La cinquina del Premio Campiello 2006

niffoi-campiello.jpgdi Matteo Di Gesù 

C’è poco da fare: viene proprio da chiederselo. Banale e ovvio, inutile ed esornativo per quanto sia, il rovello s’insinua già mentre occhieggi, maneggi e annusi i libri che ti hanno spedito, e che dovrai leggere perché – che ci vuoi fare? – quelli sono, e tu, recensore, non hai che da metterti lì e masticarteli uno dopo l’altro. Ma del resto cominciare una recensione sulla cinquina finalista al premio Campiello (o meglio, sui cinque romanzi già vincitori del cosiddetto “premio selezione campiello”, tra i quali la giuria dei trecento lettori sceglierà quello a cui assegnare il cosiddetto “supercampiello”) ponendosi l’oziosa domanda: «a che servono i premi letterari?» è evidentemente inopportuno, se non rischiosamente fuorviante. L’unica è apparecchiarsi all’impronta una risposta sufficientemente valida (che non sia, dunque: “a far sì che gli editori sistemino sulla copertina la fascetta che recita:”Premio Campiello. Selezione Giuria dei Letterati”), farsela bastare e ripetersi la formula rituale: è uno sporco lavoro ma qualcuno doveva pur farlo. La risposta che si è confezionato chi scrive suona più o meno così: un premio letterario, soprattutto se più che quarantennale come questo, funziona come un regesto, un inventario, un registro sul quale vengono protocollati gli impercettibili movimenti tellurici della cultura letteraria nazionale ufficiale e istituzionale da trasmettere ai posteri. Reperti sui quali praticare un’archeologia del presente, insomma; dei quali l’ultimo che qui prenderemo in esame (trattasi di un esemplare di grande valore testimoniale, come si vedrà) addirittura sovrabbonda di indizi su come ci siamo ridotti (o su come si vorrebbe che ci riducessimo).

Si proceda, allora, con il reperto numero uno. La vedova scalza di Salvatore Niffoi attesta inconfutabilmente che i lettori italiani del 2006 (e i loro critici di riferimento) sentono ancora un potente bisogno di autoesotismo rassicurante. Così, dopo aver raschiato il barile dell’isola di carta per eccellenza, la Sicilia, costringendo Camilleri e i suoi ben più grossolani nipotini agli straordinari, per soddisfare un mercato bramoso di pagine che fanno tanto ‘sicililianità’, gli acquirenti hanno trovato da qualche tempo un nuovo filone aureo, un’altra terra vergine dalla quale saccheggiare arcaismi e tinte forti, ancestralità e passionacce truci: la Sardegna. A scongiurare i rischi del troppo dozzinale e a garantire lo standard del sublime di massa ci ha pensato come al solito la Adelphi, scovando questo narratore ‘forte’, indubbiamente talentuoso, capace di lavorare sulla lingua e di sfornare gli ultimi aggiornamenti del canonico pastiche espressionista all’italiana, nella nuovissima, imperdibile, variante sarda.

Il reperto numero due, Di viole e liquirizia di Nico Orengo, sembra confermare questa tendenza alla bramosa ricerca dell’altrove a portata di mano, dell’esotico domestico (e in questo caso basta in effetti una gitarella fuori porta a bordo del fuoristrada, per soddisfare le smanie). Qui però la partita non si gioca sulla lingua, ché quella di Orengo è sapientemente tersa e rarefatta, sobria e precisa anche nelle abbondanti parti dialogiche del racconto. Ma anche in questo romanzo, sebbene la vicenda si svolga ai giorni nostri, si propone una rivisitazione nostalgica (ma di postmoderna “nostalgia del presente” sembrerebbe trattarsi) della terra e delle tradizioni, degli odori e dei sapori, immancabilmente (manco a dirlo) minacciati dai tempi (signora mia) e da tutte le sciagure e i lutti che essi, come si sa, adducono. Siamo in Langa e si parla di vino (si parla proprio tanto, di vino: il protagonista, per capirci, è un sommelier franco-italiano): dunque non può non venire automatico, a proposito di uve e vitigni, il collegamento con i predicozzi pop del Baricco etnografo in pectore dei nuovi barbari che ingollano vinaccio californiano (sì, proprio con una di quelle paginate uscite nei mesi scorsi su “Repubblica”, quella che ha indotto i più insofferenti e snob ad abbandonare il barbaresco d’annata e a riempire la cantina di casse di birra Forst pur di sentirsi felicemente assimilabili a quanto il Baricco e i suoi lettori detestano di più). Ecco, Di viole e liquirizia, al di là dei suoi pregi stilistici, rischia di rimanere la testimonianza letteraria di come l’elite di una civiltà marginale e ormai al collasso cazzeggiasse pensosa ossigenando vino da ottanta carte a bottiglia con rapidi movimenti circolari del polso.

