla, contate a due a due dalle sorveglianti, io sgomito per arrivare per prima, per occupare il posto d’angolo, il sole di novembre, quando c’era, andava a sbattere sull’acqua del catino di e rimbalzava sulla parete, onde di luce e faville, la maestra d’arte plastica si chinava a bagnare il blocco di terra e le sue collane entravano nella danza, schizzavano immense idee di perla sul muro bianco, si rincorrevano con le idee d’acqua, nel profumo di funghi e sottobosco e mi viene da piangere e non piango
riassestato l’arco sulla spalla, appesa la faretra, gli oggetti allo stesso ritmo dei passi, erba secca sotto i piedi, lampi di giorno nel verde denso, compatta avanzare col tempo della marcia, la mano si chiude precisa e spicca una mela e la mela s’incammina con lei, i denti sulla buccia liscia, la polpa contro il palato, non fermarsi mai, sentirsi i seni separati dal laccio di cuoio, frementi, caldi, sentirsi il ventre sotto la cintura, protetto e protettore, avanti,
c’è un limite alla semplificazione, anche qua dentro, le ho detto. Lei ribatte che sono io che carico troppo l’espressione “innamorarsi”. Che ci metto dentro le ideologie e la zavorra di una generazione chiacchierona.
Io non le dico il groviglio di pensieri e di ricordi, l’amore passivo, istupidito come la nuova col temestal, la giovinezza s’è portata via quello attivo, fogoso e inventivo, sono una donna di mezz’età in galera, non so più innamorarmi di niente, so solo amare, come so camminare e cucinare, vasta e opaca conoscenza di donna, qui dentro non si esercita, si muovono i piedi sul cemento, il cibo arriva sul carrello e ha la faccia della lavorante di turno, ha il suo odore d’aglio e di sudore e faccio una fatica terribile per ripristinarlo nella mente, nella memoria: minestra di piselli, chiudere gli occhi, pensare al mercato sotto casa, ubriaca d’odori trascegliere quello dei piselli, mucchio lucido sul terzo banco di sinistra, inquadrare, mettere a fuoco, colore, calibro, spessore, il cestino a casa, posato sotto al lavello, isolare l’immagine, vietato pensare ai figli, ma una manina grassa è entrata di prepotenza nella cornice, presto! ripiegare tutto, l’anima e lo stomaco, strizzarli sul cuore, anestetizzare, mondare, tritare le cipolle, lasciarle imbiondire nel burro, aggiungere mezzo dado, piselli e acqua.
Emergo dai ricordi a fiato mozzo, Isa: come vuoi che m’innamori?
“Ti fai una corsa?”
Corriamo. Dai laboratori, ottanta falcate per arrivare alla finestra di Fiona. E’ svedese e non esce mai all’aria. Se ne sta dietro il vasistas, mette la cera sul pavimento della cella e appende dappertutto ghirlande di carta ritagliata, perché siamo vicine a Natale. “Ce l’avete una sigaretta?”
Invece di comprarsi i detersivi potrebbe comprarsi da fumare…
“Quando esci, Fiona?”, chiede Isa e mi guarda.
“Esce domani”, dico io e Fiona annuisce col fumo sui capelli chiari.
“Esco domani, me l’ha scritto l’avvocato”. Le hanno affibbiato per sei etti di coca, altro che domani.
Poi corriamo fino alle finestre delle mamme che rientrano dalla sala della puericultura, Lilli appare con Diego in braccio, infiliamo i polsi dietro il vasistas per toccarlo, ha dormito stanotte? Lei, le sue occhiaie brune, i capelli neri, la bocca come una petunia viola, è bellissima e drammatica.
Quando parla non è più drammatica per niente, spiritosa, col dialetto milanese a spampanarle il fondo delle parole, una battuta dietro l’altra, quando ride butta indietro la testa, il piccolino lo ha avuto a settembre, l’hanno portata a partorire i pompieri. La direzione del carcere li ha chiamati una notte, alla terza ora di doglie e di preghiere e di bestemmie. Quelli sono arrivati col camion con la scala e non li hanno fatti entrare nel muro di cinta “perché la scala è contraria al regolamento”, ci ha raccontato lei e noi a soffocarci dal ridere, stupide e contente di ritrovarla, senza pancia e col pupo al seno, dietro il vetro, era sparita da dieci giorni, neanche la nominavamo ma stavamo tesissime, Isa teneva gli occhi sulla finestra della cella di Lilli e si mangiava le unghie fino alle falangi.
I pompieri erano corsi a cercare un camioncino più rispettoso della sicurezza nazionale e l’avevano infine caricata mentre le sorveglianti la perquisivano, che non nascondesse oggetti proibiti approfittando dell’occasione, poi s’erano messi a correre a mille all’ora verso l’ospedale con le sbarre, “terrorizzati che gli scodellassi la creatura sulle ginocchia, stia calma! continuavano a urlarmi nelle orecchie e mi prendevano la pressione di continuo, tanto per fare qualcosa. Guarda, ci ho il livido per come stringevano il laccio”
Lei faceva la respirazione che le avevo insegnato io, piccola imperatrice con la bocca a fiore, si massaggiava la pancia e parlava al suo piccolo, ventanni giusti e cinque pel mondo dietro ai sogni, corriere d’eroina, quando l’avevano presa neanche sapeva d’essere incinta, una fantasmagoria da droga nella giungla venezuelana poi la galera e la pancia a crescerle.
