Per una critica futura
E’ on line PER UNA CRITICA FUTURA, Quaderni di critica letteraria
a cura di Andrea Inglese.
www.cepollaro.it/poesiaitaliana/CRITICA/critica.htm
Numero 1
Andrea Inglese, Editoriale
Interventi:
Alessandro Broggi, Questionario
Gherardo Bortolotti, Su Neuropa di Gianluca Gigliozzi
Biagio Cepollaro, Note per una Critica futura
Marco Giovenale, Del sottrarre
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complimenti, iniziativa lodevole, nelle intenzioni e anche nei modi (w il download!).
(mi permetto un solo consiglio, spero gradito: serve un filo più di cura nell’impaginazione. Se volete la mano di un vecchio grafico editoriale, fate sapere)
@ Andrea Inglese:
In difesa dei lettori occasionali di poesia (non quelli distratti): interrogare con ostinazione la particolarità di un testo contiene un risvolto pericoloso: quello di distogliere l’attenzione dal perché di certe parole usate, rendendo la poesia in qualche modo estranea. Nel panorama poetico contemporaneo, la scelta di determinate parole è funzionale al fattore estetico oppure avviene il contrario? Si parla ancora di letterati (che fanno letteratura) o si deve parlare ormai di artista per tutti?
Trovare un’intimità col testo sta diventando impresa ardua dal momento che numerosi testi con altrettanti numerosi stili (alcuni dei quali sono frutto di percorsi personali che durano da anni. Altri sono sperimentalismi della prima ora spacciati per esperienza poetica, ma questi sono opinioni mie) manifestano un attaccamento e un’intimità che è già di per sé consolidata ed esclusiva fra l’autore e il suo testo.
@ Biagio Cepollaro:
Più che mostrare la necessità della riduzione stilistica, il critico dovrebbe saper condurre il lettore attraverso quel punto di vista, quella posizione e quel contributo che contribuiscono a fornire l’interpretazione dell’autore. La maggior parte dei testi (quelli meno ortodossi; o più ricchi di scelte discrete, se preferite) testimoniano secondo me la determinata “esperienza artistica di uno solo” a cui il lettore proverà a non sottrarsi una volta inquadrata tale ottica che ha smosso l’autore. Un po’ come l’amante del Rinascimento al cospetto di un’opera di Alberto Burri. La riduzione stilistica si capirà allora in un secondo momento, come facente parte dell’anima del testo.
L’esperienza della lettura, nel contesto di esposizione che qualche testo più o meno volontariamente suscita, è una pratica tesa a ridursi a momento principalmente visivo, con tutta una sequela di conseguenze da considerare. Innanzitutto non si può parlare più di tensione espressiva, importanza (o caratura) del poeta. Si può giungere tuttavia a parlare di livelli di lettura che presuppongono una passività del lettore distribuita in dosi diverse sui vari strati. Si parla di ritualità dell’immaginazione e del pensiero, ma questa necessita di un appiglio fornito dal critico, che sia poeta o universitario ha poca importanza, allo stesso modo in cui una scolaresca in visita ad una galleria d’arte necessita di una guida. Ma la poesia contemporanea ha meccanismi così slegati dal pensiero collettivo ed individuale della nuova generazione di lettori oggi che tale ritualità rappresenta il traguardo che si impone a quel lettore appena decide di muoversi attraverso i mezzi (quando sono soprattutto visivi) che il testo gli fornisce. E questo significa: costringere il “pubblico” a farsi a sua volta artista, e della fattura appena appresa. Il meccanismo poetico genera laboratori linguistici in serie auto-compiacenti che inibiscono una conoscenza poliedrica e una tavolozza di tonalità a cui d’altra parte si aspira. La strada analoga è la spersonalizzazione. Troppo facile parlare di ritualità quando nello scontro inevitabile autore-lettore la poesia giustifica tutto e niente. Ma quando tutti sono vincitori allora la critica va a farsi benedire. Serve sempre soffermarsi sulla scelta delle parole utilizzate? Serve sempre rintracciare un senso per ereditare quella particolare esperienza? La collocazione delle parole può essere più importante delle parole stesse? È lecito sacrificare al fine poetico della moltiplicazione tutto il background di fini movimenti interni, notti insonni e giornate assorte che con cui si è fatta pian piano strada la poesia?
