Padre Quotidiano/Matteo Palumbo
VAN GOGH, Vincent,Portrait of Pere Tanguy 1887-88
Oil on canvas92 x 75 cm Musee Rodin, Paris
Padri e figli
di
Matteo Palumbo
L’archetipo del disagio verso l’autorità è senza dubbio la celebre Lettera al padre di Franz Kafka. Il malessere qui manifestato, il brivido di paura, avvertito da chi scrive come una febbre che corrode la fiducia necessaria a esistere e ad agire, trovano la loro origine nella consapevolezza di una insopportabile prigionia. Il mondo del padre contiene leggi inflessibili: vincoli, doveri, modelli, obblighi, che condizionano le scelte dell’altro. Il Padre è «troppo forte»; esibisce «robustezza, salute, appetito, sonorità di voce, facondia, soddisfazione di Sé, superiorità verso il mondo, tenacia, presenza di spirito, conoscenza degli uomini, una certa generosità». Egli può trattare un figlio «solo secondo il Suo carattere, con forza, rumore e scoppi d’ira»: tanto più se pretende che questi divenga «un ragazzo forte e coraggioso». Il potere di una tale autorità è letteralmente incondizionato. Non vuole argini al proprio capriccio. Il figlio può essere angosciato per anni dal «tormentoso pensiero che suo padre, il gigante, la suprema istanza, poteva venire quasi senza motivo nel cuore della notte a portarlo sul ballatoio», lasciandogli l’oscura coscienza che egli valga meno di niente.
«Dalla Sua poltrona» questo onnipotente signore governa il mondo. «La Sua opinione era giusta, ogni altra era assurda, stravagante, pazza, anormale. La Sua sicurezza era così grande che poteva anche essere incoerente e tuttavia non cessava di avere ragione». La fiducia che egli ha nelle proprie capacità non può, dunque, essere scalfita. Al contrario, chi è sottomesso al suo giudizio matura solo un sentimento di pena e di subalternità. Prigioniero di una forma che gli è imposta, non sa quale sia la sua identità. Dal proprio punto di osservazione, percepisce i rapporti con l’altro sotto tre diverse possibilità, che delineano una vera e propria topologia. C’è la zona a cui il figlio sente di appartenere.
Autentico uomo del sottosuolo, egli vive «schiavo, sottoposto a leggi inventate solo per lui» e alle quali non sa «pienamente assoggettarsi». In un secondo luogo, «infinitamente lontano» da quello riservato al figlio, c’è la roccaforte il cui regna il Padre, «impegnato a dare ordini e a irritarSi quando non erano obbediti». Tra questi due poli estremi, in un altrove improbabile, immateriale come un sogno, si colloca «un terzo mondo dove la gente viveva felice e libera da comandi e da obbedienze». Questo terzo mondo, scena dell’immaginazione e dell’utopia, è, ovviamente, l’antitesi del mondo vero, abitato da padroni e da schiavi, da dominatori inflessibili e da vittime nevrotiche e disadattate.
La natura perversa di queste relazioni produce inevitabilmente un duplice risentimento: quello di chi vede nell’altro la copia mancata, talvolta addirittura grottesca e infida, dei propri valori, e quello di chi patisce un ordine che gli è estraneo, impostogli con la ferocia di una volontà umiliante. I Padri si armano contro i figli, secondo una nuova, infinita ripetizione del mito di Crono, ma questi combattono con le armi della loro passività, con la resistenza dei loro atti estranei, con la testardaggine dei loro desideri.