“Sei italiana?” m’aveva domandato con la sua voce fonda e sassosa. “Ci hai una sigaretta?”
Avevamo fumato al sole, sedute con la schiena appoggiata alle porte del laboratorio, dentro le lavoranti incastravano ombretti viola nelle scatole e ci mandavano insulti bonari, noi rispondevamo in siciliano, ridevamo e io guardavo le sue gambe sottili, finivano molto prima delle mie, era poco più alta di mia figl. E merda.
“Eri nelle Brigate rosse?” mi guardava così divertita che figurarsi se mi mettevo a spiegarle le differenze politiche, autonomia e leninismo, mentre io andavo in piazza a liberare tutti lei trafficava e passava le frontiere con gli orli della gonna gonfi di droga, faceva l’amore in mezzo agli ananassi e fiutava veleni bianchi che le facevano dimenticare mesi e lune,
appena il riflesso nell’acqua increspata, con la coda dell’occhio l’aveva vista sfrecciare sulla groppa dell’antilope, un ramo contorto le aveva afferrato i capelli, la lama lampeggiò un corto istante, il sibilo del taglio restò indietro nell’aria e le due creature erano già scomparse, la ciocca corvina nell’artiglio di legno si raffreddava al vento.
“E certo che me lo tengo”. Era bello sentir parlare italiano. Tutte e tre, Lilli Isa e io cantavamo a squarciagola, le nere ci venivano dietro rettificando i ritmi, abbiamo insegnato le canzoni di Battisti a tremila povere criste in galera, io all’inizio, pedante, traducevo i testi, fiori rosa fiori di pesco, si deve rientrare in silenzio, in fila, tutte col canto ancora tra le labbra, la porta si richiude, le pareti ti si stringono addosso, il vasistas s’oscura e Isa accende la televisione.
La nuova è sempre là, le hanno cambiato il materasso e le hanno dato le sei pezzette settimanali, due asciugamani, una camicia da notte, un tovagliolo, un fazzoletto, una federa e guai a chi non riconsegna il tutto.
Suor Amélie le ha anche trovato delle scarpe da ginnastica, senza lacci perché non si può avere tutto figlia mia.
“Voi non mi volete qua”.
E brava, ha capito tutto.
“Tu non capisci niente”, dico. Non solo perché è lagnosa e triste, ma perché è entrata ieri, perché si porta dietro il fiato di fuori, il rumore del traffico, l’odore del fornaio e la certezza che uscirà presto, che è tutto un equivoco, che questo posto non esiste, che è un incubo da cui si sveglierà, domattina a casa sua, aspettando il prossimo buco, contenta del suo uomo che le nasconde le scarpe e della sua povera vita stracciata.
Non la vogliamo perché ci ingombra la cella e incrina il silenzio sapiente che tessiamo da mesi, Isa e io
rubare al ragno la sua rete, svolgerla tenendo il respiro, allargando lentamente le dita, vedere il disegno cambiare e disporsi nel piccolo spazio magico tra le nostre mani, trovarsi per questo gioco muto, nell’aurora che tinge le spalle di rosa e poi perdersi l’attimo dopo, dimenticarsi e incontrarsi di nuovo sul filo di seta del tempo,
ma vaglielo a spiegare, e poi in prigione non si spiega niente, le parole sono scarafaggi che spuntano neri da sotto l’armadietto, spazzati via dall’urlo e dal tonfo del giornale arrotolato.
“Non ce l’abbiamo con te”, dice Isa, “è che la cella era prevista per una persona, poi hanno aggiunto il secondo letto e già si sta strette, poi arrivi tu e è un disastro”.
Mi metto a pensare a quelli che prevedono le galere, disegnatori chini sul foglio, qua le sbarre, e l’angolo per i bisogni corporali, qua per mangiare e scrivere alla famiglia, da questo buco li si vede sempre, ti ricordi Isa quando sono passati visitatori, che facce avevano dietro il direttore sorridente, tutto fiero della sua bella prigioncina linda, parlamentari e sociologi, avevano scritto sulle loro agende: visita al carcere femminile, ore 12. Hanno trovato il pasto delle belve, le nere s’erano messe a ruggire per fargli paura, Malika graffiava la porta col barattolo di ferro e faceva rabbrividire pure i santi in paradiso, noi senza esserci messe d’accordo facemmo le scimmie e chiedemmo le noccioline, le sorveglianti incazzatissime ci facevano segni di minaccia, lo psicologo e l’assistente sociale spiegavano che io era detenuta speciale, politica e pericolosa, gridavano nel frastuono del corridoio, non mi avevano messo all’isolamento per magnanimità e fiducia nella riabilitazione, in fin dei conti ero anche un’intellettuale, Ghislaine e Fatoumata tiravano palle di carta sulle schiene grigie e noi raddoppiammo le smorfie, uh uh, ci grattavamo le ascelle e saltavamo sui piedi, che facce, Isa, mai m’ero sentita più giusta, neanche nelle manifestazioni da centomila, tu c’eri arrivata da altri percorsi, una lunga strada fino a questa cella, due scimmie amiche.