Il protagonista del romanzo di Claudio Piersanti, Il ritorno a casa di Enrico Metz (e veniamo dunque al reperto numero tre) da potentissimo dirigente di una delle più grandi imprese finanziarie del Paese quale è stato -al tempo della narrazione crollata fragorosamente giusto poco tempo prima- è stato di fatto un infaticabile artefice del modello di società dalla quale provengono i libri di cui stiamo parlando. Non sembra esserne del tutto consapevole (o comunque non sembra volerci ragionare sopra più di tanto: saranno cavoli dei piccoli azionisti finiti in rovina, semmai), sebbene il suo buen retiro nella dimora avita, nella cittadina della prima giovinezza, voglia essere un solenne congedo da quel mondo e da quel pezzo consistente della sua esistenza (quella pubblica di uomo di potere): giacché anche qui, come da repertorio, dopo i gattopardi arrivano gli sciacalli e le iene. Se ne ricostruisce una nuova, intima, privata (e di quella ci racconta, in una terza persona che mima con grande eleganza modelli ottocenteschi, quasi flaubertiani, il romanzo, lasciando che di quell’altra rimanga solamente un rumore lontano, ancora percepibile eppure non più distinguibile con precisione): nuova vita che sembra attestare come la condizione di postumi a se stessi (a poterselo permettere, beninteso) sia l’unica praticabile in questo mondaccio.

Prima di soffermarci su quello che è di gran lunga il più rilevante documento che questo Campiello 2006 consegna al catasto della cultura italiana del nostro tempo, tocca descrivere, per completezza informativa, anche il reperto numero quattro, Ti lascio il meglio di me di Giancarlo Marinelli. Non è facile riassumerne la trama (che si snoda intorno alla drammatica scomparsa di una bambina), perché l’intreccio del romanzo è complesso. O meglio: vorrebbe essere complesso ma è faticoso e basta; la sua prosa vorrebbe vibrare di rarefatto lirismo e invece ronza di arditezze linguistiche insistenti come mosconi molesti; il suo realismo vorrebbe proiettarsi verso magismi e onirismi nobilitanti tanto il lettore quanto (soprattutto) l’autore stesso e invece proprio questi onirismi e magismi schiantano a terra, nel loro esito improbabile, la diegesi e rendono quei quattro daterelli di realtà l’unica boa alla quale aggrapparsi per non affogare nella purea marinelliana; la quale comunque ci consegna un modello di patriarcato maschilista e priapistico, ad uso di professionisti di successo e dunque scintillantemente al passo coi tempi, che merita di essere registrato.

Tuttavia, come si diceva, il pezzo di gran lunga più importante di questo campionario campiellesco, è il reperto numero cinque. Spicca tanto, il reperto, da condizionare la lettura degli altri quattro (cosa della quale chi scrive ammette facendo ammenda), i quali, al suo confronto, sembrano quasi degli indizi preliminari, delle letture preparatorie per provare a conoscere e comprendere il contesto sociale e culturale nel quale è finalmente maturato il primo, vero romanzo nazifascista postmoderno della letteratura italiana (proprio così: potete scordarvi i deliri di Dante Virgili, ancora rubricabili sotto la voce ‘eccezione’). Un polpettone ben lavorato fatto di revisionismo d’accatto (dunque di revisionismo tout court?) e birignao anticonformisti (di quell’anticonformismo col quale consente da sempre il ventre molle della nazione, e che è la vera cifra del conformismo italiota), di ridicolo titanismo nibelungico e ammicchi arabo-siculi dislocati nello scenario storico dello sbarco (invasione, per il Nostro) alleato (nemico, sempre per il Nostro). Vista la più che benevola risposta dei lettori e vista soprattutto l’entusiastica accoglienza che la grande stampa nazionale gli ha riservato (sì, è il caso che li custodisca con cura, l’archeologo, gli sbrodolamenti di “Corriere” e “Repubblica”, i riconoscimenti dell’ ”Unità”, le finte stroncature del “Foglio”) si dovrà dire che, all’altezza del 2006 d. C., Le uova del drago di Pietrangelo Buttafuoco era il romanzo che certa cultura italiana (diciamo pure la gran parte) attendeva da sessant’anni. Da quel momento in poi, come minimo, in Italia nessuno dovette più vergognarsi in società per le vecchie foto dello zio in camicia nera. Basterà perché gli venga assegnato un meritatissimo ‘supercampiello’?

