Sul ring con Jack London
di Nicola Lagioia
Aggirare i critici
Che cosa può imparare uno scrittore della mia generazione (quella cresciuta senza Dio e senza Marx) leggendo Jack London? Molto, moltissimo, a patto di disfarsi di quella sfortuna e fortuna critica – smorfie di sufficienza e successive riabilitazioni – che è indebitamente cresciuta per decenni intorno all’autore di Martin Eden, Zanna bianca e altre pietre miliari della letteratura di tutti i tempi, tra cui questi racconti solidi e traboccanti di vita.
Tanto per cominciare non bisognerebbe fidarsi troppo della critica accademica che, a pochi decenni dalla morte di London, tentò di fare da controcanto all’enorme diffusione dei suoi libri biasimandone l’impianto naturalistico, l’andamento lineare, il ricorso a un istinto narrativo incurante dell’ansia di sperimentazione che avrebbe segnato quasi tutto il novecento letterario. Sono, i critici in questione, quelli che hanno osannato Joyce, Proust, Beckett, Faulkner, Kafka per i motivi sbagliati, isolando la novità della tecnica narrativa (fosse lo stream of consciousness o l’eterno ritorno della Recherche) dal suo obiettivo più importante e immediato, che poi è l’obiettivo della letteratura tout court: sondare il cuore dell’uomo, dire una verità (anche tragica) sul suo posto nel mondo. Quante volte del resto sui nostri libri di scuola ci siamo imbattuti in un saggio critico da cui il monologo di Molly Bloom ne usciva ridotto a un freddo, complicatissimo trattato di ingegneria letteraria mentre invece a leggerle davvero, quelle pagine, si scoprono – tenuti su da quella stessa ingegneria, è chiaro – una potenza, una bellezza, un calore, una sensualità ai limiti dell’osceno?
Per capire London, per amarlo, per cercare di rubare anche una scheggia dal suo terrificante talento, non è sufficiente tenersi alla larga dai ruminii dell’accademia. Bisogna diffidare anche di certi estimatori: i critici militanti che in Francia, in Italia, nell’Unione Sovietica dei tempi che furono provarono a cimentarsi in un’opera di recupero che non ha mai centrato del tutto il bersaglio. In questo caso a Jack London, che aveva vestito i panni del cercatore d’oro, del pescatore di ostriche, del contrabbandiere, dell’agente assicurativo, del rivoluzionario socialista ma, davanti alla macchina per scrivere, soltanto quelli dello scrittore, venne infilata proditoriamente la camicia rossa. E’ il cantore dei diseredati, dei poveri, degli sfruttati, delle vittime del capitalismo, si diceva con soddisfazione, come se il colore politico di un testo letterario (ontologicamente impolitico, se è destinato a vincere la propria battaglia contro il tempo) sia mai stato di per sé un attestato di qualità. Jack London militò nel rivoluzionario Socialist Labor Party di Daniel De Leon per confluire in seguito nel più moderato Partito Socialista Americano, che abbandonerà soltanto nel 1916, a pochi mesi dalla morte. Ma se è vero che la critica sociale fa spesso da sfondo ai suoi libri, si potrebbe imbastire il medesimo discorso per l’individualismo esasperato che pure trasuda da alcuni personaggi (Martin Eden in primis) di un pantheon ricchissimo – un unico grande contenitore, quello della sua opera, in cui riecheggiano le voci di Marx, di Nietzsche, di Zola, di Darwin, con un risultato finale che va molto oltre la somma degli addendi e con una contraddittorietà che può spiazzare solo il pericolante approccio alla letteratura di certa critica militante.
Il peccato commesso sia dagli accademici malati di intellettualismo che dai critici letterari affetti da marxismo è in fondo il medesimo: dare una lettura ideologica di Jack London. E se indossare le lenti dell’ideologia è il sistema migliore per tradire la vita, la stessa cosa si può dire anche per l’arte, che della vita è uno degli specchi più fedeli.