Non stupisce, dunque, che nella grande letteratura del Novecento i Padri siano figura di una Verità perduta, a cui non è possibile dare fede. Essi saranno assenti (come nel Fu Mattia Pascal) o non sapranno, nel momento della morte, consegnare ai loro figli una parola definitiva, che indichi il confine tra quello che è giusto e vero e quello che non lo è. Come nella Coscienza di Zeno, quasi a siglare definitivamente una differenza insanabile, il padre di Zeno non solo non riesce a trovare quella parola decisiva, «una sola», che «gli era sfuggita per sempre», ma lascia cadere sulla guancia del figlio il peso della sua mano: quasi uno schiaffo vendicatore, che condanna l’altro, irriducibilmente diverso da lui, a sopravvivere senza una guida. Jean-Paul Sartre, rintracciando le origini della propria storia nell’autobiografia Les mots, teorizza che «un buon padre non esiste» perché è «il legame di paternità che è marcio». Il fatto di non aver avuto un padre, morto poco dopo la sua nascita, gli ha concesso, come un dono miracoloso, la sua «incredibile leggerezza» e quella assenza lo ha liberato definitivamente «dal cancro del potere», cancellando l’idea stessa di obbedienza.
Tra tutte le testimonianze letterarie possibili il caso forse più esemplare e vistoso di una tradizione di Padri, che pretendono di essere l’incarnazione indiscussa di una Legge, è costituito dal Domenico Rosi di Con gli occhi chiusi, pubblicato nel 1919 da Federigo Tozzi. Egli rinchiude in sé tutte le proprietà di quell’autorità che Kafka così perfettamente rappresenta: irascibile, prepotente, lussurioso, deciso nei suoi gesti, incapace di dubbi o di pentimenti. Il contraltare di questo modello di brutalità e di arroganza è il figlio Pietro. Come in un beffardo rovesciamento di predicati, questi diventa l’opposto di tutto ciò che l’altro è.
Al possesso violento della realtà sostituisce una forma esasperata di assenza. Perduto nelle sue «distrazioni», che sembrano perennemente guidarlo lontano da ciò che ha davanti, egli, con gli occhi chiusi, naufraga tra aspirazioni indefinite, gracili come una tela di fumo, in cerca di qualcosa che è imprecisato, ma che appare come la smentita delle attese paterne. L’apprendistato erotico ed esistenziale di cui è spettatore non produce vantaggio alcuno. Egli è, secondo la logica del suo Padre-Signore, un frutto bacato, un ostacolo alla continuità di un modello e delle regole che ne derivano. Proprio di fronte alla ripetizione di continui fallimenti, generati dall’indolenza opaca dell’altro, incapace di seguire la strada tracciata per lui, il Padre scopre la propria impotenza.
Se il nome Domenico che Federigo Tozzi gli ha assegnato, con la libertà di un creatore che plasma un coerente universo immaginativo, contiene nel proprio etimo la voce Dominus, questo personaggio si illude di poter essere letteralmente, fino in fondo, un Dio, a cui niente può essere negato. Ma il principio automatico che garantisce la continuità del sangue, e insieme la perpetuazione dei modi di essere che gli sono propri, non ha più validità. Quel figlio, in cui si ha fede e a cui si affida il mandato di una stirpe e di un sistema ideologico, risulta ormai inaffidabile. La pietra su cui si sceglie di costruire l’edificio si rivela all’improvviso fragile, inadatta al progetto a cui è destinata. Quell’altro nome, Pietro, il nome del figlio, segno biblico dell’eredità, garanzia di un fondamento su cui innalzare ogni chiesa pronta a durare nel tempo, diventa scandalosamente menzognero.
Il pilastro si sgretola e il vuoto ingoia ogni cosa. Questa voragine, ritrovata intorno a sé, spinge il Padre contro il figlio: non più riconosciuto come tale. Il figlio, a sua volta, non trova un Padre a cui appartenga: capace di certezze, ma simbolo di valori condivisi, di cui egli stesso si nutra. L’incalco (che non a caso è titolo del testo teatrale più famoso di Tozzi), lo stampo, che permette un’unica e identica creazione, si è incrinato. Una volta che la matrice si è spezzata, la perfetta coincidenza tra le forme è impossibile. I due pezzi non combaciano più. L’unica soluzione consiste nell’assumere la differenza come un dato ineliminabile: il mondo del Padre inassimilabile a quello del figlio; il due non riducibile all’uno La salvezza dalla discordia infinita potrà passare solo attraverso la coscienza del conflitto e la capacità di assumere la differenza in pace. Se questo sforzo sarà uguale a quello di Sisifo , l’epoca del risentimento non avrà fine.
