Patrizia 2.0
(ho postato una prima versione di questa poesia qualche giorno fa e ho ricevuto molti commenti che sono qui in calce, anche critici e molto critici – alcuni mi sono stati utili e quindi ho rimesso le mani sul testo)
di Christian Raimo
Parliamo del novantasei, ero uno studente
fuoricorso di pedagogia, e alle mattine mentre i miei
si dissolvevano nel mondo del lavoro,
mia sorella una bimba che va a scuola
(a scrivere “chiuso per furie” sulla porta della classe
e poi sbraitare in coro), – solo in casa – mi svegliava
una voce del telefono, pedagogia anche lei,
che mi pregava di sottopormi un questionario.
Voleva sapere se credevo di aver fatto la scelta più assennata
al momento di…, chiedeva: “Ah… ah… che prospettive vedi nel futuro?”
Ero un ometto che risponde dal letto,
e appena si volta dalla parte del letto
dove non esistono macchine del tempo,
può ammirare la mancanza di insetti
nella tinta vuota della stanza,
a risalire ai sogni falsi appena fatti.
Negli ultimi dieci anni è continuato in questo modo.
Gli impiegati dell’Istat, dopo aver certificato
con dati inoppugnabili e indici europei
il progressivo impoverirsi dei trentenni laureati,
hanno lanciato i dadi fino all’alba,
e speso le loro domeniche migliori
in partite di fantacalcio all’ultimo minuto.
Poi – è banale – hanno aperto una vertenza sindacale.
E qui nel Lazio, gli intervistatori di Proteus,
(un’inchiesta sui neodisoccupati,
nella zona tra Cassino e Frosinone)
si son trovati senza uno straccio di contratto
alla consegna finale del progetto.
Allora c’è chi è andato a trovare gli amici a Barcellona,
e chi, chiamata la fidanzata della vita, le ha detto:
“Mamma, ops… amore, ho appena vinto a calcetto!
Che voce hai?, io sono arcicontento”.
Così io. L’anno scorso il nuovo mensile di Repubblica
mi commissionò le didascalie per un servizio sui precari.
La moda aveva contagiato anche l’ultimo tabù.
Il capitalismo, nella sua fase anale, instaura
il meccanismo magico per cui la politica
quietamente si fa merce, la questione del conflitto
diventa un feticcetto da mostrare.
Sono andato a casa di Patrizia,
sei coinquiline hanno formato un collettivo femminista.
Incantate e di sinistra sembravano le compagne
che sognavi ai tempi del liceo:
discinte, casiniste, fanno a gara a cucinare.
Ho mangiato la pasta coi carciofi.
Poi nella sua stanza, nel suo posto letto,
nel mondo minuscolo che ho troppo guardato,
tra i libri che un giorno ci regalò l’Unità,
mi dice che di giorno attraversa la città
a accumulare ore e quarti d’ora
e diventare formatrice nonsocosa:
è più il tempo che passa su autobus e metro
che quello che lavora. Non ci crede
che sia possibile star in coppia con un uomo,
ha più fede nel sostegno femminile. A fine mese, se qualcuna
non riesce a avere soldi a sufficienza, ci si presta o ci si chiede
cento euro. Vorrebbe far dei figli, li crescerebbe in questa casa.
Fino a ieri era sfrontata, poteva fottersene degli altri,
di ogni conseguenza, oggi si sente trasformata fino nel carattere.
Ho paura, dice, una coscienza che non coincide col senso del dovere.
Parla con lessico specifico. Una psicologa formata
sui problemi del periodo evolutivo.
Tutto ciò che non dovrebbe essere suo.
Quando è uscito il pezzo su Repubblica ho pensato questo solamente:
che specchiarsi non unisce, e abbracciarsi spesso non dà niente.
