Rigore e libertà: brevissima introduzione al cinema di Huillet/Straub (per ricordare Danièle Huillet)
di Gianluca Gigliozzi
Il 10 ottobre scorso è morta Danièle Huillet. Insieme al marito, Jean-Marie Straub, ha creato fin dai primi anni ’60 un cinema radicale nei temi e nel linguaggio, di grande forza etica e politica ma anche di grande novità formale. Danièle e Jean-Marie hanno vissuto a Roma fin dal 1969, anno di uno dei loro film più eversivi, il geniale Othon, tratto da una tragedia di Pierre Corneille. I loro film, duri e adamantini, così estranei al cinema spettacolare dominante che inquina gli occhi e lo spirito di tutti noi, sono ancora poco conosciuti anche dal pubblico colto (o che tale si ritiene o che tale è ritenuto), e ancora oggi non è facile procurarseli, anche se, in Italia, negli ultimissimi anni e negli ultimi mesi indubbiamente se ne è parlato molto di più di quanto forse non si sia mai fatto. All’ultimo Festival del Cinema di Venezia è stato assegnato alla coppia Straub/Huillet il Leone D’oro alla carriera: un riconoscimento ufficiale un po’ tardivo, ma che i nostri hanno sicuramente apprezzato, nonostante la loro assenza (dovuta alla malattia di Danièle) e malgrado le polemiche scatenate da un’affermazione estremistica di Straub nei confronti dell’imperialismo americano.
Danièle Huillet è nata a Parigi il 1 maggio del 1936. Già da ragazza si appassiona all’arte del cinema. Non riesce a passare l’esame per entrare alla scuola di cinema dell’IDHEC perché si rifiuta di comporre l’elaborato d’esame su Manegès di Yves Allegret, un film che per lei non merita uno studio analitico. Nella seconda metà degli anni ’50 (non sappiamo esattamente quando) a Parigi conosce Jean-Marie Straub, giunto dall’Alsazia (è originario di Metz) con l’intenzione di fare un film su Bach (intenzione e progetto che, dopo dieci anni di meticolose ricerche condotte insieme, si concretizzerà, nel 1967, nella realizzazione di quello che rimane per molti il loro capolavoro assoluto, nonché uno dei film più grandi e alti della storia del cinema mondiale, Cronaca di Anna Magdalena Bach). Si sposano nel 1959, vivono a Monaco per dieci anni, e qui continuano a sognare e a progettare il film su Bach (temporaneamente accantonato per motivi finanziari), ma anche a girare i loro primi due film, nati sotto il segno della collaborazione con Heinrich Böll: Machorka Muff (1963, tratto da una novella del grande narratore di Colonia), il cortometraggio di esordio, con cui dimostrano già una maturità stilistica ragguardevole e una grande sapienza costruttiva, molto ammirata da Karl-Heinz Stockhausen; e il loro primo mediometraggio, Non riconciliati (1965, tratto da Biliardo delle nove e mezzo di Böll), un film straordinario per la tensione politico-morale perfettamente risolta in una struttura narrativa complessa e innovativa.
Da Machorka Muff fino all’ultimo loro film (Quei loro incontri, 2006, tratto da Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, come fu per il bellissimo Dalla nube alla resistenza, del 1978-79), la vita di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub è stata una vita dedicata ai loro film; è stata la lotta per realizzarli in un contesto culturale, sociale e artistico sempre più colonizzato dall’industria e governato dalla logica del profitto. Fin dalle loro prime e già straordinarie opere, questo cinema diverso, puro, assolutamente non compromesso, è stato duramente avversato, attaccato, sospinto nel limbo dell’indifferenza. L’immagine di questa rimozione è decisamente emblematica se si pensa che il loro cinema ha come finalità etica proprio quella di rigenerare la memoria, di costruire un discorso sul presente visto come il risultato complesso di un passato che non si può dimenticare e che non si può smettere di decifrare. Un cinema così concepito è per sua natura un cinema di contrapposizione, non genericamente o istericamente antagonista come tanti furbi prodotti dell’underground, ma profondamente e consapevolmente contrapposto alla nostra epoca, alle sue mitologie e alle sue mostruosità ben assimilate. Per dirla con una parola chiave di questo percorso artistico ed etico, il cinema di Huillet e Straub è un cinema di resistenza: resistenza contro la tendenza sempre più potente all’oblio (in Italia è una tendenza che ha assunto una dimensione imponente, e tragica) e alla neutralizzazione della memoria storica: una tendenza che trova il suo supporto ideologico e tecnico nell’uso spettacolare ed effettistico dei media e nell’opera infinita dei mediatori. Resistenza è, per Danièle e Jean-Marie, l’unica possibile risorsa estetica e politica contro la mercificazione dell’arte e dei sentimenti, contro la distruzione della natura e la rimozione (o deformazione mitizzante) della propria storia. Il dialogo col passato è centrale nelle loro opere: infatti non è un caso se la maggior parte dei loro film è ambientata in un passato che può essere