Essere poeta, essere lettore: non c’è differenza. E dunque: quale carattere avrà mai la poesia liberamente letta e fatta tra le righe?
@ Alessandro Broggi & Wittgenstein:
Risposta alla nota 23: ogni cosa è dietro i nostri occhi.
Torno a NI per ringraziare, dopo aver letto.
Francesca
@Andrea, la foto non è male. Ma il testo è meglio.
“Un po’ come l’amante del Rinascimento al cospetto di un’opera di Alberto Burri.”
A me sembra così evidente che Burri E’ il Rinascimento. Non c’è nessuno scalino da fare per un amante del rinascimento davanti all’informale Burri. Se davvero è un amante, se invece è un conoscitore, uno distinto che si diletta e non sente, dovrà inventare qualche discorso per far tornare i conti.
Forse (e sottolineo forse) la poesia contemporanea avrebbe bisogno di una propria “caratterizzazione-identità”. Quando sento un blues di B.B. King, ad esempio, dopo tre note è riconoscibile per gusto e semplicità. Penso che anche il poeta dovrebbe essere identificato dopo qualche verso e possibilmente commuovere con la propria parola, anche se ,a mio avviso , questa non deve essere una “condicio sine qua non”. Ciascuno ha il diritto di esprimere il “proprio tempo” come meglio crede. Quando leggo molte poesie mi rendo conto, invece, di quanto un Montale o un Neruda siano saccheggiati e mixati con i propri testi. In questo caso la parola sembrerebbe funzionale puramente più a un fattore estetico e poco a quello di generare una qualsivoglia emozione… Il discorso è complesso e richiederebbe “un blog a parte”, forse. Ma la “caratterizzazione” è la strada su cui ci si dovrebbe muovere e su cui la critica dovrebbe spingere. Saluti Marco
a b gerog, grazie dei siggerimenti e della proposta, riferiro’ per ora al factotum biagio (editor, critico, stampator, poeta, animator, grafico, ecc.)
a vittorio eremi, che dice cose importanti, la risposta è questa: l’idea che ho proposto (niente di particolarmente brillante) è in realtà particolarmente difficile da realizzare: essa vuole appunto mostrare che l’intimità che esiste tra testo e autore, puo’ esserci anche tra testo e lettore. Io scrivo poesia. Ma anche la leggo. E di tanto in tanto trovo nel testo poetico cio’ che non trovo altrove, in altre form d’arte o di letteratura. Questo è cio’ che rende la poesia, popolare o non popolare che sia, indispensabile e importante. Poi è estremamente difficile mostrare come la poesia dice cose che solo essa puo’ dire.
Le questioni di Saya, un blog a parte… in effetti… ma se uno se le pone è perché sta già in ascolto della poesia contemporanea…
a) georg, sorry
b) ps per Eremi: “Ma la poesia contemporanea ha meccanismi così slegati dal pensiero collettivo ed individuale della nuova generazione di lettori oggi”; dipende cosa leggono i lettori e che cosa hanno letto; per taluni, ad esempio musicisti, artisti o prosatori, la poesia è un genere fondamentale, in quanto solo in essa ritrovano una certa distanza tra come si manifesta il linguaggio nel testo poetico e come si manifesta nelle pagine dei giornali, nelle trasmissioni televisive, nei racconti tra amici, nei dibattiti politici, ecc.
I meccanismi sono “slegati” e non lo sono; non è questione di bianco o nero, è questione di: quanto possiamo slegarci dal pensare e dal percepire comuni, senza chiuderci in uno sterile non senso? Ma io rilancerei al lettore, quanto sei disposto a slegarti dal pensare e percepire comune, per evitare di chiuderti nell’idiozia del “si dice”, “si vede”?
Ricordarsi di Altan: “Mi vengono in mente opinioni che non condivido”. Da qui in poi ci si puo’ addentrare nel dire poetico.