articolo pubblicato in Sud n°1
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Letto in gran fretta questo pezzo, che mi sembra alquanto preciso e interessante. Tonight lo rileggerò con più calma. Mi sento di aggiungere: i padri fecero delle promesse ai figli – promesse che erano le stesse del potere, dell’Autorità, perché come scrivi potere e paternità si confondono, si scambiano i posti – vi fu un tempo di promesse, di una vita migliore, di libertà, di possibilità di fare una scelta della propria vita – che non furono mantenute. Da qui nacquero rabbie generazionali, rivolte e conflittualità. Nacquero, per esempio le rivolte degli anni 60. Ora, in questi tempi moderni, il tempo delle promesse è finito. Nessuno osa più promettere nulla.
Sì il pezzo è bello. L’archivio di Sud pare davvero interessante. So che qualcosa è on line, esiste un link per arrivarci?
presto metteremo tutto on line
per il momento , caro Andrea, ci sono il numero zero (pdf apertura con il maradona di Munoz) e l’ultimo (5/6). Del sette presto in libreria c’è già stata qualche anteprima su NI. E a breve anche uno dei testi più belli firmati da Saul Bellow e totalmente inedito in Europa.
effeffe
http://www.cythere-critique.com/sudnumero5.html
http://www.dantedescartes.it/
http://www.cythere-critique.com/documents/intervieweffe-mars05.htm
qui trovi un’intervista uscita qualche tempo fa sull’unità
http://www.lellovoce.it/article.php3?id_article=305
Nella sommità di tutte le discussioni, spezzerei una lancia in favore del povero padre. “Esso” (perchè) da subito è oggetto di culto, è castrato quando serve, ingannato da mogli, costretto a mangiar (per la propria salvezza) figli e poi massi, a vomitare gli stessi figli e finire come si finisce. A pagare lui il mutuo del Sisifo di turno, a comprendere le disgrazie delle figlie separate che hanno sempre ragione, a far finta di non capire ed essere denunciato da tutti i letterati di questo mondo di: inettitudine, nevrosi, violenza, occultismo e magie varie. Alla morte essere, rimpianto, diviso, spezzettato, maledetto o erroneamente osannato quando va bene.
… oltre al padre di Pietro in ‘Con gli occhi chiusi’ mi piace ricordare il padre di Arturo nell’Isola di Arturo della Morante. Un’altra figura imponente, assente, erotica, disturbante.. quel padre sì che era incredibilmente menzognero..! non l’ho mai dimenticata.
padri e figlie.
sento ancora, quando apro le pagine di quel libro, il vagito inutile della mia prima adolescenza. pagine lette e rilette a cercare una chiave, uno sfintere scivoloso da cui uscire, anche sbattuta, zozza, indispettita ma almeno affermata nel mio ruolo di figlia . e lo trovai. eccome.
non fu una sorpresa il mio padre padrone. quasi identico a quello kafkiano.
kafka scrisse la sua bibbia iperbolica come catartico e autentico atto d’amore e di “pasto cannibalico in differita”, una specia di interfaccia tra due mondi d’abisso all’apparenza così diametralmente abissali.
e quella – bibbia – aderisce così bene a me e a migliaia di quei figli di ieri, di oggi, di domani modanati secondo appartenenza paterna.
appartenenza illusoria (ma pochi ci fanno caso), e, comunque, un completo disastro di sartie ben legate e di unica proprietà a tenere regolato tutto intorno il grande albero come l’unico modo vivendi per coltivare importanti radici genealogiche: non importa se esse suicide o assassine.
quello che importava e importa è la conservazione di certi dettami che gallano a vita un embrione e da lì, fino alla fine.
ebbene si. mio padre fece e disfece. picchiò, ci vietò una buona parte di gioco, e scrisse di rado su foglietti che poi nascondeva, quanto gli potessero dispiacere
le punizioni… lui era il padre. si. senza oppositori e che pareva senza affetto da dare, nè da ricevere.