quello dell’impero romano e della sua decadenza nel già citato Othon, o come quello recente del dopoguerra in Germania in Non riconciliati. Come Rivette e Pasolini, anche i nostri sono sempre stati ben consapevoli che un film sul passato è impossibile e assurdo se non come riflessione sul presente e, nel loro caso specifico, come riflessione e interrogazione sulle tracce, sulle persistenze del passato nel presente. La resistenza, si sarà capito a questo punto, è anche resistenza contro il cinema nella sua quasi totalità, inclusi molti prodotti che vengono etichettati come “d’autore”; è una resistenza tenace ed eroica contro il cinema spettacolare, contro la sua logica industriale e contro la dinamica che vi è immanente e che vuole lo spettatore passivo e irresponsabile: un soggetto consumatore da travolgere con un flusso incessante di immagini e suoni artificiali, di spazi contraffatti e di tempi “pompati”, di emozioni gonfiate che lo dominano e che lo spogliano della autentica capacità di giudicare.
Le matrici ideologiche del cinema di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub sono certamente i testi di Marx e Lenin, ma il loro radicalismo e l’energico spirito di contrapposizione alla società contemporanea fanno pensare alla scuola di Francoforte, in particolare io li vedo vicini al lucido pessimismo di Adorno, ma anche alla prospettiva apocalittica di un Debord, specie per il violento attacco all’integralismo dello spettacolo totale e alla sua logica onnipervasiva. Per quanto riguarda gli apporti più specificatamente estetici i riferimenti fondamentali sono rappresentati dalla poetica musicale di Johann Sebastian Bach, da quella visivo-pittorica di Paul Cézanne e da quella drammatica di Bertold Brecht. I fondamenti dell’arte bachiana che ritroviamo anche nel cinema di Danièle e Jean-Marie sono l’esigenza di una costruzione razionale ed equilibrata (che commuove, se commuove, per la perfezione dell’insieme e non per la configurazione di una singola “linea”), la libertà lasciata allo spettatore (non travolto da linee melodiche seducenti, quindi, ma lasciato libero di seguire la musica come insieme di elementi che si sviluppano), la tendenza dialettica che nei loro film non si manifesta al solo livello del rappresentato, ma coinvolge anche i materiali e i procedimenti tecnico-formali che elaborano quei materiali (una dialettica che si attiva dunque tra immagini e voce, tra corpi e spazio, tra un determinato andamento ritmico e un altro).
Un altro riferimento centrale è, come dicevamo, Brecht: altro ribelle, altro esteta radicale, le cui teorie sul “teatro epico” hanno rivoluzionato tutta l’arte teatrale del XX secolo, benché abbiano modestamente influenzato l’arte cinematografica, con l’eccezione forse di Bresson, Anghelopulos, Godard, de Oliveira e in parte Losey. La lezione brechtiana è letta da Huillet/Straub come lezione di realismo, definito così dal grande poeta e drammaturgo tedesco, spesso citato dai nostri: “Scavare la verità sotto il cumulo dell’ovvietà, congiungere con evidenza la cosa unica alla cosa particolare, fissare nel grande processo la cosa particolare, questa è l’arte dei realisti”. Lo scopo dei due cineasti sarà anche quello di re-inventare un realismo di questo tipo, arrivando ad indagare realtà contingenti e conflitti determinati per poi ricondurli o farli risaltare in rapporto a un contesto storico più ampio. Di qui la forte politicizzazione dell’opera, intesa in maniera integrale e coerente, e che cioè non informa solo l’ideologia, ma soprattutto la costruzione dell’opera stessa, la sua struttura materiale. Di qui ancora la necessità di creare un nuovo rapporto con lo spettatore, l’esigenza di creare un tipo di provocazione non solo politica ma anche estetica, che porta a un affrancamento dal suo ruolo di fruitore passivo e compiaciuto, un affrancamento che lo trasforma in una coscienza attiva e giudicante. Questa trasformazione radicale delle modalità di interazione dell’opera col fruitore è supportata da alcune tecniche mutuate dal teatro epico e opportunamente assimilate nella costruzione della messa in scena e della messa in forma cinematografica: in particolare abbiamo la costruzione del dramma, che nel suo svolgimento procede per scene “assolute”, staccate dall’insieme, in blocchi isolati e densi, essenziali, pur nella loro assolutezza, all’economia globale dell’opera; e la tecnica dello straniamento nella direzione degli attori, e la conseguente de-drammatizzazione che coinvolge i corpi e soprattutto il dialogo, o comunque l’uso della lingua, con il distacco del personaggio dal ruolo che interpreta: la recitazione nei loro film è fredda, disincarnata; i corpi tendono idealmente all’immobilità, i gesti ridotti all’essenziale; in tal modo si crea una tensione inesprimibile per cui anche il minimo movimento o la minima modificazione si configurano come eventi decisivi, altamente drammatici, carichi di senso.