(pubblicato su Giudizio Universale, settembre 2006)

32 COMMENTS

  1. il passaggio su Buttafuoco è precisissimo.
    chi disse non l’ho letto ma non mi piace? insomma, quelle uova mi fanno così

    penso che si sia una drammatica comicità comunque, nell’obiettivo raggiunto dal Buttafuoco. il gesto – romanzo di P.B. lo voglio associare, senza forzatura alcuna, a un gesto che duranta il poetry slam romano della nottebianca tale figuro di cognome Capogna o una cosa del genere ha praticato sul palco dei finalisti. Il tale, che ha scimmiottato parole mutuate e strapazzate dall’animo italico futurista, non quello più accattivante forse, alla fine della Gara si è messo a urlare parolacce in tedesco già pronunziate da hh in tempo di nazi. una provocazione, tipo quella molto “meglio riuscita” (solo per certi versi, comunque) del Buttafuoco

    b!

    Nunzio Festa

    b!

    Nunzio Festa

  2. «Un lettore di professione è in primo luogo chi sa quali libri non leggere; è colui che sa dire, come scrisse una volta mirabilmente Scheiwiller, ‘non l’ho letto e non mi piace’. Il vero, estremo lettore di professione potrebbe essere un tale che non legge quasi nulla, al limite un semianalfabeta che compita a fatica i nomi delle strade, e solo con luce favorevole.» (G.Manganelli, Lunario dell’orfano sannita, Einaudi 1973, pag. 107)

  3. credo che non leggerò “la sporca cinquina” del campiello (comunque la pila di arretrati sparsi per casa è notevole).

  4. Dei libri rapidamente recensiti da Matteo Di Gesù (?!?) ho letto solo La vedova di Niffoi, trovo la recensione azzeccatissima, compreso l’accenno all’esotismo nostrano, dunque immagino di potermi fidare anche delle altre.

    Ho una grande ammirazione sia per Scheiwiller che per Manganelli.

  5. @Matteo Di gesù

    Chiedo scusa, un nome così straordinario mi ha fatto pensare a un mio fratello in anonimato, invece a differenza di me vive e lavora. Di nuovo complimenti.

  6. Senza nulla togliere ai meriti degli altri romanzi,’Le uova del drago’ mi piace, perchè l’hl letto.

  7. Orengo lo conosco solo come poeta. Mi sembra un ottimo autore in versi, sulla linea Sbarbaro, Mario Novaro, etc.
    Buttafuoco, bah, l’ennesimo pasolinismo di destra (io mi sono stancato anche dell’originale).
    Rileggere Sciascia, e certi trascurati in vita come Angelo Fiore o Antonio Castelli. Rileggere un grande come Stefano D’Arrigo.

  8. Della cinquina indicata da Matteo Di Gesù ho letto solo il terzo reperto, il libro di Piersanti, che mi è parso fra i più ‘interessanti’ pubblicati quest’anno per il suo tono inattuale, in equilibrio fra disincanto ironico e malinconica contemplazione della trita vanitas del mondo.Il passo lento ed aggraziato della sua prosa, più che al modello flaubertiano, m’ha fatto pensare che in quelle pagine spirasse un mood walseriano, un progressivo, compiaciuto accomiatarsi dalla vita, sapendo scovare una Grazia ( nella accezione più antimetafisica del termine) dimessa e prosaica nel blu delle ortensie coltivate con la dedizione assoluta del giardiniere ostinato, nella felicità pura dei salti di un gatto ed infine, quasi con un calco di una poesia yeatsiana, nella ‘umiltà’ delle ballerine. Un apologia dell’ama nesciri circondato da una eletta consorteria di happy few, che induce il protagonista ad allontanarsi dall’esistenza con la stessa ribalda gigioneria del sorriso del gatto del Cheshire. Degli altri finalsiti posso dire che, fisiognomicamente parlando, il pizzo e la faccia di Niffoi non teme rivali e che su Buttafuoco, se il nostro paese non fosse cambiato così profondamente dall’avvento della mediacrazia di mr. Banana, qualche anno fa non si sarebbe detto o scritto alcunchè.

  9. c’è sempre uno che disce “bah”, uno che bisgnerebbe rileggere questo e quello, uno che d’arrigo, lui sì.
    uno che bisogna riagguantare i trascurati in vita, uno che in fondo pasolini.
    uno che i libri bah, se ne deve parlare con nonscialanz.
    uno che destra e sinistra cheppalle.

  10. Non potrebbe darsi che Buttafuoco sia stato inserito proprio perché applaudito sia da destra che da sinistra per un’opera estrema – almeno ideologicamente, da quanto letto nelle recnsioni -?
    In questo caso, difficile che vinca.

  11. Kerouak. Ho cercato di rileggere Kerouak qualche anno fa. Non mi trascinerebbero a farlo neppure con quattro paia di buoi.

  12. Non per me. O meglio, non per la me di ora. Quando l’ho letto, da ragazzina, mi aveva molto coinvolta. Adesso vado a memoria, ma è una scrittura terribilmente sentimentale.