“Chiedi che ti mettano al camerone, c’è un posto da ieri, non si sta male, devi scrivere la letterina”
Quella si rimette a frignare, non ha la penna, non ha la carta, ha paura a andare con le nere che se la mangeranno sicuramente, per piacere, non potremmo tenercela noi? S’apre la porta, entra l’assistente sociale, una ragazzetta che abbiamo visto consumarsi in pochi mesi, la chiamiamo Urna, si porta dietro le sue stesse ceneri, ci chiede di uscire nel corridoio, “Abbiate la compiacenza di lasciarci sole qualche minuto, devo parlare alla vostra compagna”
Figurarsi, un piacere imprevisto, schizziamo fuori, guardiamo nei buchi delle celle, il corridoio è lustro e vuoto, cancelli a poppa e a prua, musiche immonde a mezz’aria, balliamo il valzer con cerimonie e schiamazzi.
Quando Urna ci chiama per richiuderci, la nuova non piange più, sta immobile sul materasso per terra e guarda il presentatore di un gioco televisivo, tutta la testa all’indietro, è così impietrita che non sento le chiavi girare, c’è un alito di tragedia, in quest’aria scarsa ci prende alla gola.
“Allora?” chiede Isa
Quella non risponde e noi ci innervosiamo, “allora?”
Tamburi e trombe, un cretino ha indovinato quanto costa l’aspirapolvere, ora abbraccia la moglie emozionata.
“Ho l’aids”, dice la ragazza sul materasso senza guardarci.
Arrivano le sorveglianti per accompagnarmi al corso di yoga, in due perché io sono “speciale” e devo essere doppiamente sorvegliata , me ne vado e mi fa schifo il sentimento di sollievo che mi si spande dentro, sento la porta chiudersi dietro di me, chiuderle dentro insieme a quella parola finta, a quella scheggia di vetro nero, io a meditare con le gambe per aria e quella a morirsene davanti all’aspirapolvere, dov’è il mio coraggio, io che ne sono così sicura, io che ci conto come sulla forza delle braccia che mi tengono sottosopra
aggrappata al tronco che graffia la pelle, ascoltare la voce del bosco calpestato, l’erba si contrae sotto passi sconosciuti, nessuna di noi è così pesante, né il cervo né il bisonte che avanzano su quattro rumori fondi e ritmati, l’animale sconosciuto poggia su due gambe e cerca faticosamente la traccia, esita, trotterella, retrocede, soffia, tutto gli è nemico
io spavalda alzo muri nella prigione, voi non mi chiuderete perché mi chiudo da me, ho costruito una tomba di tufo per lasciare fuori una moribonda senza scarpe, le lacrime non sgorgano al rovescio, non gocciano dalla fronte ai capelli al pavimento lucidato della palestra, quale coraggio, altra parola finta, ecco l’intellettuale a testa in giù che scopre che tutte le parole sono finte, rovine di tempio greco e turiste americane con gli occhiali di strass.
Respiro. Apnea. Respiro. La maestra di yoga ci mostra l’ u-tanassa, lasciati vivere, separa il rigore delle anche dalla scioltezza del busto e del collo, abbandona spalle e mandibole, lisciati la fronte dal pensiero, l’aria di galera entra nei polmoni esce dal naso riparte verso il mondo graffiandosi di sbarre poi raggiunge un passante distratto e lo ferisce a morte. “Dottore, che malattia è?” “La scienza si dichiara impotente”.
Torno in cella e le trovo abbracciate. Isa mi getta uno sguardo inutile, siamo d’accordo, ce la teniamo, la piccola malata, quella si vergogna a usare il cesso, “lo disinfetto?” E con che? Qui neanche la varechina è permessa, così sono sicuri che non ci suicidiamo di varechina e ci accontentiamo di impiccarci al vasistas, una di bassa statura ce la fa, io avrei problemi.
“Dài, non ti preoccupare”. Lei è tutta umile e riconoscente, “Falla finita”, dice Isa burbera e le fa posto nell’unico armadietto.
Mangiamo con lei seduta sul mio letto, solo due sgabelli per cella, l’architetto brontolerebbe, gli stiamo guastando l’armonia delle forme e dei colori, trippe al pomodoro, mastichiamo e mastichiamo, poi vanno giù con l’acqua, trovo un verme nella mela, lo appoggio con delicatezza sul piatto e la porta si apre.
“Trasferimento”. Due sorveglianti per portarcela via e chiuderla in una cella del secondo piano, “presto! muoversi!”
L’aiutiamo a fare il fagotto, ogni suo sguardo ci scortica l’anima, dov’è il fazzoletto? “ci vediamo all’aria”, sì, dice lei, “prendi un pacchetto di sigarette” sì, “non siamo state noi a chiedere di spostarti, ci credi eh?” sì, “qui succede di continuo”, sì, “magari domani ci ritroviamo insieme”, “allora ciao” “ciao”.
La sorvegliante si spazientisce, quanto devono durare gli addii laceranti?
Io tremo di rabbia, vera o finta mi dilaga dentro, mi gonfia e esplodo, che l’ironia se la sbatta dove sa, che quando esco la ritrovo perché dalla palestra le ho visto la targa della macchina, che mi divertirò a massacrarla con un calibro piccolo, che cominci da subito a abituarsi alla paura, che non avrò pietà, la seguirò come un’ombra. Non è che non mi renda conto di quanto sono ridicola, ma ne riderò poi, ora devo odiarla coscienziosamente, la sovrasto d’una testa e la detesto tutta intera.