Tutti i film di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub sono tratti da opere preesistenti, sia letterarie, sia musicali, e il film intrattiene con l’opera da cui è tratta un rapporto rigoroso, filologico, ben lontano dal rapporto illustrativo utilizzato nel cinema dominante (“d’autore” o “commerciale” poco importa): siamo ben oltre i metodi tradizionali dell’adattamento o della trasposizione. I due cineasti hanno sempre scelto testi ricchi e densi, ripresi interamente o soltanto in alcuni blocchi fondamentali, e riportati alla lettera nella sceneggiatura. Questi testi sono considerati, per quanto importanti generatori della costellazione di concetti, come materiali che nel film entreranno in rapporto attivo e complesso con altri materiali filmici (i luoghi, gli oggetti, il corpo e la voce degli attori, le luci, le condizioni naturali e atmosferiche): essi dunque non sovrastano gli altri elementi, ma li integrano in una costruzione equilibrata. Il loro è un cinema della materia e della materialità, e il loro uso della presa diretta, insieme al rispetto dello spazio/tempo del rappresentato, sono gli strumenti principali in cui si traduce questo aspetto centrale del loro operare. I loro film non sono mai doppiati: i due cineasti infatti vietano per contratto il doppiaggio dei loro film in quanto, come insegnava il grande Jean Renoir, il “doppiaggio è un assassinio”, ossia il doppiaggio soppianta la voce originale, e il lavoro dell’attore sul materiale “vocale”. L’uso della presa diretta, oltre ad avere il suo valore politico di resistenza all’industria cinematografica, che fa del doppiaggio una pratica generalizzata e indiscriminata per espandere il proprio mercato, è la garanzia primaria per il rispetto materiale dello spazio della rappresentazione. Doppiare sarebbe per Huillet/Straub come censurare lo spazio, occultarne le dimensioni reali tenendo conto che il mondo sonoro è più vasto di quello visivo: rinunciare alla presa diretta, in questa prospettiva, diventa rinunciare alla possibilità di decifrare il reale, di interrogarlo al suo livello più immediato, ossia come realtà sensoriale. Dunque per i due grandi cineasti il sonoro ha una centralità pari al visivo, idea totalmente opposta a quella concezione molto diffusa tra gli amanti del cinema spettacolare che si basa sull’equazione cinema = immagine. Immagine e suono invece devono essere mantenuti nella loro connessione autentica, in nome del rispetto per la realtà (a quanto pare nel lavoro sul set era proprio Danièle ad occuparsi del suono). La presa diretta per di più (con la rispettiva unità integrale suono/immagine) svolge una funzione centrale nella poetica cinematografica di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, ossia quella di un’apertura al reale, che consiste nella possibilità di includere l’aleatorietà nel “corpo” del film, di modificare la gestione del senso, amplificandone le possibilità più sottese, e insinuando nel progetto pur prestabilito del film stesso il rischio, l’ostacolo, perfino l’errore fecondo: il rispetto per il reale implica necessariamente un rispetto anche per i suoi elementi meno controllabili. Non si tratta di oziose e arbitrarie impuntature, come sostengono i loro detrattori, ma di scelte estetiche rigorose, consapevolmente fondate su precise posizioni morali. È questo il grande “spiazzamento” che subiamo, e che forse non possiamo non subire, come spettatori dei loro film, in quanto essi ogni volta neutralizzano il cinema come grande macchina affabulatrice per ricrearlo ogni volta nella forma insolita e straniata di un razionale strumento di investigazione del reale, di un possibile percorso di conoscenza: a questo cinema non è più connessa l’operazione mentale del “credere”, come alla gran parte del cinema di ieri e di oggi, ma quella del “giudicare” o anche del cercare di vedere le cose come sono. Ed è proprio questo che la nostra epoca non perdona a questi due purissimi geni dell’arte contemporanea. L’industria culturale, che per sua natura ingurgita di tutto, non può assimilare questa lezione di libertà e rigore, né può accettare questa pedagogia rivoluzionaria che fa appello alla responsabilità di ogni soggetto a liberarsi di tutti i mediatori e delle mistificazioni che questi mediatori apportano e con cui separano tutti noi non mediatori dalla possibilità di comprensione della vita e della storia, svuotando il nostro rapporto con la memoria e con la “terra”, così piena delle tracce delle lotte che furono e ogni giorno sempre più messa a repentaglio a causa della cieca violenza del Moloch capitalista.
