Gli irriverenti
di Mia Hoffmann
Ho il vizio del cecchino. Li spio dalla mia vecchia postazione mobile pedalando a rilento, simulando dietro a un paio di lenti il mirino.
Li ricordo vent’anni fa, quando mia madre mi diceva: sono arrivati gli zingari, e io correvo in piazza frenando di colpo solo prima dell’ultimo attraversamento, per non fargli capire che ero lì apposta. Per paura di offenderli tiravo dritto piano piano, fingendo di andare da don Mario dall’altra parte della strada. Intanto facevo il pieno. Le respiravo quelle facce, gli arnesi appoggiati a terra, i colori delle donne grasse vestite a strati, i rumori sempre acuti. Lavoravano in strada, suonavano, offrendomi interi pomeriggi di sogni aperti come botteghe – impensabile adesso. Questi hanno occhi urbani che digrignano come cani furenti, che si mordono la coda rimuginando ostilità e carogna e più si azzannano e più si sfidano. Cancrena bruta di miseria viziata, dall’incuria o dalla malasorte? Come uno stralcio di neve lurida che per l’usura ha perso ogni leggerezza, ritirandosi scorticano il terreno, come locuste, sedentarie finché la fame non inveisce. Grumi d’insaziabile cordoglio gregario, inaciditi da uno stomaco astioso, erosi come rocce vulcaniche fino agli sguardi sprezzanti, fino alle carni spesse. Non so come fanno a resistere. E’ come se la terra volesse averli vivi ma non prima di averli straziati. E allora si fanno più duri della terra, coriacei al punto da risultarle incomprensibili, irreversibili come un flagello. La diffidenza è un corpo tribale, e la lotta per mantenerlo vivo è un’impudica astuzia, meschina e feroce come un’imboscata in tempo di pace.
Qui sulla Casilina, quelli del campo sfiancano il quartiere quotidianamente, stremandone i confini con un ritmo da risacca che segna il territorio con zozzi merletti di caccia. Perché in questa città, così fradicia di necessità, la miseria non commuove più. Passioni vulcaniche e scaglie d’inarresa solitudine a difendere la propia natura, figlia unica di un’altra stirpe. Perché in genere l’umano non è così: umano. Ho ascoltato una madre invocare al telefono l’identità di una figlia che non la riconosceva. Una figlia appena violentata, lamentava la voce. Per poi, appurato il fatto, deviare in modo travolgente in tutt’altro discorso. Infrangibili com’è l’istinto, si perderanno per eccessiva voracità? Due volte al giorno vagano di cassonetto in cassonetto vivisezionando gli spurghi sedentari del suburbio, donne e bambini, che con spasmi di reni si dileguano in immersioni come nuotatori acciaccati, con le gambe rantolanti di fuori e nel pattume il fiato. Cadono masticati, a volte, e digeriti per asfissia, scansati da ogni destino, a fermentare come topi tra carcasse di vita anche i sogni.
Oggi sono andata in anticipo alla fermata dell’autobus, e di fronte all’entrata del campo ho visto per la prima volta i bambini giocare. Una squadretta in costume che a piedi nudi sollevava nebbie di polvere, zigzagando una palla spelacchiata tra le buche dello sterrato, senza mancare di calciarla nel traffico per sghignazzare delle brusche frenate. Indifferenti come sirene sono uscite a crocchi le bambine, serrate matasse di gesti, parole e imbrogli diretti al discount. La più bella era ciccia, con i rotoli scolpiti, sotto la canotta rosa come una farfalla gravida. La tenerezza, tra le macerie, sa di faina.
Allontanandomi sull’autobus, ho visto un paio di guerrieri dritti, sagome del colore dei paria stagliate contro la criniera di argilla e tufo che in alto delimita il campo, sotto un cielo che là, sopra il vecchio aeroporto, sembra ancora più azzurro, quasi volesse, marcando il contrasto, custodire quel crogiolo d’eternit e parabole. Col violino di Perlman nelle orecchie ho dovuto respirare forte per non cedere al conforto, che mi montava in lacrime notando che solo quando sboccano dallo sterrato, smettono di ridere. Come fossero loro, gli irriverenti, a doversi difendere dalla nostra mediocre solitudine, dalla nostra debolezza.
