Anteprima Sud/ Saul Bellow
Quando ho conosciuto Keith Botsford della News from the Republic of Letters di Boston, grazie al sodalizio delle nostre riviste ( con l’Atelier du Roman diretta da Lakis Proguidis) mi sono sentito per la prima volta gratificato per tutto il lavoro dedicato in questi anni alla creazione di riviste letterarie. Ho ricevuto la traduzione di questo racconto di Saul Bellow, fondatore con Keith della storico magazine qualche minuto fa e non l’ho ancora letto. Lo metto su NI e lo leggerò con voi, alzando il calice per un brindisi a coloro che credono ancora in queste cose e alla memoria del grande romanziere americano. Ringrazio Keith, romanziere da tradurre al più presto, a nome di Sud e di Nazione Indiana.
Vista dalla terapia intensiva
di
Saul Bellow
traduzione di Francesca Spinelli
Ero andato a trovare amici e parenti nei reparti di terapia intensiva di vari ospedali, e con l’innata stupidità di un uomo forte e in buona salute mi era capitato di pensare che un giorno sarei potuto essere io quello bloccato a letto e collegato alle apparecchiature di supporto vitale.
Ma i miei polmoni avevano smesso di funzionare. Non ero io quello che stava morendo. C’era una macchina che respirava al posto mio. Privo di sensi, non avevo un’idea della morte più chiara di quella che poteva averne un morto. Ma la mia testa (presumo fosse la mia testa) era piena di visioni, illusioni, allucinazioni. Non erano sogni o incubi. Gli incubi hanno un’uscita di sicurezza… Mi somministravano un farmaco chiamato Verset, che a quanto pare offusca la memoria. Ma ho sempre avuto una memoria tenace. Ricordo che mi giravano spesso, e qualcuno mi dava dei colpi sulla schiena ordinandomi di respirare.
Ma soprattutto ricordo che pensavo di andare in giro, e non era affatto piacevole. In una delle mie visioni mi trovo in una città, per strada, e sto cercando il posto dove dovrò trascorrere la notte. Alla fine lo trovo. Entro in quella che molto tempo prima, negli anni venti, doveva essere stata una sala cinematografica. Il botteghino è chiuso. Lì dietro, su un pavimento di piastrelle leggermente in salita, sono disposti dei lettini da campo pieghevoli. Non stanno proiettando nessun film. Le centinaia di poltrone sono vuote. Ma capisco che l’aria, lì dentro, è trattata in un modo speciale e fa bene ai polmoni. Se trascorri la notte lì ti dimettono prima. Mi unisco a cinque, sei persone e mi stendo a mia volta. Mia moglie dovrebbe passarmi a prendere la mattina dopo. La macchina sta in un parcheggio lì vicino. La gente non ha sonno. Né ha voglia di parlare. Gli uomini si alzano, gironzolano nell’atrio, o rimangono seduti sulla sponda del lettino. Il pavimento non è stato lavato da cinquant’anni, forse più. Si dorme tenendo indosso i vestiti, compresi il soprabito e le scarpe. Non si tolgono né cappelli né berretti.
Prima di essere dimesso dal reparto di terapia intensiva sono sceso dal letto credendo di essere nella mia casa nel Vermont, intorno alla quale stava sciando una delle mie nipotine. Ero arrabbiato con i suoi genitori perché non l’avevano portata a salutare il nonno. Era una mattina d’inverno, o almeno così mi sembrava. In realtà doveva essere notte fonda, ma era come se i riflessi del sole splendessero sulla neve. Ho scavalcato la sponda del letto senza accorgermi di essere attaccato da tubi e aghi a una serie di flebo che contenevano ogni sorta di soluzioni endovenose. Ho guardato i miei piedi scalzi sul pavimento illuminato dal sole quasi fossero stati quelli di qualcun altro. Non sembravano in grado di sostenere il mio peso, ma gli ho ordinato di farlo comunque. Poi sono caduto indietro, atterrando sulla schiena. All’inizio non ho sentito nessun dolore. Ero irritato dalla perdita delle mie facoltà. Mentre rimanevo steso, impotente, un inserviente è accorso e ha detto, “Mi avevano detto che lei è un combinaguai”.