Uomo e mondo
Liberatosi dalle pastoie dell’ideologia, il giovane scrittore che voglia imparare qualcosa dall’arte di Jack London si renderà conto di come i conflitti sociali, le lotte sindacali, le palestre di boxe, il gelo del Klondike sono più che altro l’occasione, il contesto, l’apparato scenografico necessario a mettere in scena il più universale dei temi: il confronto tra singolo e mondo.
Prendiamo un racconto prodigioso come Il messicano. L’epopea di Felipe Rivera non ha il suo centro propulsivo nella lotta tra la Junta e il presidente Porfirio Diaz. Se fra un secolo o anche meno, quando della rivoluzione messicana importerà soltanto agli storici, questo racconto dovesse venire letto soprattutto per le sue connotazioni politiche, vorrebbe dire che il suo valore è più documentale e sociologico che non artistico. Ma dal momento che nella lotta della letteratura contro il tempo il valore estetico conta molto più di quello politico-sociale, la presenza (scontata, a mio parere) de Il messicano nelle antologie letterarie future sarà dovuta al fatto che questo non è un racconto sulla rivoluzione messicana ma su un tema molto più antico: la vendetta. Allo stesso modo, il Macbeth non è la cronaca delle lotte per il trono nella Scozia dell’XI secolo ma la più grande opera mai scritta sulla malattia e la solitudine del potere. O ancora, per muoverci in un territorio più spinoso e vicino ai nostri tempi, Una questione privata di Beppe Fenoglio prima di essere un prezioso documento sulla lotta partigiana è una mirabile vicenda di coraggio, amore e tradimento.
Allo stesso modo, ne Il sogno di Debs, lo sciopero generale che paralizza San Francisco diventa l’occasione per abbracciare un tema ben più vasto delle lotte sindacali di inizio novecento: l’estrema fragilità dei meccanismi di convivenza, il continuo pericolo che la civiltà possa rovesciarsi nella barbarie e l’uomo precipitare giù dai cornicioni sempre molto stretti – e sempre a perpendicolo sullo stato di natura – delle gerarchie sociali (da ricco borghese, ad esempio, a semplice creatura di carne e sangue). L’apostata è un apologo sulla possibile emancipazione dell’individuo calato in un contesto lavorativo e familiare soffocanti a cui il sistema concentrazionario dello sfruttamento minorile fa da variabile e ottima cornice, così come la boxe, in Una bella bistecca, diventa il telaio (ancora una volta l’occasione) su cui intessere l’eterno problema della caducità umana, la dialettica tra vecchiaia e gioventù (“Sì, la Gioventù era la nemesi”, scrive London in uno dei momenti più alti di quest’ultimo racconto, “distruggeva i vecchi, incurante di distruggere in tal modo anche se stessa”).
Soltanto in questo modo, separando l’occasione storica dall’universalità delle tematiche affrontate, un autore che si trovi a vivere, scrivere, amare, lavorare nel XXI secolo, potrà abbeverarsi alla fonte di Jack London con la speranza che questo possa essere utile a una letteratura che, per forza di cose, si debba mettere a confronto con problematiche e contesti completamente differenti da quelli in cui si muoveva lo scrittore di San Francisco. Un autore contemporaneo che a mio parere, pur sfruttandola in parti minime (e chissà quanto consapevolmente), è riuscito a far tesoro dell’eredità di London è per esempio Philip Roth. Prendete la lotta per la sopravvivenza dei cercatori d’oro di London, l’ostinazione, il vitalismo, la capacità di combattere fino all’ultima goccia di energia di certi suoi personaggi (uno fra tutti il protagonista de L’amore per la vita), smantellate la scenografia dello Yukon e, con un salto piuttosto indolore da Natur a Kultur, mettete al suo posto la borghesia nordamericana del secondo dopoguerra, altrettanto spietata e letale di un lago ghiacciato sul punto di spaccarsi sotto i piedi: otterrete qualcosa di molto simile a Mickey Sabbath. Oppure, facendo il percorso inverso (da Kultur a Natur, vale a dire), prendete Tom King, il boxeur protagonista de Una bella bistecca, strappatelo via dal ring e piazzatelo su una barca, al posto del suo giovane avversario metteteci un Blu Marlin ed ecco che King si è trasformato in Santiago. E infatti Hemingway, non solo quello de Il vecchio e il mare, ha attinto molto da Jack London, condividendone in maniera impressionante, fuor di letteratura, persino il tragico epilogo. Insomma, la miniera di Jack London è piena di pepite d’oro che, maneggiate con la giusta cura, possono essere fruttuosamente trasportate dagli scenari “pesanti” della rivoluzione industriale e delle montagne innevate a quelli ultra-light (e ultraflessibili) del mondo contemporaneo.