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E’ un pezzo meraviglioso… mi ricorda un aneddoto che mi è capitato poco tempo fa, ero in auto e piangevo, non ricordo per quale motivo, uno qualunque, al semaforo mi si avvicina un bimbo rom per chiedere l’elemosina, abbasso la testa, mi sembrava meschino piangere davanti a un bimbo rom, ma lui se ne accorge, mi guarda con aria interrogativa, mi dice qualcosa che non capisco, parlava poco italiano e poi così all’improvviso comincia a farmi le faccine, le smorfie per farmi ridere…non riuscivo a smettere di pensarci: un bimbo rom che mi dice non piangere, un bimbo rom che m’insegna a ridere!
Mia, mi emozioni.
@Maria. Che bello il tuo commento…
Ieri ho visto 2 tipi con parrucca colorata, naso rosso, scarpe enormi e gilè da clown far numeri da circo con palline e birilli, cercando di far sorridere i tizi truci nelle auto ferme in coda al semaforo di via F.lli Bandiera a Mestre anzi Marghera (molto probabilmente son durati un’ora: poi li ha portati via l’ambulanza, con le bombole d’ossigeno attaccate ai polmoni semidistrutti).
Ah, io ai Rom gli portavo la posta, qualche estate fa che facevo il tri- anzi il bi- o addirittura il monomestrale: in un campo sperso in mezzo ai campi verdi ormai invasi e devastati dai capannoni industriali delle fabbrichette: quando arrivavo con le lettere per loro (praticamente una o anche più ogni giorno, altro che noi che non ci scriviamo ormai quasi più che cartoline dai monti o dal mare per turisti in ferie) in genere accorrevan tutti i ragazzini, mezzi scalzi e un po’ sudici di giochi e scalmanamenti naturali, intorno alla ragazzetta o al quasi-adulto in turno di guardia (io gli adulti veri, mai visti) che prendeva dalle mie mani la busta come rivesse l’ostia della comunione dal prete e la teneva per un po’ in mano così, guardandola insieme a tutti quanti gli altri (forse analfabeti o quasi) pieni di attesa e sorpresa, per poi iniziare a scartarla come un pacco regalo di Natale – io vedevo la scena di riflesso sullo specchietto del motorino, finché mi giravo e allontanavo per il sèguito del mio giro di consegne: e immaginavo il resto, con il ragazzino o la ragazza in centro tra i piccoli, a leggere le parole del padre-capotribù o della matrona del villaggio, interpretandole come fossero presenti lì a dirle.
“Cadono masticati, a volte, e digeriti per asfissia, scansati da ogni destino, a fermentare come topi tra carcasse di vita anche i sogni. ”
Grazie.
Meraviglioso.
Lampi di poesia pura a squarciare schermo e occhi.
Grazie, a tutti.
@Gilliat
L’anno scorso sono state due, qui nel quartiere, le ragazze “masticate” dai cassonetti, quelli gialli per la raccolta di indumenti con la basculante dentellata. La persona che me l’ha raccontato ha concluso soddisfatta dicendo: “Meglio. Due di meno” – in altri termini, a dire il vero. Una ventina di anni fa mia madre s’era fatta amica di una famiglia Rom. Una sera la figlia di sei/sette anni venne deliberatamente schiacciata contro un muro da un auto in corsa in un vicolo. L’amico di un mio conoscente, qui a Roma, esasperato spezzò i polsi a un bambinetto che lo stava derubando.
In pochi mesi sono stata derubata una volta, seguita dalla fermata dell’autobus fino a casa un paio, etc., etc. Avendo molti tatuaggi vengo spesso fermata dai ragazzi più giovani. Il fatto è che se rispondo con cortesia attaccano bottone diventando invadenti, se non rispondo e tiro dritto attaccano briga. La scorsa settimana hanno fatto capannello e mi hanno insultata schiamazzando finché non ho svoltato.
Ora questo mi chiedo: qual è il punto di incontro tra la nostra civile inciviltà e la loro incivile civiltà?