Uno dei dottori ha detto che la mia schiena era così infiammata da sembrare una foresta in fiamme vista dal cielo. Mi hanno fatto una tac. Mi sembrava di stare su un tram affollato, con la gente che mi spingeva da dietro, soffocandomi. Li ho pregati di lasciarmi andare. Ma nessuno sembrava disposto a esaudire la mia richiesta.
All’epoca mi somministravano un diluente, e la mia caduta era stata molto pericolosa. Mi aveva provocato un’emorragia interna. Le infermiere mi hanno fatto indossare una camicia di forza. Ho chiesto ai miei figli più grandi di chiamare un taxi. Ho detto che sarei stato meglio a casa, immerso nella vasca. “Tra cinque minuti potrei stare lì,” ho detto, “è dietro l’angolo.”
Spesso avevo l’impressione di stare vicino a Kenmore Square, a Boston. La stranezza di questi scenari in un certo senso era liberatoria. A volte mi chiedo se in punto di morte in realtà non mi stessi abbandonando spensieratamente e gioiosamente a queste assurde illusioni – fantasie che non avevano bisogno di essere inventate.
Sono in una grande cantina. Un tempo le mura di mattoni erano dipinte. In alcuni punti erano ancora bianche come ricotta. Ma la ricotta si era sporcata. Sopra c’erano dei tubi al neon. Sotto questi tubi, tavoli e tavoli ricoperti di vestiti usati – soprattutto abiti femminili, dati in beneficenza; biancheria, calze, maglie, gonne. Quel posto mi ricordava il grande magazzino di Boston Filene’s Basement, dove i clienti avrebbero cominciato a spintonarsi e a litigare. In lontananza c’erano delle ragazze, probabilmente stavano facendo del volontariato. Ero seduto, senza potermi muovere, tra centinaia di poltrone di pelle. Scappare da quel sudicio angolo di ricotta era assolutamente impossibile. Dietro di me, enormi tubature spuntavano dal soffitto e sprofondavano nel pavimento.
Ero dolorosamente agitato dalla camicia di forza che mi avevano costretto a indossare. Era troppo calda, troppo stretta – mi stava uccidendo, mi avrebbe stritolato a morte. Ho provato a slegarla, inutilmente. Mi sono detto: se solo potessi chiedere a una di quelle volontarie di portarmi un coltello o un paio di cesoie! Ma erano a vari isolati di distanza e non mi avrebbero mai sentito. Ero bloccato in un angolo remoto, in mezzo a un mare di poltrone.
Un’altra esperienza memorabile:
Un inserviente dell’ospedale, arrampicato su una scala pieghevole, sta appendendo al muro addobbi natalizi e rametti di vischio e sempreverde. Non mi presta nessuna attenzione. E’ lo stesso che mi ha definito un combinaguai. Ma la cosa non mi ha impedito di osservarlo. Osservare fa parte delle mie mansioni. L’esistenza è – o era – il mio lavoro. Per cui l’ho guardato sulla sua scaletta – aveva le spalle cadenti e la schiena larga. Poi è sceso e ha spostato la scala accanto alla colonna successiva. Ancora addobbi e sempreverde pungente.
Sul lato c’era un altro tizio, basso, nervoso e irritabile, che faceva i cento passi in ciabatte. Era il mio vicino. In fondo alla mia stanza si apriva il suo alloggio, ma lui non mi ha riconosciuto. Aveva una barba fine e un naso che somigliava a una paletta. In testa portava un basco. Avrebbe dovuto essere un artista, ma i suoi lineamenti mi sembravano privi di interesse.