Mimetismo e tecnica
Altra caratteristica di Jack London che tutti gli scrittori venuti dopo di lui non possono fare a meno di invidiare, è la strabiliante capacità mimetica: la facoltà, vale a dire, di mettere credibilmente in scena qualunque tipo di personaggio. Probabilmente sarà stato aiutato dal suo ricchissimo bagaglio di esperienze e da una capacità di osservazione non comune. Ma esperienza e occhio buono non servono a molto se non vengono messi a servizio di un talento quasi demoniaco. Jack London è capace di calarsi con una sconcertante facilità nei panni di proletari, aristocratici, operai, malati di mente, bambini, vecchi, madri, assassini, poliziotti, rivoluzionari, maggiordomi, giornalisti… senza tra l’altro limitare questa facoltà al solo genere umano: quando dalle sue pagine a un certo punto salta fuori un lupo, ci sembra stranamente di essere nella testa del lupo, di pensare insieme a lui; la stessa cosa per orsi, cani, caribù fino ad attraversare una soglia piuttosto inquietante – quella tra organico e inorganico – oltre la quale London può convincerci di essere capace (e noi, leggendo, capaci insieme a lui) di incarnare lo spirito, il senso (il pensiero?) di una distesa di neve, di un ruscello, di una roccia, di un cadavere, di una locomotiva. Ci vuole un talento quasi demoniaco, dicevo, perché la sensazione è che London possegga letteralmente ogni cosa, vivente e non vivente, che gli capita a tiro. E questa è una caratteristica soltanto dei grandissimi, un super-potere che ritroviamo per esempio in forma titanica nel Tolstoj di Guerra e Pace a Anna Karenina: due capolavori che, visti secondo questa prospettiva (la possessione) appaiono come gigantesche, impeccabili cattedrali innalzate verso il cielo all’interno delle quali riecheggiano le voci di un sabba perenne.
E veniamo infine alla lingua di London. Il suo stile è lineare, asciutto, piuttosto ordinato, anche se certe volte ci sono delle ripetizioni non proprio necessarie: sembrerebbe avere poco a che a fare con i linguaggi di “rottura” di molta prosa novecentesca. Eppure ci sono almeno due caratteristiche che lo rendono attuale e estremamente degno d’interesse. Innanzitutto il ritmo: la prosa di London non perde quasi mai colpi, e la sua velocità non va mai a discapito della completezza, della ricchezza, della molteplicità di punti di vista – è un dinamismo, insomma, capace di trascinarsi dietro interi mondi. In secondo luogo l’irriducibilità: la lingua di Jack London resta la lingua di Jack London, sempre. Che significa? Alcuni scrittori, anche bravissimi, si avvalgono di uno stile la cui composizione molecolare è subito manifesta o comunque di uno stile che, portato alle estreme conseguenze, cambia a un certo punto i propri connotati. Farò due esempi a me molto cari. Il primo è Vladimir Nabokov. Credo di aver letto Lolita poco meno di una decina di volte, e ogni volta ho provato le stesse fortissime emozioni. Questo non toglie che la prosa, meravigliosamente sontuosa e artificiosa al tempo stesso, di Nabokov, sia facilmente scomponibile, sondabile, composta da tanti microelementi differenti l’uno dall’altro i quali, montati secondo un ordine variabile, danno vita volta per volta a qualcosa di diverso. Il secondo esempio è quello di Ernest Hemingway. Il suo continuo gioco di sottrazione – la sua lotta contro ogni aggettivo di troppo, questa battaglia sempre vinta contro tutti i generi di orpelli e sbavature – dà come risultato nel migliore dei casi pezzi di letteratura solidi, perfetti, adamantini e caldi al tempo stesso. E tuttavia, nei momenti in cui il “lavoro a togliere” raggiunge le sue conseguenze più estreme, la prosa di Hemingway acquista una colorazione non sospetta fino a quel punto: si intravede all’improvviso qualcosa di trasparente, di gelido, di vuoto, di terribilmente sterile, una pulizia mortuaria, una fulminea sensazione da slogan pubblicitario ben riuscito.