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come pure per i versi (prosastici) su non mi ricordo bene se i call center o che altro, gentilmente offerti da un’estimatrice qui su NI: un po’ troppo a rimorchio dell’esistente, questi versi (prosastici) e ‘precari’. che ‘linea’ e che traiettoria e che tenuta intende conseguire il poeta? c’è un futuro, un progetto, una tradizione, una poetica che si sta maturando? per ora, nessuno scatto, nessuna tensione NEL testo (e, quindi, nel lettore) ad ‘aggredire’ la realtà. la trasfigurazione è fallita. mi pare.
informo l’autore, del resto, che il titolo richiama (o ricalca) quello di una sublime ballata di un cantante neomeolodico, ma buffone, del napoletano – tony tammaro (lì almeno si rideva). qui, forse, questa patrizia è andata a finire mestamente imbrigliata tra le ultime pagine dell’ultimo nove. la linea, dopo l’aldo dieci, è la raimo-nove?
Saper scrivere l’ansia, saperla trasmettere, è già un motivo per sorridere…. e questa prigione di carta, è veramente emozionante.
ma che mi piace come scrivi, non è una novità.
cristià, dammi retta: smetti di tradurre le poesie di buck, ti rovinano. adesso per rimediare fatti un mese di celan, solo celan (giusto un po’ di rilke -quello delle duinesi però -la sera dopo i pasti un giorno sì e uno no, per distrarti).
e poi un po’ di chick-lit (lo so, lo so: ma a mali estremi non ci sono che estremi rimedi) per alleggerirsi di tutto sto cupismo thirtysomething che alla lunga ci scaramella gli zebedei anche a noi cupissimi thirtysomething. e a te te sfianca: sù, goditela un po’!
Intemperante, vai a leccare il culo a Baricco va’, che magari ti ficca in qualche altra sua antologia di raccomandati torinesi.
krueger, oltre a dispensare consigli mirati, a te ti piace la poesia?
preferisco la nutella, grazie.
E’ un testo di prosa poco incisivo, i versi sono un’altra cosa.
veramente pessimi questo versi. Alla fine della lettura sorge spontanea la domanda: ma perché Raimo continua a “crederci” quando tutti i suoi prodotti sfiorano la mediocrità? Perché non va a fare il barista o il commesso di supermarket, o lo spazzino, o l’operaio, così la finirebbe di piagnucolare sul precariato e farebbe qualcosa di utile (per se stesso e per gli altri)?
continua a crederci perché è bravo, perché anche qui su nazione indiana ha scritto cose eccellenti.
Questa non piace neanche a me e neanche a me piacciono troppo il “piagnucolio precario” però mi sembra molto stupido e vigliacco attaccare in questo modo per un testo poco riuscito una persona che ne ha regalati (e non mi sembra poco) altri molto belli.
Non ho letto molto di Raimo e mi riprometto di farlo. Credo però che un autore serio e consapevole dovrebbe avere una necessaria auto-censura e pensarci bene prima di consegnare al pubblico ciò che scrive, una sorta di super-io che gli eviti delle cadute come questa.
Che pena, ragazzi: non uno che si degni di spiegare perché Raimo dovrebbe cambiare mestiere, o perché il testo postato non sarebbe poesia. “I versi sono un’altra cosa”: ma secondo chi? e cosa sono poi i versi? e chi ha deciso che siano quello che voi pensate?.
Perché, nutrendo dei dubbi sul testo, non provate a interrogare l’autore, piuttosto che perdervi in beceraggini spacciate per critica?
Pseudo giudizi fondati sul nulla, della stessa consistenza del vuoto pneumatico.
[troll]stroncatura = vigliaccata. ecco la Prima Regola della Prima Repubblica delle Lettere.
ma poi, scenda in campo il nostro eroe: lo si è interpellato, in modo interrogativo anche se pungente – e ci sta – di linee o tradizioni o della maturazione del suo percorso lirico-prosastico. o va bene solo quando si fa passare sotto silenzio tutto e il contrario di tutto o quando si dice bene, bravo, bis?