Mi sbatte la porta in faccia, la piccola col suo saccone di stracci fa a tempo a tirarmi un sorriso, mi getto sul letto e non ci penso più
il sole ha teso i raggi agganciandoli alle cime dei castagni e il bosco arde di linee gialle e rigide. Nulla può muoversi in quest’austerità, anche il tempo s’inchina, e i vapori e le brezze. Il fiume Alfeo sembra dormire senza sogni.
“Mi presti il maglione giallo” dice Isa. Parlatorio alle due, è dal mattino che s’imbelletta, dal letto vedo un pezzo di specchio, un ciuffo di capelli e il legno scrostato del paravento. La sento frugare nel suo prezioso sacchetto, ha rimediato un po’ di avanzi dalle uscenti, un rossetto rosa, una polverina argentata che ci si impiastra le palpebre, un bistro nero e una quantità di fiocchi, nastri, elastici e fermagli. Quando è particolarmente triste, li rovescia sul letto e se li guarda e se li conta. Una volta che era arrabbiata con me perché l’avevo costretta a pulire per terra, mi ha accusata di furto. Furto di elastico giallo senape. Faccia a faccia, tese come corde, scattammo insieme, grida aggrovigliate, tu che fai sempre la superiore, chi ti credi di essere, tu cafoncella di periferia, ma ti pare che potrei fregarti un elastico, come osi, come osi tu, no tu, no tu, benedetta sintonia, ci viene da ridere sempre insieme, quella volta fino alle lacrime, ci parve così sommamente comico che decidemmo di ripetere la scena all’aria, ci mettemmo in mezzo al cortile e giù insulti, con le donne intorno a guardarci esterrefatte. Sonia, Aminata e Malika invece di divertirsi si eccitarono e ci piombarono addosso con la scusa di separarci, un livido blù sullo zigomo di Isa e un morso sul mio polso, due dentate che porto ancora assieme al ricordo vergognoso del calcio selvaggio che sferrai a Aminata, ventunanni e trentacinque chili, afflosciata sul cemento come una bambola di pezza.
Tutte al “pretorio” il martedì seguente, quando nessuna pensava già più alla rissa.
Prima di presentarsi al tribunale del carcere, uno ogni martedì, fanno la perquisizione. Nude nelle docce tutt’e cinque, fa un freddo cane, le sorveglianti palpano i pantaloni e le maglie e le mutande, ci rinfiliamo i vestiti e entriamo nella saletta. Dietro il tavolo il Signor Direttore e due capo-sorveglianti, dietro di noi una schiera di guardione accigliate.
“Che pena, delle donne che si picchiano” esordisce il direttore con la faccia da pesce.
“Picchiarsi?” ci guardiamo tra noi inalberando espressioni da marionette, le sopracciglia si alzano fino a sfiorare i capelli, gli angoli della bocca scivolano verso il mento, “Chi si è picchiato?”
Isa si era raccomandata con le arabe che non intervenissero, che lasciassero fare a noi, che ogni parola loro sarebbe diventata un giorno di rigore. Macché, una è già in ginocchio a invocare clemenza, io continuo con la buffonata della scena di teatro che stavamo preparando per la festa di Natale, “per mostrare il senso della riconciliazione”, balbetto pietosamente. Malika si mette a fare un comizio sulla giustizia dell’Islam e in subordine sulla scandalosa assenza di avvocati della difesa, Isa guarda il cielo a quadretti con espressione annoiata.
Il direttore si rivolge a me, perché sono acculturata, e mi spiega che nella sua immensa equità ha deciso di non punirci perché è la prima volta che passiamo alla sua sbarra, ma che i nostri nomi sono ormai affiancati da una crocetta e alla prossima turbolenza sono due settimane di rigore garantite, “fosse anche il giorno di Natale”.
Malika non si trattiene e gli chiede di mettere accanto al suo nome una lunetta, che la crocetta non le piace. Le affondo le unghie nel braccio con voluttà e usciamo tutte, libere di stare in prigione, tutte contente di continuare a leticare, “non ci ho niente da spartire con le croci”, sibila Malika, tutte contente di avere scampato l’isolamento, “formalista imbecille” dico io, contente di non ritrovarci nelle cellette senz’acqua, senza lettere, senza libri, senza lenzuola e senz’aria, “la prossima volta lo sfregio col suo tagliacarte”, promette Aminata con la sua vocetta acuta mentre le richiudono.
“Elastico giallo senape”, mormoro.
Isa l’aveva ritrovato sotto il materasso.
“Col maglione giallo ti puoi mettere l’elastico della discordia”, dico, da dietro il mio Ovidio e il paravento.
Mi viene davanti, tutta pittata e pimpante.
“Tu non ti prepari?”
Mi sto preparando, Isa, solo che non si vede. A meno di non guardarmi le nocche sbiancate, questo libro pesa un quintale. Leggo le Metamorfosi da trentanni e ogni volta si carica di un’altra storia e mi restituisce una me stessa diversa e sconosciuta.
Mani sul cancello, tacchi alti, bocche rosse, eccitazione e profumi aggressivi, scatto del cancello, porta blindata del corridoio, scatto, corridoio lungo, infermeria a destra, scale, cancello cancello, altre scale cancello, cento donne ammucchiate, primo turno di parlatorio.