Diverso è il caso di scrittori pure diversissimi tra loro come Céline, Kafka, Tolstoj e, appunto, Jack London. La loro lingua, come dicevo, è irriducibile o (se comunque in letteratura tutto è artificio, dà l’illusione di una irriducibilità). Portata alle estreme conseguenze, vale a dire, rimane identica a se stessa. Scomposta in mille frammenti, trasmette una sensazione vertiginosa che sembra farsi beffe di ogni principio di fisica terrestre: non otteniamo, cioè, tante microtessere diverse l’una dall’altra, ma sempre la medesima particella molecolare che, unita a particelle molecolari assolutamente identiche, dà vita a quadri, pannelli, affreschi, movimenti sempre diversi. E’ il motivo per cui di certi scrittori ammiriamo l’intelligenza, la capacità combinatoria, l’abilità di affabulazione, con la possibilità (se non di imitarli) di ripercorre mentalmente, passo dopo passo, il sentiero che ha condotto alla composizione dei loro libri. Mentre per altri (e London è fra questi, come Tolstoj, come Kafka, come Céline…) siamo costretti a domandarci ricorsivamente come diavolo riescono a fare quello che fanno. Il centro di irradiazione delle loro opere ci appare allora insondabile e misterioso, fino a farci sorgere il sospetto che questo mistero consista nell’annullamento della distanza che separa l’essere umano dal materiale letterario (a un certo punto non sono più uomini ostinati e incredibilmente talentuosi alle prese con la letteratura, ma, in una regione che non si capisce bene se sia localizzata nello stomaco, nel cuore, o a fior di polpastrello, c’è la letteratura alle prese con se stessa). La prima reazione può essere quella di un’infinita soggezione, la stessa che, mista alla solita inimitabile sbruffoneria, fece dire a Hemingway in una famosa intervista: “Io ho cominciato zitto zitto e ho battuto Turgenev. Poi mi sono allenato duramente e ho battuto il signor De Maupassant. Ho fatto due pareggi con il signor Stendhal e credo di essere stato in vantaggio nel secondo match. Ma nessuno mi porterà mai sul ring con il signor Tolstoj, a meno che non sia diventato pazzo o non continui a migliorare”. La stessa cosa detta per Tolstoj può valere a mio parere anche per Jack London. Se non fosse che salire sul ring contro campioni di quel calibro è invece consigliabile. Se si è bravi e fortunati si va al tappeto magari alla seconda ripresa, ci si domanda senza potercesene capacitare di cosa sia fatta la combinazione di colpi che ci ha piegato le ginocchia e annebbiato la vista. Ma si impara molto. Il semplice dolore alla mascella dove si è posato una o due volte un gancio di livello stellare, per esempio, può dirci molto più di mille corsi di scrittura creativa. Ed è per questo che frequentare i classici senza paura di farsi male è il miglior viatico per chiunque voglia diventare uno scrittore.
Per finire
Dimenticavo. Forse non c’entra molto con le tecniche narrative, ma leggendo Jack London ci si ricorda come i veri uomini non si vergognino di piangere.
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C’è un racconto di London che amo citare. Si intitola “Accendere un fuoco”.
In “Accendere un fuoco” London parla di un uomo che si perde in una bufera di neve.
E’ solo.
Ha freddo.
Nel buio.