“ma perché Raimo continua a “crederci” quando tutti i suoi prodotti sfiorano la mediocrità? Perché non va a fare il barista o il commesso di supermarket, o lo spazzino, o l’operaio, così la finirebbe di piagnucolare sul precariato e farebbe qualcosa di utile”.
Questa non è una stroncatura, è un’offesa gratuita. Credo che tu abbia sufficiente intelligenza per comprenderlo.
“che ‘linea’ e che traiettoria e che tenuta intende conseguire il poeta? c’è un futuro, un progetto, una tradizione, una poetica che si sta maturando? per ora, nessuno scatto, nessuna tensione NEL testo (e, quindi, nel lettore) ad ‘aggredire’ la realtà. la trasfigurazione è fallita. mi pare”
e questa, di me medesimo, come definirla? bisogna per forza fare letture metriche e stilistiche approfondite, o retrocedere al canone poetico del ‘900 (moretti, ho sentito qui e là, pasolini, come dovunque), per riallacciare ‘sti fili scarni e poco risonanti a qualche discorso su linguaggi modelli fonti tradizioni? lo si potrebbe anche fare, se il poeta si mostrasse e si producesse (come pare che faccia di solito) anche nella veste di critico, intellettuale militante, lavoratore culturale, saggista brillante, oltre che narratore. insomma uno scrittore-intellettuale come quelli là, che ha delle idee sulla sua poetica, sul suo poiein (sic). aspettando raimo.
Ci mancava Roberto Cotroneo: porca vacca, la mediocrità fatta scrittore! Anzi, macché scrittore, piuttosto “scrivente”, “giornalista”… Ma mi faccia il piacere….
[troll]scrivevo sul sole 24 ore una rubrica tutta e solo di stroncature, se non ricordo male. anch’essa era operazione di marketing, come tutta la mia carriera di narratore. ottima operazione perchè, in effetti, la stroncatura è merce rara in italy. con gratitudine, rc
@intemperante non mi riferivo certo alla tua critica che tra l’altro mi sento anche di condividere. Non è che sono nuovo di Internet solo che a volte è veramente triste vedere come le persone passano solo per lasciare due insulti e via (e, ripeto tanto per essere strachiari) non mi riferisco a te.
c’è una messe di commenti per un post poco significativo. il fatto è che tutti son firmati da pseudonimi. questo è il risultato della attualissima idea di letteratura, alla quale ho deciso di consacrarmi, che qui su NI è propugnata da molti suoi capi eccelsi, come jorge garufi: lo scrittore è irrimediabilmente anonimo, apocrifo, postumo a se stesso. chi semina raccoglie…
se non piace quello che scrivo (questo in particolare) non posso replicare autolegittimandomi. non era questa soltanto una poesia sul piagnucolio precario, ma il tentativo di dar conto proprio del contrario: che il piagnucolio è inutile perché non porta ad alcuna coscienza di classe. la prosasticità dei versi, la metrica occultata mi verrebbe da dire, ha un senso proprio di una tradizione stroncata, un modo brechtiano direi di fare poesia che poteva essere quello che pasolini cercava in trasumanar e organizzare, dopo essere stato ultraitalianotradizionalista dalle ceneri di gramsci alla religione del mio tempo. è lo stesso tentativo che vedo nella ballata di rudi di pagliarani, o in molta amelia rosselli. un antilirismo programmatico proprio perché sembrerebbe falso (mercificante) lirizzare un linguaggio che non si nutre di questo ma ha a che fare con un lessico basso, ridotto, pieno di “cosa” e “fare”. penso a quando leopardi parlava di terminologia da usare in poesia o quando tentava di fare lo stesso discorso un secolo dopo pavese, oggi io se dovessi fare un discorso sulla possibilità della poesia, farei un esperimento di poesia basata sull’impoverimento lessicale e semantico e metrico, mostrerei nel tessuto del verso quest’impoverimento. questa povertà. è più che prosastico, è tendente al dislessico, al chiacchiericcio, infantilizzato nel senso etimologico del termine: “che sta perdendo la capacità di parlare”.
detto questo, può fare schifo uguale. c.