Dopo un po’ mi sono ricordato di averlo visto in televisione. Era un artista, molto apprezzato. Teneva lezioni e intanto disegnava. Trattava temi alla moda – ambientalismo, rimedi olistici, cure varie e così via. I suoi schizzi erano vaghi e alludevano a cose come l’amore e il rispetto per la natura. Su una lavagna aveva abbozzato prima una superficie marina, poi, usando il lato del gessetto, un viso in agguato. Si vedevano i capelli ondulati di una donna. Erano squarci, allusioni a una creatura umana o a una presenza naturale. Forse un’ondina o una fanciulla del Reno. Certo non poteva essere accusato di mistificazione. L’unica cosa che gli si poteva rinfacciare era la sua aria di supponenza e di vanità – quella che i francesi chiamano suffisance. In modo del tutto sconclusionato, e senza mai raggiungere la piena padronanza della lingua, ho studiato il francese per più di ottant’anni (mia madre era decisamente una francofila). Preferisco suffisance all’inglese smugness, proprio come suffocating mi piace più di suffoquant – Tout suffoquant et blême (Verlaine?). Se stai soffocando, perché dovresti preoccuparti di essere pallido?
Questo gran bugiardo, o falso artista, viveva lì – aveva un appartamento su uno dei lati del palazzo. Il suo alloggio erano nell’angolo, per cui non riuscivo a vederlo dal mio letto. Scorgevo solo le librerie e la moquette verde. L’inserviente degli addobbi natalizi e del sempreverde era molto deferente verso l’artista, che, dal canto suo, non mi prestava nessuna attenzione, proprio nessuna! Il che significa semplicemente che non corrispondevo a nessuno dei suoi concetti. E in quanto editore di tabloid, perché è proprio quello che sono, non posso sentirmi superiore a nessuno. Nessuno al mondo può essere ignorato più facilmente di me.
Questo artista da tv, comunque, aveva l’aria di abitare lì da molto, ma quel giorno partiva. Stavano portando via delle scatole di cartone dal suo appartamento – la sua ala. I traslocatori impilavano casse e bauli. Erano rapidissimi. I libri sparivano dalle librerie, che a loro volta venivano smontate in fretta e furia. A un certo punto è arrivato un furgone, che hanno riempito velocemente, e poi, poi, indossando una lunga tunica verde-oro, la vecchia moglie dell’artista è comparsa e l’hanno aiutata a salire nella cabina di guida del furgone. Aveva la testa coperta da un cappuccio di seta. L’artista da tv si è infilato le pantofole nelle tasche del soprabito, si è messo dei mocassini e si è arrampicato accanto alla moglie.
L’inserviente era lì per assistere alla loro partenza, e poi mi ha detto “Il prossimo è lei. Abbiamo bisogno di questo spazio. Ho l’ordine di mandarla via immediatamente”. In un batter d’occhio una squadra di traslocatori ha smontato le librerie e le ha ridotte in tanti pezzi. Tutto quello che vedevo è stato buttato giù come una scenografia teatrale. Non è rimasto nulla Poi è spuntato un camion e i miei vestiti, il mio Borsalino, il rasoio elettrico, gli articoli da toletta, i tabloid, i cd, le pasticche, etc, è stato messo tutto dentro delle buste del supermercato. Mi hanno fatto accomodare su una sedia a rotelle che poi hanno sistemato su un autoarticolato. Lì ho trovato una postazione medica, piccola ma completa. Hanno alzato lo sportello inferiore, ma i battenti superiori sono rimasti aperti e il furgone si è slanciato sottoterra, infilandosi in un tunnel. Per un po’ abbiamo continuato a correre. Poi ci siamo fermati. L’enorme motore girava al minimo. Ha continuato così per un po’.
C’era solo un’infermiera in servizio. Ha visto che ero agitato e si è offerta di radermi. Le ho confessato che mi avrebbe fatto piacere. L’infermiera mi ha insaponato la faccia e poi ha cominciato a radermi con uno Schick o un Gillette usa e getta. Poche infermiere sono capaci di radere come si deve un uomo. Se non ti bagnano e insaponano per bene la lama ti strappa i peli e la faccia ti pizzica.