come lo scorticavo d’amore nei miei pensieri e come lo uccidevo! come lo uccidevo in tutti i modi tanti quanti avrei voluto amarlo.
penso che lo stampo ad ogni coito dello stesso uomo cambi perchè continuamente cambia la natura dell’uomo; forse se mio padre mi avesse concepita poco prima di morire io e lui avremmo potuto cercare girini insieme un po’ più a lungo. invece è durato poco, quasi niente.
un saluto
paola
(Un pezzo per niente facile, affrontar il padre -il Padre- col suo patrimonio.)
Pensione – attesa (10 scomodamenti)
La prima cosa che mio padre fa
quando si alza la mattina, è aprire
al gatto che protesta sulla porta;
la seconda è rimettere al suo posto
quel che ha lavato ieri, dopo cena;
la terza è uscire a prendere il giornale,
la quarta andare in orto e un poco in giro,
la quinta preparare pranzi esosi,
la sesta avere o dare qualche noia;
la settima cenare, anche da solo;
l’ottava fare zapping fino a tardi,
la nona bersi un altro bicchierino;
l’ultima è stendersi accanto a mia madre,
già ingolfata da tempo nei suoi sogni.
In tutto questo, io, non c’entro niente.
Il Sessantotto non fu rivolta a seguito di promesse mancate.
L’unica promessa che veniva dai padri era stata questa: “non vi illudete, vi faremo diventare come noi, con le buone o con le cattive”.
Dunque il Sessantotto casomai fu un tentativo, non so dire se riuscito o no, di evitare che quella promessa si avverasse.
Per far si che l’opposizione ai padri risultasse efficace bisognava demolire tutta la struttura sulla quale poggiavano i loro piedi, la loro autorità senza la A maiuscola
I padri erano un fottuto tutt’uno con professori e preti, e con i politici che si vedevano apparire talvolta sugli schermi concavi e primevi della tv di allora: volti e linguaggi provenienti da mondi estranei e precedenti.
Si era transitati nell’era della democrazia intrisi di culture fascistiche e queste a sua volta avevano attinto a piene mani dall’unico tipo di rapporto padri figli che fino ad allora si conoscesse: l’autoritarismo.
Si comprese che i padri, mio padre compreso (soprattutto lui), non erano un fatto privato, non erano un fenomeno col quale solo io dovevo fare i conti, ma erano un fatto politico.
I padri sono ancora un fatto politico, la paternità è politica e culturale, cambia nel tempo e può non essere marcia, come afferma Sartre, anche se quella che ho sperimentato come figlio sicuramente lo fu (lo è, perché il padre non si dimentica mai, in nessun istante della vita successiva).
Unico compito allora è rovesciare completamente et specularmente in se stessi il proprio padre, farsene il contrario esatto, applicarsi scrupolosamente a diventarne l’anti-polo, l’anti-materia, l’opposto assoluto e seppellirlo sotto una vita ferocemente contraria a quello che lui avrebbe voluto per te.
Del mio restano preziosi solo due insegnamenti: uno riguarda il nodo della cravatta, l’altro riguarda il comportamento altrui quando si guida la macchina.
Bel post e bei commenti e soprattutto belli i versi qui sopra, di ness1.
ness
sono tuoi quei versi?
mi associo a Tashtego
effeffe
Il dio meschino – a portata di tutti
Un prete, appena usciti dalla chiesa
edificata dove un tempo c’era
la casa in cui è nato San Francesco,
sale alla piazza ed a gran voce invita
la truppa dei fedeli suoi turisti
a fare “un po’ di shopping” per Assisi;
io dico, è questa l’altra – vera – vita?
E continuo a suonare per il vento.
Intanto passa un bimbo coi parenti,
si ferma affascinato dalla musica
(soltanto i piccoli ancora stupiscono?) –
gli fa suo padre: “Che c’è? La chitarra,
vuoi comprarla?” – ecco il mezzo per cui passa
tutto il nulla che resta a questo mondo.