Deve assolutamente accendere un fuoco.
E deve accenderlo per due ragioni:se fosse solo per tenersi caldo l’uomo scoprirebbe che questo calore lo porterebbe presto alla morte perchè 5 minuti dopo averlo acceso, dato che è stanchissimo, si addormenterebbe e morirebbe congelato.
La seconda ragione è che deve accendere un fuoco perchè sia un segnale, perchè magari qualcuno dei suoi compagni apparentemente così lontani lo veda e lo raggiunga.
E insieme, magari raccontandosi delle storie, possano passare la “notte” che è lunga e faticosa…
In effetti tanti sono cresciuti senza Dio e senza Marx. Unica certezza, Jeeg Robot d’Acciaio.
Gli stravolgimenti che la lettura scolastica opera sui testi narrativi sono impressionanti. Roba da sconsigliare l’acquisto di un libro per tutta la vita a molti studenti. Ricordo che la mia professoressa mi fece odiare Verga, dopo una sua personale lettura romantica-pietistica. Ricordo un altro insegnante che mi propinava gli autori come se parlasse di ingegneri letterari alle prese con i loro misteriosi giochini combinatori. Le antologie scolastiche ovviamente contribuivano a questa adulterazione della realtà letteraria: ti sparavano in faccia un passo di uno scrittore e tu da lì dovevi costruirti tutto l’esame.
Caro Nicola,
credo che non vi sia lacrima di cui vergognarsi alla fine di un capolavoro come Martin Eden. Io, a dieci anni, ho versato anfore colme di pianto sulle pagine della mia copia del ’66, ereditata da mio padre. Sin da allora sognavo di diventare uno scrittore, ma non uno scrittore qualunque. Volevo diventare Martin Eden. Volevo essere la pagina 102, quando Martin, leggendo a Ruth il racconto Il vino della vita, torna a provare “l’antico ardore e la passione con cui l’aveva scritto”. A dieci anni avevo collezionato già numerose lettere di rifiuto, per la maggior parte dalla Mondadori che gentilmente e comprensibilmente non poteva pubblicare i miei racconti sugli animali parlanti e sui bambini che fanno amicizia con gli alieni. Quelle lettere diventarono ancor più preziose nell’adolescenza, il rifiuto una condizione condivisibile. “Ecco la prima battaglia combattuta e perduta – diceva Martin Eden allo specchio “ma ve ne sarà una seconda, ed una terza, ed altre ancora, sino alla fine del tempo, a meno che…” Una pagina che mi ha accompagnato in lunghi e tortuosi percorsi, attraverso la scrittura di migliaia di pagine che hanno tapezzato la mia camera. Credo che questo libro sia indispensabile per ciascun autore esordiente per confrontarsi con un mondo agognato, ma a tratti solo stilizzato, quello degli scrittori pubblicati. Una lezione di vita imprescindibile. Perchè sono tanti coloro che vogliono arrivare al successo come scrittori per essere accettati in un mondo dorato che non gli respinga. Ma si rischia, come per Martin Eden, che, una volta entrati dalla porta principale, ci si renda conto che la “la vita può nauseare”. Che i valori borghesi tanto desiderati siano più dolorosi di una lettera di rifiuto. Jack London/Martin Eden è la voce che dovrebbe accompagnare, guidare, segnare il percorso di scriventi, scrittori esordienti e scrittori affermati, o semplicemente scrittori. Non posso che citare un passaggio definitivo, imponente, letterariamente biblico: “guardò l’enorme mucchio di ritagli di giornali che gli venivano dall’apposita agenzia, e lesse di sé e della sua fama cose strabilianti. Tutti i suoi lavori erano stati lanciati al pubblico con un successo magnifico…Martin ricordò, però, che quella stessa folla, dopo averlo letto, acclamato, e per nulla capito, s’era, pochi mesi dopo, bruscamente lanciata su di lui e l’aveva fatto a brani. Martin sogghignò al pensiero. Chi era lui, per non essere trattato nello stesso modo pochi mesi dopo? ….Vide chiaramente che si trovava nella Valle delle Ombre.”