Ho detto all’infermiera che mia moglie sarebbe arrivata alle quattro, e il grosso orologio rotondo indicava che le quattro erano passate da un pezzo. “Dove crede che siamo?” L’infermiera non lo sapeva. La mia impressione era che ci trovassimo sotto Kenmore Square, e che se avessero spento il motore avremmo sentito i treni della linea verde del metrò. Di colpo si sono fatte le sei, non so se del mattino o della sera. Abbiamo cominciato ad accostarci lentamente a un passaggio pedonale dove la gente – non troppa – camminava in entrambe le direzioni.
“Lei somiglia un po’ a un indiano pellerossa,” ha detto l’infermiera. “Inoltre, dato che ha perso molto peso, la sua pelle si è raggrinzita, e la barba tende a crescerle dentro le rughe. Lì è difficile da radere. Prima lei era di costituzione massiccia?”
“No, ma la mia corporatura è cambiata molte volte. In generale però sto sempre meglio seduto che in piedi,” e nonostante mi sentissi triste sono scoppiato a ridere.
L’infermiera non ha capito nulla di quello che le ho detto.
E non c’era stato nessun furgone. Avevo dovuto lasciare la mia stanza, serviva urgentemente, e per la notte mi avevano spostato in un’altra parte dell’ospedale. “Dove sei stata?” ho chiesto a mia moglie quando è arrivata. Ero arrabbiato con lei. Mi ha raccontato di essersi svegliata di colpo pensando a me, in preda all’ansia. Aveva telefonato al reparto di terapia intensiva e le era stato detto che mi avevano trasferito. Si era infilata di corsa un vestito e si era precipitata da me.
“È sera,” ho detto.
“No, è l’alba.”
“E dove mi trovo?”
L’infermiera era incredibilmente rapida e gentile. Ha tirato la tendina intorno al mio letto e ha detto a mia moglie, “Si tolga le scarpe e si stenda accanto a lui. Avete entrambi bisogno di riposare un paio d’ore.”
Un’altra visione fugace, a scopo orientativo. Questa volta c’è Vela. È stata mia moglie per dieci anni – l’ho sposata quando avevo sessantacinque anni e mi ha lasciato il giorno del mio settantacinquesimo compleanno. Probabilmente la più bella tra tutte le mie mogli, parlando in termini di fotogenia, misure e statistiche. Le sue qualità la rendevano molto sicura di sé. Era dotata di un’autostima fuori del comune, e affermava, sia ad alta voce che tra se e se, di essere un vero schianto. E aggiungeva qualcosa che potrei rendere, tradurre o spiegare nel seguente modo: “Giudicate un po’ voi che tipo di affare ho combinato sposando questo poveraccio – un misero editore di tabloid.”
E così eccoci a una mostra, e tutti sono liberi di giudicare. Con la sua mano aperta ed elegante attira l’attenzione sul mio portamento goffo e le cicatrici sopra i miei zigomi, causate molto tempo prima da un’infezione cutanea.
Ci troviamo in uno stranissimo ambiente, di fronte a un muro di pietra lucida, in una banca – una banca d’investimento. Io e Vela ci eravamo separati più volte, e anche in quell’occasione eravamo in freddo. Ma ero venuto in banca come mi aveva chiesto. Era accompagnata da un giovane dall’aria spagnoleggiante, sui trent’anni, molto elegante. C’era anche una terza persona, un banchiere in redingote che parlava francese. Davanti a noi, incastonati nello splendido muro di marmo, c’erano due monete: una da dieci centesimi americani e un dollaro d’argento di un diametro compreso tra i tre metri e i tre metri e mezzo.