Infatti, fa schifo. Ma non risponde alla domanda: perché non va a lavorare? E dico LAVORARE, non SCRIVERE. Il lavoro duro, con le mani, con il sudore… Ci fosse una Siberia per rieducare intellettualini inutili come Raimo!
@Tarzan
e te che LAVORO fai, oltre che pencolare fra le liane, pezzo di maroso
Anche io non condivido gli attacchi violenti, non c’è bisogno di questo.
Per S. BALLO
“o perché il testo postato non sarebbe poesia. “I versi sono un’altra cosa”: ma secondo chi? e cosa sono poi i versi? e chi ha deciso che siano quello che voi pensate?.”
E tu chi sei? O cosa hai deciso di essere? E chi lo ha deciso?
Scusa, ma i tuoi interrogativi mi fanno un po’ sorridere. Secondo te poesia e prosa sono stessa cosa? (scusa la rima). Un testo è poesia se è costruito in versi, viceversa diventa prosa? Nulla di più sbagliato. Prova ad eliminare la versificazione dal testo di Raimo e dicci che succede.
Una considerazione inattuale
Generalmente le poesie postate su NI sono poco commentate. E come credo Temperanza ebbe a notare qualche tempo fa, anch’io penso che rispetto alle altre forme letterarie, la poesia meriti un’attenzione particolare.Che si dovrebbe tradurre in un non commento, positiva o negativa che sia la reazione del lettore. Non si tratta di chiudere i commenti quando si postano poesie, ci mancherebbe altro, ma la bocca soprattutto quando si è in vena di sparare cazzate. Pe quelle ci sono i post del furlen, che diamine!
effeffe
‘zzolina effeffe sei passato ubiquo da celan&problemi traduttologici alla prosa-poesia italiana ’06, questa sì, helas, attuale…
Egregio poeta, vorrei informarla che nella dislessia non vi è impoverimento lessicale, è solo che le parole non hanno significato. Detta così, è altra cosa. Si pensa per immagini, e si pensa come i non dislessici non riescono a fare. Un esempio: si pensa in tridimensionale, dove la terza dimensione (a volte) è il percorso passato-presente: si usa questo sistema per collocare con certezza un oggetto e dargli un orientamento. Si fa quasi inconsciamente e molto velocemente. Egregio poeta, sono un dislessico le assicuro che fare errori di scrittura, non è essere dislessici, questo è il risultato evidente nella scrittura. Ma non voglio farle perdere del tempo prezioso. Un ultima cosa, perdoni i miei errori, ed io perdonerò i suoi.
Specchiarsi non unirà, ma che abbracciarsi dia niente, non è vero, per me. Detto questo, mi sembra che, Christian, nel tuo commento cerchi di autolegittimarti, proprio come scrivi all’inizio di non voler fare. Pasolini, Pagliarani, Leopardi Pavese, per dire. Non dici mica niente. Se tu dovessi fare un discorso sulle possibilità della poesia, faresti un esperimento, scrivi. Per caso, è questo? Stai sperimentando, con la poesia, e questo fa parte dell’esperienza? O è un caso isolato? è la prima tua poesia che leggo, magari ‘ste domande sono stupide. A me di questa tua, non è piaciuta la punteggiatura, o meglio le pause, per come leggo io, ovvio, che ognuno legge in modo diverso. In fine, tutto qua.
Stevenson, come mai rispondi al posto della tua creatura?
“E’ un testo di prosa poco incisivo, i versi sono un’altra cosa”.
Prova a tradurre in un italiano comprensibile il senso complessivo di questa affermazione, e, soprattutto, a sedare la rissa, sul piano logico, tra le due proposizioni che la compongono. Poi ne riparliamo.