Il mercimonio delle ‘cose’ sacre –
denaro, il dio tangibile a ogni misero.
(Assisi – suonando in piazza – 7.30 di sera del 24 giugno 2006)
Qui ci sono dei testi/commenti molto belli, cioè veri, cioè dolenti di vita e di voce. La mia storia con mio padre è stata tutta diversa: né migliore, né peggiore: diversa. Un giorno ve la racconterò, sperando di trovare qualcuno disposto a quell’attenzione partecipe e rispettosa che metto nel leggere e rileggere quello che avete scritto.
L’abisso tra due vite non parla mai a tutti. Ma quando parla a te solo, ti inghiotte per sempre, senza nessuna possibilità di riemergere alla luce di una parola che salvi.
@ Cato
da parte mia ci sarà.
un saluto
paola
cara polvere
una domanda che ti volevo fare da tempo. il tuo è un omaggio all’immenso Fante?
effeffe
@ per effe effe
… anche, si.
a quel poco di lui che lessi.
Cara polvere, come sempre con precisione, entri negli antefatti, nella storia e nelle storie. Mi stupisci e guardi come io guardo. Voglio dire e dirti solo che K. è consapevole e lascia molti segni di questa consapevolezza (In “america” ad esempio, ti ricorderai quando egli da il nome di Ramses (Esodo I,II-14) alla cittadina dove il “suo” protagonista è costretto a “servire”.). Questa consapevolezza è “ragionata”, portata, vissuta e accettata, ma mai denunciata con ragione melanconica ed appunto “Bibbia iperbolica atto d’amore”. Poi mi sono squagliato quando mi sono sentito legato a quell’albero maestro, è tutto così. Il dramma è, che quello che è facile, -consapevolezza di “prigionia”-, viene solo vista in termini di prigionieri e carcerieri. La stoltezza, e qui credo che un poco tu non sarai d’accordo, non solo è ridurre e non voler capire (nulla è divino qui) ma è rinunciare alla ragione che è a tre passi (io la chiamavo ed ella era a tre passi, io la chiamavo ed ella era a tre passi). Cara polvere da tempo, -per quel che leggo ovunque- (ci sono isole d’eccezione)ho capito l’immaturità, la voluta e dichiarata ignoranza, il voler costruire continuamente una vita infante. Pare che gli intelletuali di turno e i loro discepoli, si leghino assieme in fenomenologiche a dir poco imbarazzanti, alzino strutturalismo (come struttura) e analizzino con precisione l’incapacità loro, basterebbe saper leggere. Vanno all’università, quest’ultima indietro di settecento anni, e rispolverano e coprono di “polvere”,(eternamente, e sopratutto convinti d’essere minatori d’anime) ma questa volta non “cara” polvere, ma finta, falsa, -non luce, non capriola (all’indietro) atto d’amore- no. Discendono in un solo ragionamento, uno alla volta, uno alla volta: in uno specifico ridicolo e medievale, non illuminista ( E come parlano di illuminismo!). Si sentono così pieni di luce che non accendono neppure una candela,(son già così pieni di sapere tutto loro) per questo urtano dappertutto, fracassano, ma sono dei bambini, per questo non ci si fa caso. La mia meraviglia è che nessuno ci fa caso e quando dici loro cose “ovvie” ti guardano come un alieno. Eppure è così facile. O il silenzio, (sono imbarazzati, a volte scivolano via come cagnetti spaventati, per poi ritrovarsi un poco più in la e tutti assieme ad abbaiare alla luna, questo è il loro modo di certificare l’esistenza) oppure ringhiano, o urlano più forte che possono, -per non ascoltarti-, mica per le loro ragioni, No, si tappano le orecchie così. Poi ci sono quelli che capiscono quello che vogliono capire e si imperticano in aliane (non quelle) per tarzan palestrato. E poi ci sono anch’io naturalmente. Finisco qui, il “fare altro” mi sta chiamando da un bel pò. Mic