Vela mi ha presentato al suo compagno spagnolo. Non è stata una vera e propria presentazione, dato che il tizio non mi ha neanche guardato. Allora Vela ha detto, come per spiegare, “Finora non avevo mai avuto esperienze sessuali particolarmente esaltanti, e mi sono detta che, nell’ambito di quella che tu chiami sempre la rivoluzione sessuale, forse era il caso di vedere di che si trattava – e scoprire una volta per tutte cosa mi è stato negato mentre stavo con te.”
“Perbacco,” ho risposto, “è come una grande conigliera, migliaia di conigli, dove ogni femmina si accoppia con ogni maschio.”
Ma questa prima parte dell’incontro è finita quasi subito. Lo scopo, evidentemente, era di farmi sprofondare nei sensi di colpa e iniettarmi un qualche solvente o ammorbidente mentale.
“Mi sai dire dove siamo?” ho chiesto. “E perché ci siamo incontrati qui, davanti a queste monete? Cosa significano?”
Poi il banchiere si è fatto avanti e ha detto che nel giro di vari anni la moneta da dieci centesimi sulla destra si sarebbe trasformata nel dollaro di tre metri di diametro.
“Quanti anni?”
”Poco più di un secolo.”
“Beh, non lo metto in dubbio – ma a chi servirebbe tutto questo?”
“A te,” ha risposto Vela.
“A me? E come?”
“Grazie alla crionica”, ha spiegato. “Uno si fa congelare. Un secolo dopo lo scongelano, e la persona torna in vita. Non ti ricordi che su Brillig’s, quel tuo giornalaccio, avevano scritto che Howard Hughes si era fatto congelare e che lo avrebbero scongelato solo dopo la scoperta di una cura contro la malattia che lo stava uccidendo? Questa è la crionica.”
“Sentiamo un po’, cosa vuoi che faccia? Non mi far perdere tempo a cercare di indovinare. Cos’hai in mente – quando vuoi farmi congelare?”
“Adesso. Io ti seguirei dopo. Ci scongelerebbero insieme nel ventiduesimo secolo.”
Il grigio bagliore e la lucidità delle lastre di marmo erano stati pensati apposta per persuadere della stabilità del dollaro il più incallito tra gli scettici. Ma era anche la facciata di un impianto di ibernazione – una cripta. Forse era tutta una follia. Non era un luogo da eterno riposo. Il mio corpo sarebbe stato messo via insieme a quello di altri investitori. Sarei rimasto steso in un laboratorio nascosto dietro la facciata di marmo. Preti-tecnici mi avrebbero sorvegliato generazione dopo generazione, regolando la temperatura, l’umidità, tenendo d’occhio le mie condizioni.
“Potresti vivere di nuovo,” ha detto Vela. “Pensa agli interessi che matureresti. Vivremmo entrambi.”
“Compagni di vecchiaia?…”
Il banchiere, che in realtà indossava un cappotto, disse in tono professionale, “A quel punto la speranza di vita sarà arrivata a duecento anni.”
“È l’unico modo per salvare il nostro matrimonio,” ha detto Vela.
Alla splendida parola “matrimonio” ho avvertito una specie di abbellimento musicale serbo (si bemolle la, si bemolle do).
“Cristo santo, Vela! Ma che modo è di affrontare la questione della morte? Rinviarla di un secolo non risolve nulla!”
A questo punto è importante ricordare che io ero già morto e risorto e nella mia mente c’era una strana distanza tra il vecchio modo di vedere le cose (falso) e quello nuovo (strano ma liberatorio).
L’inglese non era la madre lingua di Vela, e per lei era praticamente impossibile riformulare una frase: esauriva tutte le sue energie nel comporre la prima versione. L’unica cosa che poteva fare era ripetere quello che aveva detto. Ha ribadito gli stessi fatti, come li capiva lei, e la discussione non è avanzata di un passo.
Le ho detto, “Non posso farlo.”
“Perché non puoi farlo?”
“Mi stai chiedendo di suicidarmi. Il suicidio è proibito.”