Scusa Stevenson, ma anche le tue domande fanno un po’ sorridere, a partire da quel “E tu chi sei?”, che ti rimando volentieri: visto che tu sei pieno di certezze (almeno due le hai: dici di sapere cos’è la prosa e cos’è la poesia), a te il compito di educarmi alla conoscenza. Ma prima, forse, ti conviene metterti d’accordo con Jekyl e poi, sempre forse, dare un’occhiata alla risposta di Raimo.
Ciao.
In effetti il Dr. Jekyl non si accontenta del doppio. Si fa in tre. Si chiede, si risponde, si autoelogia.
Poi, non contento, si moltiplica in una folla di alter ego che gareggiano a chi spara l’aria fritta più altisonante e sussiegosa.
Vietato chiedergli spiegazioni. Gira le frittate, capisce (o fa finta di capire) fischi per fiaschi, lancia puntutissimi punti esclamativi e Poesie di Sommi Poeti rigorosamente incentrate sulle galline (quelle delle uova per le frittate e per l’aria fritta, si suppone).
ECCO FATTO, ELIMINATI I VERSI!
Parliamo del novantasei, ero uno studente fuoricorso in pedagogia, e certe mattine mentre i miei erano dissolti nel mondo del lavoro, mia sorella a far la ragazzina che va a scuola (mettere cartelli con su scritto “chiuso per furie”sulla porta della classe e poi sbraitare in coro)– solo in casa – venivo svegliato dalla voce di una studentessa, pedagogia anche lei, borsa di studio, che mi chiedeva il tempo per sottopormi un questionario. Voleva sapere se io credevo di aver fatto la scelta più sensata al momento di iscrivermi all’università, domandava che prospettive vedevo nel futuro.
Rispondevo dal letto. E appena attaccavo, osservavo la tinta della stanza, cercavo di tornare ai sogni che avevo appena fatto.
Negli ultimi dieci anni è continuato in questo modo. Gli impiegati dell’Istat, dopo aver certificato con dati inoppugnabili e indici europei il progressivo impoverirsi dei trentenni laureati, si sono messi in vertenza sindacale. O qui nel Lazio, gli intervistatori dell’inchiesta Proteus, (un’indagine sui neodisoccupati, nella zona tra Cassino e Frosinone) si son trovati senza uno straccio di contratto alla consegna finale del progetto. Così io. L’anno scorso il nuovo mensile di Repubblica mi commissionò delle didascalie per un servizio sui precari. La moda aveva contagiato anche l’ultimo tabù. Il capitalismo, nella sua fase anale, instaura il meccanismo magico per cui la politica bellamente si fa merce, la questione del conflitto diventa un feticcetto da mostrare.
Sono andato a casa di Patrizia, sei coinquiline che han formato un collettivo femminista. Incantate e di sinistra sembravano le compagne del liceo che tu hai sempre sognato:discinte, casiniste, fanno a gara a cucinare. Ho mangiato più di due etti di pasta coi carciofi. Nella sua stanza poi mi ha detto che ogni giorno attraversa la città per accumulare qualche ora da formatrice nonsocosa:è più il tempo che passa su autobus e metro che quello che lavora. Non ci crede più che sia possibile vivere in coppia con un uomo, ha più fede nel sostegno femminile. A fine mese, se qualcuna non riesce a avere soldi a sufficienza, ci si presta o ci si chiede cento euro. Vorrebbe aver dei figli, ma li crescerebbe in questa casa. Fino a un anno fa era sfrontata, poteva fottersene degli altri e di ogni conseguenza, oggi si sente trasformata fino nel carattere. Ha paura, dice, una forma di coscienza che non è senso del dovere. Parla con lessico specifico. Una psicologa formata sui problemi del periodo evolutivo, quelloche non dovrebbe essere il suo.
Quando è uscito il pezzo su Repubblica ho pensato questo solamente:che specchiarsi non unisce, e abbracciarsi spesso non dà niente.
