Gli scacchi del dottor Kuz’menko
di Franco Damico
“Il dottor Kuz’menko rovesciò i pezzi sul tavolo”.
Siamo in uno degli ultimi Racconti di Kolyma di Varlam Šalamov.
E questi sono piccoli scacchi di pasta di pane, ispirati all’Epoca dei Torbidi. La fattura finissima non tradisce che furono intagliati con mezzi di fortuna e in circostanze sciagurate dallo scultore Kulagin, prigione delle Butyrki, 1937.
“Tutti i detenuti della sua cella hanno masticato per ore e ore il pane che gli serviva. La cosa fondamentale qui era cogliere il momento esatto in cui la saliva e il pane masticato arrivavano a una specie di punto di fusione irripetibile. Solo il maestro stesso poteva decidere e aveva fortuna se riusciva a far uscire dalla bocca una pasta adatta ad assumere qualsiasi forma sotto le sue dita e poi indurire per l’eternità, come il cemento delle piramidi egizie”.
Questi scacchi hanno seguito Kulagin in tutti i suoi trasferimenti, sono sopravvissuti alle disinfestazioni, alla rapacità dei malavitosi, ai rovesci del caso.Sono sopravvissuti allo stesso Kulagin, ucciso dalla fame come tanti prima e dopo di lui. Ormai prossimo alla fine, in un accesso di demenza, tentò di divorarli. Gli furono sottratti. Riuscì solo a inghiottire una delle torri bianche e la testa mozzata della regina nera.
C’è un punto in cui il deperimento causato dall’inedia diventa irreversibile.
Avrebbe dovuto incominciare a mangiare le piccole figure di pane qualche mese prima. Lo avrebbero salvato dalla morte. Così il dottor Kuz’menko.
Ma questa ovviamente è solo la declinazione scientistica dell’apologo. Gli scacchi di Kulagin non erano e non sono uno strumento di salvezza. Non è nella loro natura.
Frutto di un inganno della fame, prodotto dell’incontro fra le secrezioni del bisogno e la materia del suo soddisfacimento, essi tracciano un limite. Sono anzi quel limite, cristallizzato in immagine ostensibile.
Un punto di fusione. Il simbolo di una coappartenenza che non può essere ridotta.
Un’altra cosa.
Sarebbe improprio definirli ancora figure di pane. Del pane hanno perduto per sempre l’innocenza e le virtù alimentari, e se una chimica meno ingenua si applicasse alla loro composizione, scoprirebbe che la fame stessa non vi ha parte inferiore né per quantità né per qualità, ma che il suo enzimatico lavorìo, se ha in un certo senso pervertito la materia, l’ha nel contempo rivelata.
Come il cemento delle piramidi egizie. La similitudine scivola sulla lingua del dottor Kuz’menko che non se ne avvede. Si tratta ancora di pane? Si tratta ancora di vita?
Ed è così di tutte le opere d’arte: esse non salvano nessuno, né il loro artefice né gli altri.
E dunque? Dunque sono lì, nel loro disagio testimoniale. Irriducibili alla trasparenza dei loro elementi costitutivi e tragicamente inassimilabili come gli scacchi di Kulagin, danno corpo alla frattura originaria con cui l’essere viene alla presenza, direbbe il filosofo.
Non siamo lontani dalla verità. Anzi, lo siamo. Appunto.
Comments are closed.
il post assona col primo verso di Psalm, postato da Helena:
Niemand knetet uns wieder aus Erde und Lehhm, letteralmente
Nessuno ci plasma più dopo avere impastato terra e argilla
Celan riprende Erde e Lehm dalla bibbia, ma invece di machen (o schaffen) mette kneten (= impastare, detto in tedesco dell’argilla o del pane). Un dio artigiano/artista insomma. Tutto il Salmo è un inno al miracolo della poesia (da poièin = fare).
Tutta la poesia è un inno al miracolo della poesia.
… e tutti i salmi finiscono in gloria.
Von ungeträumtem geätzt, wirft das schlaflos durchwanderte Brotland den Lebensberg auf. Aus seiner Krume
knetest du neu unsre Namen,
die ich, ein deinem gleichendes Aug an jedem der Finger, abtaste nach einer Stelle, durch die ich
mich zu dir heranwachen kann, die helle Hungerkerze im Mund.
Roso dal non sognato,
percorso in lungo e in largo senza sonno,
il paese del pane e-
rige il monte della vita.
Impastando la sua mollica,
tu formi nuovamente i nostri nomi
che io, un occhio
somigliante
al tuo per ciascun dito,
frugo cercando
un punto traverso cui
potermi avvicinare desto a te,
con la candela chiara della fame
in bocca.
Von ungeträumtem geätzt,
wirft das schlaflos durchwanderte Brotland
den Lebensberg auf.
Aus seiner Krume
knetest du neu unsre Namen,
die ich, ein deinem
gleichendes
Aug an jedem der Finger,
abtaste nach
einer Stelle, durch die ich
mich zu dir heranwachen kann,
die helle
Hungerkerze im Mund.
e. c.: leggi *tasto cercando* al posto di *frugo cercando*.
Come il post, questa poesia del ’64 mette in relazione arte e fame via pane/bocca. A occhio (o a naso), c’è una presenza massiccia di Kafka, che C studiava e dava da studiare a scuola. Nell’ultimo scorcio di vita, K scrisse due racconti lunghi, Der Bau e der Hungerkünstler, da noi conosciuti come La tana (ma Bau è anche costruzione) e Il digiunatore (ma in realtà artista della fame). Nella poesia, l’arte sta tutta dalla parte del tu, la fame dalla parte dell’io.