Guardiamo tutte la porta chiusa. Il tempo si stira in lungo e scatta all’improvviso col fragore del battente metallico. Ci precipitiamo tutte alla perquisizione, prima io, no, scusa, c’ero prima io, lascia che mi frughino nelle mutande prima a me, a dieci passi la grande porta di vetro, dietro ci sta la vita.
Tre sigarette tre fiammiferi un fazzoletto nella mano sudata, ci chiamano per numero di matricola e ci marchiano con un tampone per poterci verificare al ritorno, noi offriamo il polso con gli occhi già ai gabbiotti numerati, corro verso il quarto, dietro il banco di pietra c’è papà in piedi che piange e ride, mi tiene le braccia per tutta la mezz’ora, come stai?
“Benissimo, papà”. E’ vero che sto benissimo. Da quando sono qui dentro non ho più avuto un’emicrania, neanche un accenno, pelle liscia e digestione perfetta, come stanno i bambini?
“Benissimo” Come me.
“Vedrai che ti mettono fuori alla prossima udienza” dice lui, con la stessa aria convinta di un anno fa. “Fatti vedere, alzati, girati, stai bellissima, hai bisogno di vestiti, di maglie, di soldi?”
“No, no, me ne hai lasciati la settimana scorsa. Dimmi dei bambini”
“Bellissimi” Come me.
La grande va a scuola tranquilla, tutti bei voti, ” Sì,lo so che non scrive, ma non ti preoccupare, te la porto la settimana prossima, tu scrivile sempre, è così contenta quando arrivano le tue letterine, non vuole che nessuno le legga, se le nasconde nel cassetto”
Non glieli toccate i cassetti, a mia figlia, per piacere, non glieli toccate, io lo so come è segreta, lo so come è gelosa, anni passati a rispettarla, a bastonare vecchie idee ostinate e manuali di psicologia, per starle accanto e basta, una mamma semplice, che la lasci crescere in pace assieme ai suoi problemi…
“E il piccolo?”
Dopo l’arresto non l’ho potuto vedere per più d’un mese, un mese dei suoi quindici in tutto, quando lo portarono al colloquio s’aggrappava alla nonna e non volle venirmi in braccio
guardarlo fremere davanti alla tana vuota, gli occhi tondi e lustri in mezzo al pelo fulvo, la madre volpe a caccia e la fame che lo spinge fuori, verso il pericolo, avanzare la mano per una carezza e vederlo scattare via, infilarsi nell’oscurità conosciuta lasciando onde di terrore a scuotere i fili d’erba
“E’ tanto affettuoso, tanto caro. Ora dovremmo parlare di quella storia della legge, l’avvocato dice che se scrivessi una lettera al tribunale… ti darebbero i benefici, dice che non dovresti dire niente, solo un’autocritica delle attività passate, ma generica, una specie di formula… c’è tempo solo fino a sabato, i termini li conosci anche te…”
“Mangia bene”?
“Tutto! Mangia che è un piacere. E poi è allegro, fa il mattacchione, dice…”
“No, papà”.
“No, che cosa?”
“Non la scrivo la lettera”
Mi pesa il mento, la fatica di trattenere il pianto mi schianta ma mi pare che devo farla, che non deve portarsi dietro un’immagine di lacrime, almeno questo se lo merita, altro non gli posso spiegare, mi viene da troppo profondo, dev’essere questo il destino, amor fati, papà, una lettera da chi a chi, una lettera per annullare il tempo del desiderio, per dichiararlo illecito, ma è un tempo mio, papà, fragile testardo e sbagliato come un tossico, ma ancora vivo…Magari sono fanaticherie, lo so che altri hanno abiurato, non li giudico, sai? a ognuno la sua vita, però io non me la sento di recidere la mia con qualche frase rigida e impacciata, signor giudice, a norma di legge mi seppellisco dignità e speranza…
“Brava”
“Come, brava?”
E’ finito il colloquio. La sorvegliante picchia sui vetri con le chiavi, un rumore che m’entra diretto dentro le scapole, come brava, papà?
M’abbraccia tanto stretto da soffocarmi un po’, o forse mi manca il fiato per altri motivi, barcollo uscendo, tutti gridano saluti e papà sorride e lacrima dietro il banco di pietra, amor fati, oggi divento vecchia, ho scoperto che non sono sola.
Poi il fiume delle donne del parlatorio torna nel delta delle celle schiumando e ruggendo e io in mezzo a loro a invecchiare e a cantare, con la nuova provvista di dolore ricco e odoroso, incontro Isa al settimo cancello, “hai visto tua madre?” “Sono venuti tutti, oggi, anche i fratelli, m’hanno portato i cioccolatini, te ne ho tenuto uno”, è scampato alla perquisizione del ritorno, me lo passa da bocca a bocca, ci teniamo per mano e tentiamo di imitare le arabe che ululano. Un suono così sconvolgente che pare di trovarsi su una terrazza bianca, a Algeri, a lottare eroicamente per la libertà. Ma a noi ci escono soltanto degli starnazzi e ci facciamo azzittire dagli sguardi indignati di quegli occhi neri neri, spalancati nel prodigio dell’ugola, ridiamo e entriamo in cella a spintoni e sgambetti, la chiave gira e la domenica è finita.