@Dr. Jekil
Mi sa che non hai ben chiara la forza, il potere, della disposizione delle parole nella pagina. Potresti fare lo stesso giochetto anche con le poesie di Carver, ma sarebbe ingenuo, oltre che ingeneroso. Senza voler incensare Raimo, se lui ha deciso di dare proprio quelle inarcature, proprio quegli stacchi, vuol dire che aveva qualcosa in mente, e non era un racconto. Tanto per ripetere quello che ha già detto Raimo stesso.
Non ci crede più che sia possibile vivere in coppia con un uomo.
Specchiarsi non unisce, e abbracciarsi spesso non dà niente.
trasumanar e organizzar
e il niente che c’è in mezzo
“Mi sa che non hai ben chiara la forza, il potere, della disposizione delle parole nella pagina.”
Rispondo alla provocazione dicendo che non mi sembra che le spezzature (o enjambemant) qui presenti creino particolari effetti di scarto tra ritmo e sintassi.
Per quanto riguarda Carver sono d’accordo, anche se penso che il meglio l’abbia dato come narratore:
MY DAUGHTER AND APPLE PIE
She serves me a piece of it a few minutes
out of the oven. A little steam rises
from the slits on top. Sugar and spice-
cinnamon-burned into the crust.
But she’s wearing these dark glasses
in the kitchen at ten o’clock
in the morning-everithing nice-
as she wacthes me break off
a piece, bring it to my mouth,
and blow on it. I fork the pie in
and tell myself to stay out of it.
She say she loves him. No way
could it be worse.
Linguaggio semplice, prosastico, ma nota il ritmo, le assonanze, la musicalità. Forse la traduzione italiana non gli rende merito. Qui i versi non potrebbero mai essere toccati senza danneggiare il testo. Tutto questo non c’è nel pezzo di Raimo.
@jekil
infatti quello che hai scritto adesso è un commento pensato, meditato, a differenza del giochetto leggermente pretestuoso di prima. Senza incensare Raimo, ripeto.
“…specchiarsi non unisce, e abbracciarsi spesso non dà niente.”
Questo mi sembra il punto su cui, magari, buttare lì un commento.
La solidarietà da sola non produce azione.
Ma è esattamente di azione che ha bisogno la generazione (non direi “classe”, proprio non parlerei di “classe”, anche se di sfruttamento si tratta…) dei precari.
Parlo di generazione perché in effetti è una società intera che mangia i suoi stessi figli.
Figli incapaci di reagire, perché incapaci di organizzarsi, di farsi – come si disceva in un tempo lontano – “soggetto politico”.
Forse sono finiti i tempi della politica, così come sono finiti i tempi del petrolio che si può comprare per strada, della pensione per i vecchi, dell’assistenza sanitaria gratuita per tutti, dei diritti e delle Garanzie Umane Minime, dell’organizzarsi per far fronte alle sopraffazioni, eccetera.
A mio modo di vedere, chi, in qualsiasi forma, prova a scrivere di tutto questo, prova per ciò stesso a dare un senso all’atto dello scrivere in sé.
Il resto, mi si perdoni l’abbreviazione, sono solo cazzate.
‘A mio modo di vedere, chi, in qualsiasi forma, prova a scrivere di tutto questo, prova per ciò stesso a dare un senso all’atto dello scrivere in sé.
Il resto, mi si perdoni l’abbreviazione, sono solo cazzate.’
siamo messi così male?
ultime statistiche, per dire: il rapporto tra chi scrive e chi legge poesia, oggi, in italia, è circa di 1000 a 1. questo dato involge sicuramente tutta una serie di aspetti che toccano gran parte della realtà che abbiamo sotto gli occhi (dai ‘soggetti politici’ ai soggetti che leggono, scrivono, e pubblicano). ma anzitutto coinvolge la responsabilità (o l’irresponsabilità) di chi scrive. l’immaturità (l’impazienza?) di chi scrive cose poco riuscite come questa (e, magari, di chi le pubblica). la democrazia della poesia. mah…
“Specchiarsi non unirà, ma che abbracciarsi dia niente, non è vero, per me.”
ecco perchè certi commenti sono illegibili…
La poesia deve essere prima spolpata, poi passata nella propria ragione, analizzata per vedere se risponde alle parole che avrebbe voluto sentire chi legge per essere Buona poesia? per essere vera poesia, addirittura?
ancora assurdo
b!