“Chi ha detto che il suicidio è proibito?”
“È contro la mia religione. Gli ebrei non si uccidono, tranne quando cedono a un assedio, com’è successo a Masada, o quando stanno per essere fatti a pezzi, come durante le Crociate. In questi casi i martiri ammazzano i propri figli prima di uccidersi.”
“Tiri fuori la religione solo quando ti serve un argomento vincente,” ha detto Vela.
“Immaginiamo che tu cambi idea e sporgi denuncia contro la banca appena mi hanno congelato,” ho detto. “E provi a ottenere la proprietà della mia casa perché sono morto. Non possono dimostrare che potrei essere scongelato e tornare in vita senza scongelarmi. Ma pensi che lo farebbero solo per vincere la causa? E il tutto andrebbe spiegato a un giudice che non è in grado di trovare il proprio culo usando tutte e due le mani?”
Alla parola “denuncia” il rappresentante della banca è sbiancato, e in un certo senso l’ho compatito, pur non sentendomi granché nemmeno io. Avevo il cuore a pezzi.
“Me lo devi,” ha detto Vela.
Cosa intendeva? Per principio, però, tendo a non discutere con le persone irrazionali. Mi sono limitato a scuotere la testa e a ripetere, “Non si può fare, non si può, e non lo farò.”
“No?”
“Non ti rendi conto di quello che mi stai chiedendo.”
“No?”
“Dal modo in cui parli sembri insinuare che sono io quello che non sa quello che sta facendo. In un certo senso è vero. Non sono mai stato così fuori controllo come il giorno in cui eravamo uno accanto all’altro nella sala del giudice il giorno del nostro matrimonio. Se mia nipote avesse bisogno di dimostrare che sono non compos mentis non dovrebbe far altro che proiettare il filmino girato da Treshansky, che quel giorno si è presentato con la videocamera apposta per registrare la prova che il suo capo era fuori di testa”.
Treshansky – uno dei redattori del mio tabloid, Brillig’s – era decisamente preso da Vela. Mentre il giudice stava cercando la celebrazione del matrimonio nel suo libro, Treshansky mi aveva sussurrato all’orecchio, “Anche se dura sei mesi – anche solo uno, ne vale comunque la pena – con quel seno, quei fianchi e un viso così.”
Tornando al dialogo con Vela, in banca, a un certo punto dico, in tono serio e risoluto, “Ho accettato da tempo l’idea di morire di morte naturale, come tutti. Ho visto tantissime persone morire e mi sento pronto. Forse ho fantasticato un po’ troppo sulla tomba – l’umidità e il freddo. L’ho immaginata nei minimi particolari e ora mi appare un po’ troppo vivida. La mia sensibilità nei confronti dei morti è quasi anormale. Non hai nessuna possibilità di convincermi a mettermi nelle mani della ricerca scientifica. Sono offeso dalla tua proposta. Ma dato che sei riuscita a convincermi a sposarti, forse credi di potermi spingere anche a lasciarmi congelare per un secolo.”
“Sì, penso davvero che tu mi debba qualcosa,” ha detto Vela, dopo tutto quello che le avevo spiegato.
Uno dei nostri problemi principali, all’origine di molti fraintendimenti, era che Vela non riusciva a capire il mio spirito. I cani possono capire una battuta. I gatti non ridono mai. Quando gli altri ridevano, Vela si univa. Ma se le mancava un suggerimento (“Questo è divertente”), non sorrideva. E quando intrattenevo una tavolata, Vela sospettava di essere lei l’oggetto delle mie battute.
Probabilmente non mi rendevo conto che, mentre credevo di stare in una banca, con una monetina da dieci centesimi e un dollaro gigantesco incastonati in un muro di marmo, nella realtà mi stavano salvando la vita. I dottori con i loro farmaci, le infermiere con le loro cure, il personale tecnico con la sua abilità, mi stavano tutti assistendo. Se e quando mi fossi salvato, avrei continuato a vivere.