A Jack London. Grazie.
Ciao Nicola
Christian Mascheroni
ma è proprio vero che se ti addormenti (in una bufera ecc.. magari pure dopo aver acceso il fuoco.. ) muori? mo’ provo…
Più che Jeeg ci metterei Evangelion (oggi ho rivisto il 24esimo ep, tanto per fare qualcosa per evitare di prepare matematica…).
Per London direi che la mia ignoranza di quello che per me resta un nome puro è la prova della fatica che faccio a leggere qualcosa di scritto prima del 1950… dannata scuola! Comunque quando arrivano gli spunti le lacune si colmano volentieri anche se prima tocca a Celine…
Guglielmo, la nuova pietra miliare dopo Evangelion è Fullmetal Alchemist.
Capolavoro di equilbrio narrativo (cosa rara da dire di un anime!).
E “equilibrio” è uno dei concetti portanti su cui è costruito il mondo e la narrazione stessa, oltre al risultato narrativo che essa ottiene!
Sto parlando come un critico ingegnerizzante?
Fa piacere leggere articoli di quersto genere su NI. Personalmente ne vorrei di più come questo.
Due puntualizzazioni sul testo, sulla parte iniziale.
Non conosco bene le opinioni della critica su Jack London, ma sapevo che in generale London non godeva di molto credito. E immaginavo che la critica “marxista” lo avesse esaltato in senso “ideologico”. Capisco dunque quanto scrive Lagioia al riguardo.
Contesto però due sue affermazioni, quando dal particolare passa a sentenziare con delle massime che vorrebbe universali:
– Perché un testo letterario che vinca la sua “battaglia contro il tempo” (un capolavoro quindi) dovrebbe essere “ontologicamente impolitico”?
Temo che Lagioia abbia una concezione del “politico” legata alla contingenza. Io credo invece che molti capolavori letterari siano spesso ontologicamente politici, nel senso più pieno e più alto del termine.
– Perché “indossare le lenti dell’ideologia è il sistema migliore per tradire la vita” e “la stessa cosa si può dire anche per l’arte”?
Voglio dire: siamo abituati a relegare l’ideologia a movimenti come il marxismo, al secolo scorso ecc. e oggi noi saremmo post-ideologici.
Ma forse noi stessi in futuro saremo accusati di essere stati ideologici: con l’aggravante di non essere consapevoli della nostra ideologia, perchè diciamolo chiaramente: abbiamo noi oggi forse la pretesa di vedere il mondo senza la minima lente deformante delle nostre idee erette in modo più o meno organico a sistema?
Lorenz
“Liberatosi dalle pastoie dell’ideologia, il giovane scrittore che voglia imparare qualcosa dall’arte di Jack London si renderà conto di come i conflitti sociali, le lotte sindacali, le palestre di boxe, il gelo del Klondike sono più che altro l’occasione, il contesto, l’apparato scenografico necessario a mettere in scena il più universale dei temi: il confronto tra singolo e mondo.”
Ma volersi liberare dalle pastoie dell’ideologia, non è forse un’ideologia?
Il fascino di London sta proprio nel suo essere sempre ideologicamente sopra le righe, sempre in bilico tra socialismo e razzismo, un niciano affascinato dalla volontà di potenza e ossessionato dall’eterno ritorno (vedi “il vagabondo delle stelle”). E comunque un romanzo totalmente ideologico come “Il tallone di ferro”, pubblicato giusto 100 anni fa, pur con tutti i suoi difetti stilistici, rimane tuttora un documento inarrivabile sul capitalismo e le sue conseguenze, riuscendo ad attirare persino l’attenzione di Trotzskij. Altri tempi, ideologie apperentemente tramontate.