Mia, le stesse cose che racconti mi sono capitate con i bambini napoletani, le baby – gang napoletane sono veramente terribili, durante il mese di Febbraio è addirittura proibitivo girare in strada perché il Carnevale diventa un’occasione lecita di violenza gratuita, soprattutto sulle donne o gli anziani o persone un po’ deboli di mente, sono le vittime privilegiate…non sto parlando di uova marce e schiaffetti, ma di sprangate di ferro, di minacce con coltellini…l’unica speranza di scamparla è non mostrare mai la tua debolezza, guardarli in cagnesco con uno sguardo più truce del loro, rispondergli sempre assolutamente in napoletano, lo “straniero” anche se italiano è considerato un bersaglio vulnerabile…è come trovarsi ad attraversare un branco di cani rabbiosi, loro annusano la tua paura, la minima distrazione e si avventano come avvoltoi…Allora ti chiedo quale sarebbe la nostra civiltà che tollera queste situazioni, quando quei bambini sono l’adattamento naturale della specie alla legge della giungla, solite situazioni familiari disastrose, obbligo scolastico violato anche per le elementari, nessun valore morale, i soldi che racimolano con gli scippi finiscono nelle salette di videopoker, li ho visti coi miei occhi. Una volta sono andata in questura a denunciare un furto e mi sono trovata davanti un asilo infantile: 7, 8 e 10 anni in stato di fermo per scippo e molestie ad una donna prostituta e minorata. Quale sarebbe la nostra civiltà?
i rom (come gli altri nomadi, tuareg, nativi nordamericani, …) li uccidiamo noi (cultura occidentale) togliendoli la terra con le sue risorse naturali.
“guardarli in cagnesco con uno sguardo più truce del loro” @maria ha ragione, così ho fatto anch’io, circondata da una quindicina di loro, e per qualche secondo ho temuto che non ci sarei riuscita, ma il mio cagnesco era piuttosto impressionante, grazie a dio, e quella volta ho vinto.
ma non mi rimetterò più in una situazione simile.
Anch’io denunciavo sempre, ho cominciato quasi vent’anni fa con i carabinieri e telefono azzurro per i bambini rom sempre fatti di valium, per i piccoli mendicanti, sarò stata in questura almeno quattro volte, e ho passato ore al telefono per fare arrivare una pattuglia. Arrivano, guardano, scambiano due parole con la giovane madre o quello che è, e poi se ne vanno con un’alzata di spalle. Ce ne sono troppi, dicono, o non è affar loro, o non vedono il reato.
E’ disperante.
Ho smesso di denunciare queste cose. Ma con rabbia.
e denunciare il fatto che una popolazione nomade non abbia più la possibilità di trovare acqua non inquinata da usare? posti dove fermarsi che non siano nelle periferie ghetto delle nostre metropoli?
@ Mia
Mio padre lavora in un esercizio commerciale a non molta distanza dal campo rom, alla periferia della mia città. Quando ci lavoravo anch’io, venivano quasi ogni giorno ragazzi a comprare uno, due, tre chili di chiodi per costruire le loro case di legno. Oppure donne, con una busta colma di monete da x centesimi, che volevano cambiare in banconote. Oppure uno degli “adulti-adulti” che spendeva molto, e che rimaneva un mese in Italia e un mese in Montenegro, diceva di lavorare con un albergo di lì.
A quel tempo il Comune decise di allungare le condotte dell’acqua della zona fino al vicino campo rom, creando una di quelle fontanelle pubbliche come ce ne sono (almeno qui) quasi su ogni strada. Pochi giorni dopo, gli abitanti del quartiere raccolsero centinaia di firme per far togliere al Comune quella fontanella. Perché non pagavano l’acqua, perché rubavano, perché erano rom.
Ora mi capita qualche volta di vedere uno dei quei ragazzi che venivano a comprare buste intere di chiodi. E’ cresciuto, spalle larghe. La sera lo incontro in un gruppo di ragazzi e ragazze italiani, sorride, scherza, parla un ottimo italiano. Ha uno scooter come gli altri. Veste D&G contraffatto come gli altri. Ha una ragazza, come gli altri. Ha tutto come gli altri.