@andrea: a disposizione ;)
aggiungo un commento sul questionario di Broggi, che ho trovato interessante a forse sottilmente autoironico:
“Pellerin leggeva tutti i trattati di estetica per scoprire la vera teoria del Bello, convinto che, una volta che l’avesse trovata, avrebbe realizzato dei capolavori. Si circondava di tutti i sussidi immaginabili, disegni, gessi, modelli, incisioni; e cercava, si arrovellava; dava la colpa al tempo, ai suoi nervi, al chiuso del suo studio, usciva in strada per trovare l’ispirazione, trasaliva quando gli sembrava di averla afferrata, ma poi piantava lì la sua opera e ne vagheggiava un’altra più bella. Così, tormentato da bramosie di gloria, sprecando i giorni in interminabili discussioni, dando retta a mille sciocchezze, ai sistemi, ai critici, all’importanza di un regolamento o di una riforma in maniera d’arte, a cinquant’anni non aveva prodotto altro che abbozzi. Il suo solido orgoglio gli impediva di essere assalito dal minimo scoraggiamento, ma era sempre irritato e in preda a quella esaltazione al tempo stesso fittizia e naturale che è tipica degli attori”
G. Flaubert, L’educazione sentimentale
;)
(conoscendo l’ossessione di Flaubert per lo stile, non è impossibile che questo “gustoso ritratto”, lungi da essere un inno allo scrivere brutale, abbia in sé qualche tratto della stessa autoironia che m’è parso di leggere in quel testo)
Leggere Andrea Inglese quando scrive di poesia è quasi sempre un richiamo ad una solidità che non è mai da ritenersi scontata in poesia figurarsi nella vita. A me fa bene. Grazie a Inglese per farsi leggere così facilmente e spesso, e a Cepollaro (vedi il sito dell’editrice) per avere dato un accesso diretto a del materiale fondamentale per chi legge poesia non accidentalmente.
Viv
> quanto sei disposto a slegarti dal pensare e percepire comune, per evitare di chiuderti nell’idiozia del “si dice”, “si vede”?
Strano modo di invitare insultando: cos’è “psicologia inversa”?
wowoka: ? puoi spiegarti? vedi un insulto?
se lo vedi rivolto all’opinare comune, quello che circola nei media cosi’ come nelle teste, nelle nostre (non solo in quelle degli altri), l’insulto è poco: a volte la rabbia e lo schifo per la nostra capacità di assuefazione al peggio rischia di strangolarmi: e ritirarmi in un cerchio di letterati sofisticati e snob mi sembra il peggiore castigo: il problema non è insultare, il problema è come distribuire la propria rabbia perché non ci distrugga e non distrugga quelli che ci stanno vicino;
magari non ho capito nulla, ma se tu ti risenti perché non faccio i dovuti ossequi al “si dice” e al “si vede”, allora parliamo da mondi molto lontani
@andrea
Non mi risento, lo annotavo come semplice curiosità proprio perché non mi sembra corrispondere all’idea che mi sono fatto di te. Considerando che l’invito alla poesia non può che essere un appello profondamente individuale, mi sembra che quelle parole implichino (magari involontariamente) proprio quell’atteggiamento che qualche tempo fa ho condannato dialogando con Conte Ugolino (che su questo punto mi dette ragione :-) Il fatto è che il “si dice” e il “si vede” si rifà ovviamente una dinamica di gruppo, di cui “io” dovrei essere considerato – a priori – una vittima (ovvero un idiota – sebbene emancipabile). Ecco: non mi piace essere messo nel mucchio – cioè che mi si parli come ad uno che sta nel mucchio (il famigerato rapporto uno-molti!). Non so se sono stato abbastanza chiaro, ma si tratta di una sfumatura, non di una questione di vita o di morte (però ho notato con piacere che Cepollaro riesce di norma evitare questo genere di tranelli.)
Ciao
@ a.b.:
l’esempio “artistico” del Rinascimento e del Burri non voleva essere dispregiativo nei confronti di quest’ultimo. Il riferimento era ai diversi modi di concepire e produrre poesia sempre restando nell’ambito poetico e senza sottintendere particolari salti. La questione riguarda il saper cogliere ove necessario quei piccoli accorgimenti e scelte stilistiche che fanno di un laboratorio testuale un testo poetico. Poiché non posso credere che un Poeta sia soltanto un facitore di versi col privilegio della visibilità (o leggibilità)
@ andrea inglese:
i lettori su cui volevo porre l’accento io sono quelli che hanno un minimo di basi necessarie per saper leggere la poesia, e che quindi conoscono e/o sanno accettare la sfilza di stili, avanguardie, linguaggi in cui è facile incappare oggi. Per rivoltare la frase di Altan al fine di far capire meglio il senso del mio precedente intervento: Mi vengono in mente poesie che io non avrei mai scritto in quel modo. L’unica ottusità che si può attribuire a tali lettori è quella di non possedere una visione orizzontale così ampia sulla poesia contemporanea.