In realtà i temi che ossessionavano London nei primi anni del secolo scorso, sono ancora i nostri, ci pervadono sottilmente. London ci è molto più vicino di quanto sospettiamo, nel descrivere società oppressive, la legge brutale del tutti contro tutti, perfino i meccanismi perversi del mercato editoriale. Uno scrittore (più o meno giovane) da London può e deve soprattutto imparare il coraggio della propria arte e della propria confusione vitale. E questa, sì, è ideologia. London scrisse per il mercato e contro il mercato stesso. E’ vero, fu la letteratura alle prese con se stessa, ma anche un combattimento serrato contro il mondo. London fu lacerato dalle proprie contraddizioni di ex bastardo dei bassifondi piombato sulla scena della culture. Alla fine il mondo vince sempre, in qualche modo. Le contraddizioni umane di London, così eminentemente sociali, alla fine lo distrussero. Ma qualcosa rimane di questa battaglia.
E anche questa, sì è ideologia.
Massimo Villivà
@ Paolo.
Ho visto solo fullmetal panic… Per quel che riguarda Eva lo adoro come anime concettuale… Cosa dice l’ingegnerizzato dell’archittettura degli ultimi due episodi?
commento solo l’inizio, il solo che finora abbia letto.
se la generazione di la joie è cresciuta, oltre che senza marx, anche senza dio, chi erano quelli che qualche tempo fa gridavano “santo subbito” a piazza san pietro?
il resto dovrò stamparlo.
London fa parte del Quintetto Sacro: Melville, Stevenson, Kipling, Conrad e, appunto, London.
Dei senza Dio, è chiaro! Tash, confondi ancora folk-confessionalità con religiosità? ;-/
è vero… ci sono questi scrittori (London, Conrad, Kipling…) che non hanno mai avuto molto credito dai critici.. o almeno, l’hanno avuto nel senso che nei loro confronti ci si è spesi nella moda di parlarne male…
Mi ha sempre commosso, in questo senso, un articolo di Hemingway scritto sul “Transatlantic Review” (?!?) nel ’24 – aveva dunque soltanto 26 anni – per la morte di Conrad. La metto qui, giusto perché sono andato a prenderlo dopo tanto che non leggevo gli articoli di ‘Papa’: .
;)
che scemo, l’ho perso.
Lo riscrivo qui sotto.
– Quasi tutte le persone che conosco sono concordi sul fatto che Conrad è un pessimo scrittore, così come sono d’accordo nel ritenere T.S. Eliot un ottimo scrittore. Ma se sapessi che macinando Mr. Eliot sino a ridurlo a una impalpabile polvere asciutta e spruzzando questa polvere sulla tomba di Mr. Conrad, Conrad riapparirebbe nel giro di pochi istanti (decisamente seccato per questo forzato ritorno) e si metterebbe a scrivere, partirei per Londra domani mattina. Con un macinino. (..) Quando lessi le recensioni dell’Avventuriero, erano tutte concordi nel dire che era un brutto libro. E ora è morto e vorrei che Dio si fosse portato via qualche grande personaggio della letteratura ammirato per la sua tecnica e avesse lasciato qui lui a scrivere i suoi brutti libri. –
;)
Per il Quartetto Sacro concorderai che si tratta di scrittori molto diversi tra loro.
sono tutti in qualche modo tutti legati all’imperialismo anglo americano (più anglo che americano), sono tutti dediti ad una narrativa di movimento, dove i fatti scaturiscono, per così dire, dalla differenza di potenziale tra un luogo e un altro luogo che reagisce col costrutto etico delle figure che vi agiscono.
sono tutti maestri assoluti del racconto.
non so se sia esatta la tesi di Bloom su Shakespeare come matrisce del “canone occidentale”, ma certamente il Quintetto Sacro vi ha dato un solido contributo.
london tra questi giganteggia per due o tre capolavori.
su tutti: “Farsi un fuoco”.
Il groppo in gola che provi da ragazzo quando leggi “Zanna Bianca”. Quella terribile scena del mastino napoletano che serra le ganasce intorno al collo del lupo, e stringe, stringe, segando la pelliccia e risalendo verso la giugulare. Avete presente una splash-page? Molto peggio.