Non so se è un punto d’incontro. E’ un punto d’incontro?
@Andrea
quelle che tu dici sono denunce politiche, ma un gesto minimo, denunciare l’abuso che è “già” reato, si potrebbe fare, e se fossero parecchie, le denunce, non potrebbero essere ignorate.
E’ che sono sporadiche, gli fai perdere tempo.
Vorrei vedere se fossero ogni giorno decine, se gli si intasassero gli uffici.
la debolezza della denuncia solo politica ai miei occhi è che resta lì, affidata alla buona volontà a venire. Lo denunci alla tua parte politica di riferimento, e poi speri.
Denunciare ai carabinieri i piccoli abusi fa perdere tempo, solo per scriverla, la denuncia, puoi perdere anche quattro ore.
Ma le cose semplici, banali, pragmatiche non sono nel nostro dna di italiani.
molte famiglie rom erano specializzate in lavori artigianali che poi sono scomparsi perchè sostituiti da più economiconvenienti lavorazioni industriali: tolta la fonte di reddito, scomparse le risorse naturali …
@ temperanza: purtroppo hai ragione.
Interessante, il gioco di sguardi da voi descritto. E’ quello sguardo, randagio che digrigna, ereditato da generazioni abbruttite dall’odio circostante, che suggella la nostra incomunicabilità. Ed è vero, il ramaio è ormai un mestiere scaduto, come molti altri del resto. Ma questo è un dato irrimediabile, siamo mutanti anche se spesso per degradazione. Abbiamo ancora musicisti Rom validissimi ed ingegnosi, e famiglie che ne tramandano con orgoglio il folclore etnico, ma la conformazione gerarchica attuale è prevalentemente di stampo criminale. Ho assistito personalmente ad un estorsione in una cornetteria notturna solo un mese fa. Proprio perché snaturato, questo popolo ci è ora totalmente sconosciuto. E allora diventa difficile anche proporre delle soluzioni che non si rivelino poi inconcludenti. Perché lo scontro è incessante, il disprezzo reciproco, e l’integrazione rifiutata da entrambe le parti. Non basta prendere dei provvedimenti, è necessario trovare dei validi intercessori e, prima di tutto, riconoscere il cardine a cui entrambe le civiltà si ancorano.
Scusa, Gilliat, non ti ho preso di mira, è solo che quanto hai scritto sul ragazzo contraffatto più che un incontro mi sembra una palese dissociazione. Sai cosa mi hai ricordato? I “minstrel show”, dove i bianchi si esibivano in spettacoli grotteschi truccati da neri. Bamboozled, per intenderci, di Spike Lee.
A Cernusco sul naviglio (MI), dove son nato, anni fa il sindaco della Lega fece concimare a letame il prato dove annualmente arrivavano le roulotte dei rom. In effetti i rom non chiedevano permessi al comune per occupare quel prato, e quindi….
Lorenz
ps grazie Mia del bel racconto.
La forza evocativa delle immagini in questo brano mi ha rimandato indietro di qualche anno, quando ho visto il film Un’anima divisa in due di S.Soldini dove un tizio di Milano si innamora di una zingara che ha sorpreso a rubare e fugge con lei ad Ancona – mi è rimasto bene in mente il film anche perchè conosco bene questa città dove ho studiato – nel tentativo di rifarsi una vita. Non ci sono facili vie di uscita perché la convivenza fra le due culture è problematica. Potrebbe sembrare una storia come tante ma non è altro che una storia d’amore fra una persona occidentale qualunque e una rom che affonda le sue radici invece nella cultura zingara diversa dalla nostra. Sono inevitabili i conflitti fra differenti modi di vivere: i rom non dicono ho rubato ma ho trovato, gli occidentali qualunque invece di fronte ad una persona che si sforza per integrarsi nella loro società, non possono fare a meno di pensarla come ad una ladra nonostante si dimostri una gran lavoratrice come nel caso della protagonista. Non ci sono facili vie di uscita nella vita di tutti i giorni e non se ne inventa neanche il registra per il suo finale.
mia hofman, se sciavevo ancora il programa harem su raitre la invitavo surement!
bravo!