Nunzio Festa
Sono d’accordo con advertising!
Nunzio Festa, per favore mi traduci il tuo commento?
Trovo azzeccate le variazioni introdotte nella seconda versione.
Nunzio Festa, per favore, mi traduci il tuo commento?
Sarà un effetto placebo della mia memoria, e quindi può darsi che è cambiato poco o niente, ma io preferivo la prima versione. Questa mi sembra più un temino.
Può darsi che ho preso un abbaglio
e che dunque sono io che mi sbaglio.
(questi ultimi due sono endecasillabi. che mi sia preso la gemmagaetanite?)
cp
purtroppo non mi so tradurre
b!
Nunzio Festa
Mi chiamo Roberto Cotroneo. Non ho mai postato nulla prima di questo momento in questo blog. Vorrei tanto sapere chi è la persona disturbata che anziché avere il coraggio di firmarsi con il suo nome e cognome utilizza nomi di altri. Ma capisco di trovarmi nella solita spazzatura di internet.
La questione “carnevale delle identità” nei commenti è in fase di analisi e verranno presi provvedimenti.
Aggiornamento 2006-09-08T07:13:18+00:00
Non è cosa molto gradita qui assumere l’identità di qualcun altro. Quell’altro potrebbe non stare allo scherzo.
Ai mattacchioni sono state confiscate le vocali.
Spazzatura, certo ma non riciclabile
effeffe
Ma Cotroneo è sceso nella spazzatura linkando al suo blog?
Mah…
Mi chiamo troll e non ho mai postato nulla prima di questo momento e in questo blog e vorrei tanto sapere chi è la persona disturbata che anziché avere il coraggio di firmarsi con il suo nome e cognome utilizza nomi di altri. Ma capisco di trovarmi nella solita inerziale spazzatura e con un vento malinconico e un tramonto esistenziale e internet.
Mi chiamo Dante Alighieri e non ho mai postato nulla prima di questo momento e in questo blog e vorrei tanto sapere chi è la persona disturbata che anziché avere il coraggio di firmarsi con il suo nome e cognome utilizza nomi di altri. Ma capisco di trovarmi nella solita inerziale spazzatura e con un vento malinconico e un tramonto esistenziale e internet.
Mi chiamo Luther Blissett e non ho mai postato nulla
prima di questo momento e in questo blog
e vorrei tanto sapere chi è la persona disturbata
che anziché avere il coraggio
di firmarsi con il suo nome e cognome
utilizza nomi di altri.
Ma capisco di trovarmi nella solita inerziale
spazzatura e con un vento malinconico e un tramonto esistenziale
e internet nel mare delle falsità.
Mi chiamo Alfredo Oriani e non ho mai postato nulla prima di questo momento e in questo blog e vorrei tanto sapere chi è la persona disturbata che anziché avere il coraggio di firmarsi con il suo nome e cognome utilizza nomi di altri. Ma capisco di trovarmi nella solita inerziale spazzatura e con un vento malinconico e un tramonto esistenziale e internet.
Mi chiamo Nicolò Cusano e non ho mai postato nulla prima di questo momento e in questo blog e vorrei tanto sapere chi è la persona disturbata che anziché avere il coraggio di firmarsi con il suo nome e cognome utilizza nomi di altri. Ma capisco di trovarmi nella solita inerziale spazzatura e con un vento malinconico e un tramonto esistenziale e internet.