Domanda:
Quali sono le basi necessarie, oggi, per saper leggere la poesia? Esistono, forse, delle basi per carpire la codifica-poetica “in essere” dell’oggi? Già si fatica a operare delle sintesi certe nel breve periodo trascorso. (mi riferisco agli ultimi 15 anni). Sui lettori: il lettore-lettore si è fermato ai Sepolcri (tanto per fare un esempio), il lettore-autore leggiucchia di tutto un pò (e già qui nasce il caos), l’autore-lettore legge più se stesso che non i propri antagonisti (così li vede). E’ interessante poi il punto di vista di alcune case editrici emergenti che auspicano una tipologia di lettore che “POSSA CAPIRE”, dalla casalinga al muratore, dal farmacista alla tabaccaia, etc,etc. (solo per vendere qualche copia in più?, non credo!). Sembra quasi che si voglia far emergere la figura di un lettore-trasversale un pò tuttologo e opinionista. Sono forse queste le basi? Saluti Marco
Caro Marco Saya, le basi non sono certo queste, tuttavia non mi si venga a dire che se uno venuto dal nulla comincia a spezzettare un suo testo (che sia di denuncia, di critica sociale o di esperienza personale o vissuto quotidiano) in versi o pseudo-versi allora è sbocciato immediatamente un poeta. Oppure: se io sconosciuto sputo sul muro, divento per questo immediatamente the next big thing dell’arte concettuale? Assolutamente no. Non si vogliono far emergere tuttologi od opinionisti, ma lettori CONSAPEVOLI (e autori-lettori consapevoli del proprio ruolo e della loro unicità). Altrimenti, a che scopo la divulgazione?
Interessante il caso sviluppato da a.b. et al. Esiste uno scalino (verso l’alto o verso il basso che sia) fra i grandi maestri rinascimentali e Burri, oppure vi è una essenziale continuità? A livello mistico, di sentimento, di amore, tutto può essere unificato fino al monismo assoluto, a livello analitico tutto può venire infinitamente sezionato. Quale sarà il punto di equilibrio più desiderabile? E rispetto a quali scopi? A lume di ragione, le esperienze mistiche di ognuno vanno rispettate – se non ci provocano danno – ma non si è certo tenuti a venerarle: in generale credo che sia nostra prerogativa ignorarle, quando ci appaiano troppo evidentemente rinchiuse in se stesse, ovvero nell’esperienza di chi le prova, individuo o gruppo che sia. Ma raramente il mistico si accontenta: esige il riconoscimento, altrimenti giunge puntualissima, anche se per lo più rivolta verso innocue categorie astratte (la “gente”) una qualche forma di scomunica, una condanna all’idiozia ecc. Com’è possibile questo? Beh, è così funzionano i campi culturali, comprese le loro versioni a bassa legittimazione: qui anche l’assenza di segnali è un segnale ben preciso. Comunque, io sarei portato a vedere delle differenze essenziali nei talenti, nelle abilità, nelle coordinazioni messe rispettivamente in opera dai maestri rinascimentali e da Burri. E so che già questo, in qualche modo, mi classifica.
a wowoka, per chiarirci del tutto, il poeta, lo scrittore, il romanziere di successo, il pittore sconosciuto, l’attore, il regista, chi diavolo si vuole, per me, NON ha nessun privilegio su qualsiasi altra persona, in termini di consapevolezza critica del mondo in cui vive. Ma vi sono alcune vie dell’arte, della letteratura che portano a intensificare la consapevolezza critica. E queste vie collidono con il “si dice”: ossia con la parte inerte, ottusa, insabbiata, di ognuno di noi. Il conflitto è sempre interno all’individuo ed esterno a lui.
OK Andrea, scusami per averti spinto a puntualizzare, non dubitavo dell’explicandum, mi stupivo un poco dell’explicato. Ciao