    Per chi lo amasse, e non conoscesse il libro, segnalo:

    J.Kerouac, Scrivere bop, Oscar Mondadori, 1996

    Leggendolo l’impressione è che scriva come un commentatore di blog, il che naturalmente va a suo merito:–))

  13. @tashtego
    In primis, complimenti per il tuo blog.
    Lungi da me “destra e sinistra cheppalle”: so bene il volto conservatore (conservatore di ben precisi interessi) del qualunquismo. A proposito del Butta: io sto da sempre all’eterna lotta italiana, come scriveva Gobetti, “tra serietà e dannunzianesimo”. Pasolini, come il Butta, ciascuno
    ovviamente con la sua statura, sono “dannunziani”. E alla fine stancano (un”bah” di stanchezza plebea e laica, non di noia aristocratica).
    E poi: perchè non rileggere chi ha davvero qualcosa da dirci? La vita è breve: meglio non sprecare tempo.

  14. Abbraccio Melpunk e Tash (anche se ha scritto Keruac).

    Temperanza, per scrivere “Leggendolo l’impressione è che scriva come un commentatore di blog, il che naturalmente va a suo merito” suppongo che tu non abbia letto né “I Sotterranei” né “I Vagabondi del Dharma”, un fantastico romanzo buddista-zen-alcoolico. Però, ripensandoci, poiché hai scritto anche “Non mi trascinerebbero a farlo neppure con quattro paia di buoi” direi che la tua opposizione è troppo alta, ergo è meglio che lasci stare.

    Poi non c’entra col Campiello, finisce che andiamo fuori tema.

  15. @baldrus

    ti sbagli:–)) a suo tempo l’ ho letto tutto.

    Quello a cui mi riferivo nel commento paragonandolo a noi è il libro che ho citato “Scrivere bop”.

    Cmq hai ragione, non lo rileggerò a nessun costo, la tua calzante definizione buddista-zen-alcoolico è uno dei motivi. Ogni trazione è inutile:–)

  16. Temp. acc… mi dispiace, la mia introduzione di un segno mondano come la definizione di cui sopra era nata dal desiderio, piccolo e segreto, di affascinarti un po’, di fare nascere una vocina in te, e, chissà di convincerti a (ri)leggere, in futuro, colui che ho sempre considerato come un mio amatissimo e sfortunato fratello…

  17. @baldrus

    La vita scorre, il tempo è poco:–)
    Il fatto è che tutta la beat generation mi è piuttosto estranea e lontana.

  18. A rileggere Kerouac (mancava una “o”, certo) non ci penso nemmeno, però ho ricomprato Onderod, per leggere e rileggere la chiusa.
    Mi accorgo che tutta una serie di libri che per me furono importanti, non li possiedo più, li ho persi per strada e mi tocca ricomprarli se li voglio riguardare – al che ti accorgi che sulla copertina de Il partigiano Johnny c’è la faccia dell’attore Stefano Dionisi e che Nostromo di Conrad fa da supporto a quella di Claudio Amendola.
    Cioè, la televisione vince su tutto e tutti, per chi già non lo sapesse.
    Grz a delea per l’attenzione.

  19. Le cazzate che scrivete su Buttafuoco sono davvero rappresentative della melma culturale che oggi c’è in Italia.
    Un romanzo che si vuole raccontare, criticare, strapazzare, comporta necessariamente l’esercizio della lettura. Credete di scrivere di Cultura quando vi nascondete dietro la parola Nazifascismo? Ma no, semplicemente traducete in segni i rumori della vostra pancia.

  20. @dino

    e tu non usare il plurale, anche il plurale traduce solo rumori, se ce l’hai con qualcuno dillo.

    Questi interventi generici sono la cosa che mi piace meno in questo posto, grazie a dio sono rari.

  21. Forse sono molto distratto.
    Mi sembra che su questo sito, LA POLITICA non sia abbastanza presente.

    Ma come?, abbiamo scrittori e intellettuali di vario genere, persone che insomma potrebbero (forse) dare una lettura profonda dell’attuale politica italiana. E invece?
    Berlusconi non è più il Presidente.
    I primi mesi del governo Prodi.
    Il decreto Bersani, le liberalizzazioni.
    Non potrebbero essere questi argomenti oggetto di post?
    Non è forse un’occasione sprecata non parlare di queste cose?
    (Cioè, vanno bene i post sull’idea di romanzo e via così, però però.)

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sergio garufi
sergio garufihttp://
Sono nato nel 1963 a Milano e vivo a Monza. Mi interesso principalmente di arte e letteratura. Pezzi miei sono usciti sulla rivista accademica Rassegna Iberistica, il quindicinale Stilos, il quotidiano Liberazione, il settimanale Il Domenicale e il mensile ilmaleppeggio.