E se non avessi avuto a che fare con un tabloid, Vela non avrebbe mai fatto la proposta dell’ibernazione. Nel frattempo avrebbe fatto cose turpi con il suo ragazzo spagnolo (che, tra l’altro, non si è mai degnato di salutarmi) mentre io me ne stavo lì congelato – un blocco di ghiaccio in attesa di essere rianimato o resuscitato. E lei attribuiva uno spirito da tabloid a me!
E non mettevo in dubbio la realtà di quella banca, quelle monete, quelle persone – Vela, lo stallone spagnolo, il consulente bancario e le osservazioni di Vela sulla rivoluzione sessuale.
“L’incontro in banca che ricordi,” mi ha detto mia moglie, quella vera, dopo che le ho raccontato la storia. “Perché le cose che ti appaiono più reali sono sempre cose brutte? Non riuscirò mai a farti abbandonare questa tendenza masochistica.”
“È vero,” ho concordato. “Dà una certa soddisfazione, il fatto che queste cose siano così brutte garantisce la loro autenticità. È quello che ci succede, ed è così che va la vita. Il cervello è uno specchio che riflette il mondo. Naturalmente vediamo solo immagini, non le cose reali, ma queste immagini ci sono care, e finiamo per amarle pur sapendo quanto sia deformante il nostro specchio-cervello. Ma non mi sembra il momento di dedicarsi alla metafisica.”
Anch’io stavo diventando fuorviante. Su questo argomento non riuscivo ad aprirmi nemmeno con Trudi, la mia impareggiabile moglie.
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salut!
effeffe
complimenti francesco, oggi il livello di nazione indiana va alle stelle e lo dico ancor prima di aver letto il pezzo di Bellow, di cui ti ringrazio fin da ora.
geo
E’ un racconto stupendo. Mi ricorda il Bellow più grande.
Mi piacerebbe sapere quando è stato scritto.
E a me piacerebbe sapere quando esce “Sud”.
Effeffe, dopo aver letto questo racconto, rileggendo la tua mail di ieri, mi inquieto e mi domando se merito tanto.
stefano,
uscirà la settimana prossima. quella del 16.
zan grand
sud n°7 uscirà settimana prossima. Siamo andati in tipografia stamattina e darò su NI dei dettagli sul sommario e pagina di copertina la settimana seguente. Ci sono molte novità. Te ne cito alcune: l’entrata in redazione del mitico domenico Pinto e Luigi Esposito, compositore contemporaneo e autore del dossier “contemporanea” presente in questo numero. Sud uscirà nel suo formato e con la sua tiratura abituale di 1000 copie come rivista trimestrale (sul serio). Riprende le sue diciotto pagine invece delle 36 da numero doppio degli scorsi numeri. Saul Bellow insieme a Keith Botsford apparirà sul numero 8, insieme alla tua traduzione di Schulze, Alexandra Petrova, Andrea Inglese,Manila Benedetto, Ornela Vorpsi, Andrea di Consoli. Giorgio Mascitelli,e molti altri sul tema dei Residui / Resti. Una novità sarà la presenza dell’iconcina Nazioneindiana per quegli autori scoperti grazie al nostro amatissimo blog, come Francesco Pecoraro, Arminio, Dario Borso ecc. il numero otto uscirà a dicembre. Fainalmente abbiamo una distribuzione seria come nei primi tre numeri, e sarà reperibile in molte città. Comunque chiamami.
effeffe
ps
@ cato
il racconto uscì sul numero O di News from the republic of letters, rivista fondata da Saul Bellow e Keith Botsford.
Ecco: benché forse da zotico, sono contento di aver dato modo al Furlen di dare tutte queste notizie sui prossimi “Sud” e sul nuovo, promettente destino di questa rivista (anche grazie ai nuovi, stimatissimi ingressi).
Per il resto, caro Franz, ti chiamo presto. AmitieS