DB mi interesserebbere delle informazioni sulla poesia di Celan “Give the word”, ne sai qualcosa, anche se sono tue considerazioni personali?
Si tratta, se non erro, di BESPRECH, che M. Reitani ha volto in inglese (come già prima in italiano, cfr. post su Psalm) con
GIVE THE WORD
There comes a time
When we need a certain call
When we two must come together as one
There are people crying
Oh and it’s time to lend a hand to knife -
The greatest gift of all
We can’t go on pretending day by day
That someone, somewhere
will soon make a change
We are all part of
Godfather’s big family
And the truth you know, laugh is all we need
We give the word, we give the children
We are the ones who make a brighter day
So let’s start giving
There’s a choice we’re making
We’re saving our own lives
It’s true we’ll make a better day, just you and me.
Se uno mi chiede delle considerazioni personali, non dico mai di no, e se poi si chiama Alonso Berardinelli! Ma sono in arretrato con la talpa, e devo brevemente smaltire. Sì, c’è una talpa nel paese, che mai dorme e sempre rode, scavando buche che per la legge di Lavoisier si trasformano in montagnole: questa è la vita del paese, questo è il pane del convento. C’è in più una lei, chiamiamola Vincenza, che prende queste montagnole di mollica e ne fa parole nuove (come quando fuori piove), alla cieca, ché entrambi hanno gli occhi nelle dita, vedono cioè solo a tentoni. Lui, chiamiamolo Toni, può solo cercare di toccare i pani-nomi (paninoni), e siccome una cosa tira l’altro (non è detto espressamente quale sia l’una e quale sia l’altro), di sentire la fragranza di Vincenza. Ma com’è notte, così è fame, e quel po’ di chiaro che viene dall’istinto (o bisogno), è proprio crudelmente ciò che non permette di sfamarsi (ché, se non si parla col boccone in bocca, tantomeno si mangia con una candela tra le gengive).
uhm…
ma a.b. è il nipote ciula di di db?
No, sono il fratello di quel picio di morris aphabet.
ACHTUNG: io me non ho fratelli né sorelle • sono solo, solo sono, noso loso… MA ho infiniti sorelli e infinite fratelle: ubiqui/quo/qua. Detto questo e non detto i.e. accennato, qui, e non solo qui, ma anche quo e persino qua tira vento di cültura, di simbolismi archetipi, veri riti satanici/waltersiti reitanici, di isole che c’è (card. Wordingo, volgi il Verbo al plurale!), di lacche aureolate, di phon pentecostali, costolette tutt’osso, di gallinelle vecchie senza brodo NOOO! Torniamo tutti ai campi, ai boschi, allle paludi: le parole non sono flatus vocis, sono panie da preda! non sono hotpants di prada, né mises da finto-tirolesi! sono ceppi per taglialemma, altro che palline di natale da addobbare gli alberelli ginecologici dell’idea! su le maniche! giù le cotiche! che sarà mai qualche macchia di vin clinton se la bocca è impastata di paul celan! lavorare! masticare! sputare! governare!
scherzavo: la cosa seria è che stanotte ho visto un sito giusto di libri mai visti: non è un caso che si chiami vaca, ché la boca no xe mai straca fin che no a sa da… fuori dalla finestra la minestra riscaldata dei vocabolari! W il bocabolario! W il vacabolario!
mi ricompongo: se uno dei vacari passa per qui, mi scriva subito, che voglio/devo mandargli un libro vero, l’unico libro per cui valga la pena vivere e morire – libro di pargoli aggrappati con una manina sola ai pergoli, libro assoluto e incontaminato, vestito a nuovo e già bucato, come le foglie del porcospino o le poltiglie del biancostato! Vipera chiesa dei vip di stato! W lo scroto! Abbasso il papato!
AA.VV., “Quasi-arte: manufatti di bimbi impegnati”, Casa del sole/parco Trotter, Milano 2005.
dario.borso@unimi.it
Se se, sono quasi tutti grafici cazzuti e illustratori di libri per l’infanzia. L’unica volta che ho visto la mostra, molte cose potevano essere tranquillamente pubblicate così come erano: pagine e pagine perfette.
Non sarai mica di quelli che pensano che i libri devono essere tutti scritti? Ve’ che se la poesia è un fiore, la poesia è un’immagine, non una parola.
stammi bene
“Quasi-arte” purtroppo è un libro normale, fatto di parole+immagini: rende perciò solo una pallida idea di
libri perfetti, quelli prodotti da bambini di 4 anni, che non sanno leggere/scrivere. E così il loro sguardo, le loro mani vergini/ignoranti svelano quello che gli adulti hanno dimenticato: cos’è un libro? un manufatto. E’ così semplice, eppure…
Da qualche parte ho una cassettina in cui ho registrato Gadamer intervistato a radio3 (almeno dieci anni fa).
Aveva scritto un libro sulla poesia di Celan e diceva – cito a memoria: i bambini hanno la capacità di creare composti linguistici straordinari sui quali la maestra usa la matita rossa e blu. Stava facendo evidentemente un parallelo con la poesia di Celan.
Una volta l’ho anche visto Gadamer, a Riccione. Aveva già una paccata di anni ma era formidabile lo stesso. Ogni tanto si scusava perché le parole (parlava in italiano) non gli venivano immediatamente, diceva che aveva meno forza di prima. Era vestito con un abito scuro e la giacca aveva il collo di una camicia mi pare alla coreana.