Ora bisogna riordinare, dopo la festa, o almeno io credo che sia necessario farlo, Isa mi dice “maniaca che sei” e si distende nel caos con un’espressione intensa, ogni tanto scoppia e scivola lontana da tutti, lontana anche da sé, e allora io mi spavento e mi metto a fare prediche come una vecchia zia, lei mi manda al diavolo, alziamo la voce per proteggerci, e io proteggo lei e lei protegge me.
Isa ha ventanni meno di me e non è mia figlia. E’ stato bello inventarsi un rapporto, una storia originale, così rara nel mondo di fuori che compartimenta le età come le camere stagne dei sottomarini.
Qua dentro i modelli sono gli stessi, ma cambiano le regole, ciò che allucina tutti inesorabilmente, come a trovarsi davanti il mare arancione, o a incontrare al bar un amico morto.
Certe le vedi disfarsi in pochi mesi.
“Amenorrea, si chiama”, spiego a Isa.
Una percentuale minima di noi conserva il ciclo mestruale, io mai ci ho pensato tanto, mai sono stata così contenta di guardarmi il sangue tra le cosce, un po’ fiera, anche, come di un’insegna gloriosa; altre si riempiono di pustole, perdono denti e capelli, si dilatano o si prosciugano, noi siamo diventate amiche.
Adesso dorme nel letto sopra al mio, si muove pochissimo e ha un respiro delicato, io infilo pensieri nei cassetti del cervello e cerco di governare la paura della notte, della luce che ci abbacina nel sonno, ogni tre ore, “cella ventuno controllo!”, ho l’impressione che mi aspirino i sogni, spariscono in quello stupro di buio e fuggono via, dietro il vetro blindato
con un balzo volare a terra, fendere l’aria contratta nell’oscillazione del ramo, chinare la fronte e correre, escoriata e leggerissima, lunghe falcate notturne e sussurrare di foglie, le tempie battono, forzare l’andatura, ma lo straniero la segue, lo ascolta calpestare le sue orme, le pare che si aggrappi allo strascico di profumo della sua pelle sudata, si sente invadere le orecchie da un ansimare alieno, non può che correre, correre, mentre il suolo s’infiamma
verifico i mozziconi nel piattino, li schiaccio con foga, annuso accigliata tutti gli angoli, guardo sotto il letto, nell’armadio e dietro il cesso, senza questo rituale l’angoscia del fuoco passerà la barriera non appena mi sarò addormentata, le lingue incandescenti mi balzeranno addosso, la porta sigillata, il vasistas bloccato, non c’è scampo, vivrò il terrore fino in fondo, fino a vedermi dilaniata, brandelli di me che tremolano nell’aria infocata, ognuno con la sua coscienza, bruciare accartocciarsi salire, specchiarsi nello specchio liquefatto, scontrarsi con l’anima fumante dei libri, del maglione, dell’elastico giallo, arroventarsi e saldarsi infine in un’eternità prigioniera…
“Maniaca che sei”
Dopo l’esorcismo, invece, dormo bene. Isa dice che metto su un’espressione da pensionato al sole, m’infilo in un sonno vegetale, grato.
Dietro il carrello della colazione, Suor Amélie s’insinua nelle celle, indiscreta e prepotente, viene spesso da noi, sono il suo bersaglio preferito, “Lei è atea?”
Io, presa alla sprovvista, annuisco, un po’ ammaccata da quest’identità brutale che accetto d’indossare, oggi mi chiede se sono disposta a aiutarla a preparare dei regalini di Natale per le più disgraziate, per quelle che non hanno niente, né pacchi, né soldi, né famiglie a assisterle.
“Certo”. Isa mugola di sarcasmo dietro la tazza, alzo le spalle e vado dietro alla tonaca nera, nella scia della sua chiacchiera ossessiva. Passo i cancelli osservando le mani impacciate sulle chiavi, il crocefisso sbatte contro una sbarra e mi fa sussultare, mi ritrovo in una celletta ingombra, mi sento stordita e maldestra.
“Perché?”
Perché che cosa, Suor Amélie? Sto cucendo fiorellini pacchiani su cerchietti e fermagli, tiro riccioli di nastro con un forbicione, ho deglutito d’emozione
nel ritrovare un oggetto così proibito e quasi dimenticato, lame d’acciaio, che potenza, che gusto nelle mani. Se il direttore sapesse che la monaca mi lascia a disposizione un’arma del genere gli verrebbe un colpo aplopettico, telefonerebbe al ministro, “Eccellenza, lei capisce, una detenuta speciale, pericolosa”, bisognerebbe denunciare l’accordo passato tra Chiesa e Stato, allertare il vescovo, forse il Papa, sghignazzo tra me, mentre Suor Amélie mi incalza, “Se non crede in Dio, perché lavora per queste ragazze così diverse, con cui lei non condivide niente?”