Roba che solo un professore di scuola media all’oscuro dei veri contenuti del romanzo può assegnarlo ai suoi studenti come lettura estiva, pensando che si tratti di letteratura per ragazzi. Scene come quella ti segnano la fanciullezza.
Lagioia ha fatto bene a ricordare che i migliori corsi di scrittura creativa sono quelli dove non t’insegnano i fantomatici “metodi”, o le ancora più chimeriche “tecniche” di scrittura, cioè quella cianfrusaglia didattica su come si dovrebbe scrivere un incipit, che cos’è il punto di vista e come si scrive una digressione.
Le migliori scuole, casomai, insegnano a trovare la propria, personalissima, irripetibile, “pratica” di scrittura, che poi significa scrivi come vivi, apri la finestra e guarda in cortile, esci per strada e fatti un giro come si deve per capire come la gira.
Vorrei osservare che il deficit naturalistico, mimetico, finanche ritmico, stigmatizzato nel pezzo di Lagioia – una colpa che tutto sommato ricade ingenerosamente sulle spalle della critica – invade anche il campo dei romanzieri e del romanzo.
Per restare alla cara patria, dopo le sperimentazioni selvagge dei sessanta e settanta, e i postmodernismi degli ottanta e novanta, non mi sembra che all’orizzonte navighino ‘scrittori-scrittori’ alla London, anzi, mi sa che le italiche lettere hanno sempre scarseggiato di super-scrittori con super-poteri.
A meno che non si vogliano considerare realistici romanzi come Il nome della Rosa, Camere Separate, Oceano Mare, e cioè, rispettivamente, il pastiche letterario, il diario sentimentale, e il feuilleton d’alto bordo (ma ne possiamo parlare).
Forse Nicola voleva dire proprio questo. Ha scomodato il pantheon della letteratura moderna per onorare London: dal già frequentato Tolstoj all’imperituro Hemingway. Ma tra i continuatori ‘minori’ vorrei aggiungere Bruno Traven, alias mille nomi, mille volti, e (più d’una) identità.
Eccolo, uno dei misteriosi autori della letteratura americana che servirebbero tanto a quella italiana, così piena di protagonisti in pole position. A proposito, qualcuno sa che fine ha fatto Traven?
Io avrei scritto che il pezzo di La Gioia è la pre-fazione alla raccolta di racconti di London pubblicata da Cargo edizioni, titolo La lotta per la vita, molto darwiniano.
Era un mastino napoletano!?! Non ci credo.
Comunque una ragazza si interrogava amaramente su se stessa, leggendo Jack London.
Da una parte c’era Piccole donne e dall’altro Martin Eden. La vita era dura.
Per fortuna c’era la Austen, anche se Naipaul la distrugge, e romanzi neutri come I tre moschettieri che non davano problemi di identità:–)
Ma Lagioia non ha imparato niente da quei grandi!
Ma intanto qualche giorno fa, sfogliando i libri al supermercato, ho visto che Moccia nel suo romanzo rifà il finale proprio di Martin Eden. La cosa mi ha davvero colpito.
Moccia, davvero? Sono stupita anch’io, ma in quale? Quello da un fantastilione di copie l’ho leggiucchiato e non muore nessuno. Forse il secondo?
Comunque il ricordo della morte di Martin Eden è uno dei più forti ricordi della mia infanzia letteraria, ce l’ho davanti perfettamente persino adesso, dopo quasi cinquant’anni.
Se Moccia lo usa vuol dire che ha imparato bene il mestiere.
Credo tu abbia colpito nel segno. La lettura di Jack London è un fatto molto personale e forse, in particolare, una delle sue opere più celebri, Martin Eden. C’è quel vitalismo dentro quel personaggio che è una cosa unica: in molti, se ho capito bene, abbiamo una parte che condividiamo profondamente con questo personaggio. Bisogna leggerlo senza pregiudizi ideologici, bisogna “stare” nei suoi personaggi e tutto questo è la lezione che ci offre la migliore letteratura americana. Non sono un critico, quando ho letto Martin Eden mi ricordo che si muoveva qualcosa dentro di me. Sì proprio così.