Cotroneo Roberto
Criptico letterario. Dicono che al liceo scientifico di Alessandria fosse un agitatore di sinistra. Dicono che l’eco suscitata dalla sua rubrica “All’indice”, pubblicata sull’Espresso, lo abbia reso interessante. Dicono che abbia stroncato qualsiasi oggetto fuoriuscente dalle case editrici, compreso un quaderno a quadretti. Dicono che, da piemontese, abbia pensato che la letteratura andasse trattata come il Barbaresco: bisogna sbariccarla; per diventare grandi scrittori, cioè, occorre prima occuparsi di musica classica (quasi come Baricco) e poi diventare imparati ad occuparsi di critica letteraria (quasi come Baricco) e questo se possibile sui giornali di Carlo De Benedetti (quasi come Baricco) e insomma alla fine sparare tre romanzi in quattro anni (quasi come Baricco) e vincere qualche premio predisposto dalla gang degli altri critici (quasi come Baricco) e vendere qualche libro all’estero (quasi come Baricco) e farsi editare anche negli Oscar Mondadori (come Baricco). Vanta tuttavia, Cotroneo, tre meriti. Primo ha detto che è assurdo che in Italia non esistano le opere complete di Francesco Petrarca o Tommaso Campanella, ma quelle di Lalla Romano sì. Secondo: dopo aver letto la quarta di copertina del “Jack Frusciante” di Enrico Brizzi (“passioni roventi si agitano nel suo cuore sbarbo”) ha preso il libro e lo ha spatasciato contro il muro. Terzo: è stato coerente, perché dopo aver stroncato qualsivoglia catafascio italico, compresa una cartina della Liguria, ha detto che si sarebbe occupato solo di letteratura straniera. E l’ha fatto. Semiolino nipote, è più bravo dello zio Eco (cfr.).
(tratto da “Dizionario degli uomini illustri e meschini”).
Amen.
Iscritti di diritto, con tessera di soci onorari, alla A.C.P.G.I., per gli amici Accippiggì. Probabile destinazione: una qualsiasi sezione del B.R.A., praticamente la patria d’origine.
Boh, io non so niente di niente e sono ness1 – ma davvero, cioè mai letto altro prima di Raimo né credo d’aver altra esperienza se non di facitore a mio modo di versi che (rarissimamente) sfiorano la poesia (che ti rimane) – però ho letto il testo qui proposto e i commenti e l’intervento dell’autore, e per curiosità ho voluto fare un piccolo esperimento metrico rifacendomi appunto a quanto dichiarato circa la metrica simulata: per es. l’inizio può esser pure messo tranquillamente in endecasillabi sciolti del tutto regolari:
Parliamo del novantasei, ero
uno studente fuoricorso di
pedagogia, e alle mattine mentre
i miei si dissolvevano nel mondo
del lavoro, mia sorella una bimba
che va a scuola (a scrivere “chiuso
per furie” sulla porta della classe
e poi sbraitare in coro), – solo in casa –
mi svegliava una voce del telefono,
pedagogia anche lei, che mi pregava
di sottopormi un questionario…
C’è un testo che Rosaria Lo Russo una volta ha liquidato come non-poesia e che per me invece ha una potenza ritmica (musica del pensiero, ma non di quello soltanto – anzi!) e una forza poetica trascinante: è dello scrittore romano Edoardo Albinati, e s’intitola “La comunione dei beni” – usa versi lunghi e irregolari a livello sillabico, fa il verso alla prosa e a volte la pare ma solo per poter sterzare e sferzare poi di colpo con una botta di poesia. Una delle sentenze anastrofiche di questo testo dice: “Non è la forza che conta, ma la durata.” (seguono vari ‘esempi’), e credo valga per chi lavora alla poesia come per chiunque altro faccia qualcosa di diverso ma ci metta la stessa necessaria libertà che determina il corso non di un solo verso ma di un’intera vita. In definitiva, non so dare un guiudizio su Raimos e questo testo non basta a farsene un’idea. Così dico: avanti, vediamo che succede.
Sì, mi sento di dire anch’io – ma chiarendo: specchiarsi non unisce, ché è nella diversità che ci si confronta e cresce; e che abbracciarsi spesso non dà niente, se tutto finisce lì e non c’è costruzione comune che da lì parta…