E’ psicologa, Suor Amélie, le arrivanti passano il colloquio con lei quando approdano qua. Alzo le spalle e appunto tre mughetti con foglia su una forcina, nella testa mi sfilano le tappe del mio arresto,dall’occupazione militare di casa in poi. Interrogatorio, addio ai bambini ad occhi asciutti, “torni presto?”, sgambettano via, passano un angolo e non li vedo più, spalle dritte e respiro sincopato, manette, passi bui, celle catacombali del commissariato o del tribunale, una , due, tre, mille notti senza giorno in cellette così esigue che non ci si può allungare, la panca è un metro e mezzo, senza scarpe e senza reggiseno, urla dementi che trafiggono l’oscurità, miasmi come pugni violenti nello stomaco, implorare per avere un bicchier d’acqua o perché azionino lo sciacquone inesorabilmente piazzato fuori della porta, fame selvaggia, “qua non diamo da mangiare!”, che ora è? “qua non diamo informazioni!”, quando mi portarono dal giudice mi pareva un sogno, la luce, l’aria, la gente con la faccia, l’andirivieni, una sigaretta guardando le nuvole fuori dalla finestra, lasciatemi morire qua, sto bene.
“Lei ha qualcosa da dichiarare?”
“No, grazie”
“Scriva, cancelliere: Nulla ho da dichiarare”.
“Grazie”
“Lei sarà associata al carcere femminile di…”
Me ne vergogno ancora, di quel mio sorriso ebete, pensavo solo che non sarei tornata sottoterra, niente poteva essere peggiore, il giudice era una donna, aveva gli occhi bistrati, io ringraziavo e sorridevo e non me ne importava niente della sua espressione puntuta, più tardi mi sono resa conto che era panico, doveva aver divorato tutta la bella letteratura giornalistica sui feroci terroristi italiani, e magari pensava che l’avrei uccisa volentieri, dopo averle torturato la famiglia, bruciato i beni e minato la villetta delle vacanze, sempre sorridendo, col mio cuore di pietra.
“Alla festa nell’anfiteatro, dopo la messa di Natale, verrà, lei?”
Certo che verrò. Ci saranno Lilli e Dieguito, e un’altra italiana del braccio B, l’ho appena intravista alla matricola, vietato parlarsi per disposizione dei giudici, politica pure lei, tra noi corrono dieci anni che paiono cento, ma tant’è, per i giudici siamo tutti compari d’eversione, chissà forse per la festa si dimenticano il divieto…
“Vengono anche le musulmane”, dice Suor Amélie indispettita dai miei silenzi.
Io ho rubato un resto di candela rossa, la infilo sotto la cintura, poi faccio sparire tre nastri lucidi, spille da balia, bottoni e perline di vetro in una sacchetta di tela.
“Sarebbe bene prevedere un pasto senza maiale”, borbotto col filo in bocca e l’ago in mano.
“Superstizioni”, sentenzia lei.
Nel suo ufficio di capo-psicologa, gli scaffali della libreria inzeppati di libri astrusi, un solo Freud in cima a sinistra – impossibile arrivarci senza una scala, Malika le ha spiegato che il suo uomo l’ha denunciata perché era andata gratis con un tipo, e che quando esce gli taglierà la gola, è obbligata a farlo, la legge è uguale per tutti, perdio, ci vuole un ordine morale per i popoli, un delatore va giustiziato, no di Gesù lei non ne sa niente e a dire il vero neanche le interessa, se quello perdonava erano fatti suoi, era senza onore, con rispetto parlando, ma lei è Malika e sa quello che deve fare, la galera, cara signora, lei c’è abituata, e almeno starà dentro per omicidio e non per adescamento, e il paradiso non glielo leva nessuno perché sarà morta in guerra.
“Le è mancata l’autorità paterna”, ha scritto Suor Amélie sulla scheda di Malika.
“Mi lascia vedere la mia?” Già m’immagino la faccia di Isa quando le racconterò la diagnosi psichica di Suor Amélie.
“Scherziamo? E’ contro il regolamento”.
Ma è lei la prima a non crederci al regolamento, esce e mi lascia lo scatolo delle schede a portata di mano.
Le scorro febbrile, mi scottano le guance, non trovo il mio nome, la monaca non rispetta neanche l’ordine alfabetico, una vera anarchica, rido tra me, eccomi! “Forte disciplina ment. L’addestr. marxista risulta evidente, padronanza dei sentim. ma presenza di un focolaio emoz. di estremo interesse. Può essere guidata al Bene”. Con la maiuscola.
Quando rientra è tutta allusiva e complice, la mia strada è tracciata, devo solo seguirla e, col suo aiuto, scuotermi di dosso le scorie di panteismo oscurantista. Caritativa sì, ma spiritualmente arcigna, così mi vuole la suorapsicologa.
Torno in cella e nascondo il bottino sotto al materasso. All’ultimo momento ho scippato un gomitolo di lana bianca e due ferri da calza, nei corridoi mi s’infilzavano nell’inguine mentre immaginavo i due pupazzetti da mandare ai piccoli, due topi coi baffi fatti di fili di coperta, se le avessi domandato il materiale Suor Amélie me l’avrebbe dato di sicuro, ma preferisco così. Che aggiunga “puls. malvagie incontroll., probab. compl. di castraz.”
“Allora?”, dice Isa, ” sei diventata una dama di San Vincenzo?”
“Solo una dama, ma lo ero già da prima”
Compie gli anni il giorno di Natale, Isa, l’ho letto sulla sua scheda.
Eccolo, il veglione in galera. Sono stata anche alla messa, ognuna cantava per conto suo, colombiane, maghrebine, nigeriane, tailandesi e parigine, un prete centenario, le ebree in fondo col rabbino a leggere il Libro, un baccano d’inferno, Dieguito s’è spaventato e berciava in braccio a Honorine, che continuava a ninnarlo con la sua faccia da madonna nera. Le hanno ritirato il figlio ai diciotto mesi regolamentari e da allora tutte le mettono i bambini in braccio come in una culla, lei sorride quando qualcuna le consiglia di rifiutare, di diffidare delle profittatrici, continua a sorridere a occhi chiusi e dondola il busto per ore, Lilli si riprende Diego addormentato e Amina ci piazza Sherazade, e così via, quando i preti se ne sono andati hanno messo la radio, siamo tutte ubriache d’aranciata, fa un bel caldo nell’anfiteatro e noi vogliamo ubriacarci di caldo, di rumori di festa, di musiche, delle carte stagnole appese al soffitto, dei pacchettini con la coccarda fatta dalle mie dita, tutte col cuore in vista, gli occhi luccicanti, Fiona che esce domani, Aminata che mi si appende al collo e quasi non me ne accorgo talmente è leggera, Zara la zingara che legge a tutte la mano gratis, io e la politica del braccio B ci siamo strette la mano e abbiamo cantato “tu scendi dalle stelle o re dei cieeeli”, poi ci siamo perdonate i peccati ideologici e abbiamo applaudito in cadenza la danza del ventre di quattro veterane, un immenso pallone morbido ci comprime la voglia di casa, Isa ha intrecciato i capelli con nastri rosa e rossi, il vapore nasconde le sbarre
la nuvola scende pietosa e cela la preda al suo inseguitore. Ma quello non si allontana, fiuta e raspa la terra e non trovando impronte gira e rigira intorno a lei immobile e atterrita, ode il martellare del suo petto, l’assedia d’attesa
poi la sirena mugghia che la festa è finita, si rientra in cella.
Provo a scherzare ma non mi riesce. Isa contempla i suoi nuovi tesori alla luce della candela, fa scorrere le perline tra le dita, arrotola e liscia i nastri, pallida e struggente.
Io resto lì, le braccia lungo i fianchi, rigida davanti al vetro buio su cui danza il riflesso della fiammella e
rivoli d’acqua azzurra sgocciolano da tutto il corpo, dovunque appoggi il piede quel ruscellare si trasforma in pozza, e dai capelli stilla la rugiada,
allora m’abbandono, sento le ossa sciogliersi, la pelle fendersi e la paura entrarmi dentro decisa, come seguendo una pista antica, la sento scrosciare nelle vene, spaccare tutti gli argini, dilagare e rombare.
Dietro lo schermo delle palpebre il demone Alfeo attacca i miei figli, li trascina lontano per sbranarli, io mi lancio nell’aria nera, costretta a seguire le tracce insanguinate, urlo fino a non riconoscere più la mia voce, scortico la notte con i denti, graffio la terra per scovare la tana, trovo un cunicolo e mi ci getto, spingo con le spalle e con la testa, striscio, soffoco, ma li sento ancora, so che sono passati qui, distinguo ancora il loro odore mischiato al lezzo di lui, e affondo sempre, riesco ad afferrare un piede, poi un braccio, una ciocca umida, me li stringo addosso con furore, la caccia continua, ma ora sono io il predatore, lo vedo fuggire raccogliendosi addosso le sue acque torbide, lo colpisco con frecce arroventate di magia, non gli dò tregua, i piccoli appesi al collo e alla schiena, rotoliamo in una discesa vertiginosa, le fiamme lo aggrediscono con furia, lo vedo friggere e svaporare gridando e maledicendo il cielo, noi ci mutiamo in argilla e in creta, ci carichiamo di diamanti, serpeggiamo insieme nel ventre caldo del vulcano, mentre rimontiamo il camino sento le loro piccole voci recitare l’incantesimo,
e riaffioro ad occhi chiusi nella cella ventuno, gorgo di donna sotto i cieli.
L’alba è attraversata da uccelli bianchi. Le detenute dicono che annunciano la neve. Sono restata in piedi tutta la notte. Mi scuoto e mi spoglio, gli abiti sono grondanti, li strizzo fuori dai diciotto centimetri, passo lo strofinaccio per terra, poi m’allungo sul letto e sospiro.
“Auguri Isa”, dico piano.
Paola De Luca
Parigi, Dicembre 1991
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Grande proposta, effeffe, grazie.
Bellissimo e straziante. Da graffi profondi sulle pareti dell’anima. E sulla pelle. Scrittura superba.
Stavo per scrivere “bello”.
Poi mi sono detto come fai a dire che è “bello” un pezzo così doloroso, così intenso, che dice e coinvolge così tanto?
È questo che intendiamo quando diciamo “bello” di una cosa scritta?
Non so, non credo, o almeno non qui.
Qui posso dire che questa cosa scritta possiede materia, forma e ragione di esistere.
E capacità di comunicare, fortissima.
Almeno per me è così.
Ieri sera, intervistata in televisione, Adriana Faranda mi dava tutt’altra impressione.
Ma non me la sento di emettere alcun giudizio.
Loro in fondo hanno solo fatto ciò che molti, moltissimi, dissero soltanto e propugnarono.
L’irresponsabilità degli atti fu prima, innanzi tutto e per tutti, irresponsabilità delle parole.
Dunque almeno astenersi da ogni giudizio.
Da ogni stupida sentenza “politicamente corretta”.
molto bello davvero.
già.