Grazie Jean-Marie e ora, soprattutto, grazie Danièle. Grazie per la resistenza.
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“Se tu non vuoi più credere alla verità, nessuno vorrà più credere a te”: con queste parole scritte da Z. Lewental ad Auschwitz ’44 si chiude ‘I cani del Sinai’, da cui i nostri trassero un film con Fortini ‘protagonista’. A differenza di quelli tratti da Pavese e da Vittorini, questo fu un film CON Fortini, che la dice lunga sulla poetica dei 3, sulla loro comunità. Ma fu Fortini stesso a dirla lunghissima:
Attraverso lo sguardo della macchina da presa che guardava me, ho potuto comprendere meglio alcuni insegnamenti formali che avevo ricevuto, in tanti anni, da alcuni pochi e assoluti maestri. Uno è la regola del morto-vivo, dello zombie. Vitalità, passione, immediatezza: in loro assenza non si fa nulla. Ma nello stesso tempo, se non muoiono, se non sono allontanate, ammutolite, guardate come beni perduti per sempre e non a noi destinati, non possono diventare “cibo di molti”. Questo è detto, in tutte lettere, nelle mie pagine dei Cani e la mia voce è ivi stridula proprio perché nell’atto medesimo in cui parla di “realtà” è soverchiata dall’assenza; e se Straub ha capito e ha detto tutto questo, come un musicista dice la sua musica a proposito di un libretto, ciò è stato perché è lui stesso soverchiato dall’assenza, perché sa come me che possiamo sperare di disegnare il futuro solo segnando a dito, con esattezza, le fosse di quel che non c’è, le lacune del reale. Nelle istruzioni che Danièle e Jean-Marie mi proponevano, il testo mi si estraniava sotto gli occhi; la mia difesa era debolissima, lasciavo che liaisons inattese alterassero la punteggiatura e la sintassi. Capivo che l’operazione filmica, proprio modificando quanto recava la mia firma, proprio disfacendo il tessuto dei miei pensieri, li sormontava, li conservava. Oggi so che possiamo guardare a un reale senza fantasmi di consolazione. Della continuità atroce di sopraffazione e di violenza che abbiamo di fronte a noi, in Israele e qui e ovunque, possiamo parlare senza lirismo e senza autobiografia. “La tentazione del bene è irresistibile”, e quanto più un destino sembra distrutto tanto più comincia ad assomigliare a una libertà. La resistenza, in lotta col presente, esiste già, ignota anche a se stessa.
Grazie, Nazione.
Il giorno della morte della Huillet, i tg nazionali parlarono di cinema: se non vado errato, di Russell Crowe e la sua nuova casa non so dove.
E’ un esempio di come funziona la memoria culturale.
Grazie per averne parlato.
In questo testo di Gigliozzi mi sorprende – e mi convince – la prospettiva integralmente “altra”, direi di insensibilità totale nei confronti delle mode e dei dictat ultimativi del mercato cinematografico. Gigliozzi sta parlando della contraddizione poetica dei grandi Huillet/Straub, ma mi piace pensare al suo testo come una allegoria della lingua possibile, dove responsabilità etico-politica e gioia della creazione diventano un laboratorio di conoscenza e di “resistenza”. Forse l’applicazione dello straniamento in Huillet/Straub è troppo rigida, troppo fondata sulla “lettera” di Brecht, ma era normale che lo fosse, visto l’assoluta o quasi mancanza di esperienze significative nel campo. Lo stesso Brecht, in fondo, a parte alcuni esperimenti con la Weigel e con Laughton, non ha avuto modo di precisare questa innovazione stilistica come progetto aperto di nuova recitazione (può sembrare paradossale, ma la migliore applicazione dello straniamento si dà non come vuole la vulgata in Strehler, ma nel primo Carmelo Bene). Tolto ciò, la pertinenza del lavoro di Huillet/Straub è totale. Ed è totale la mia adesione al testo di Gigliozzi.
Per chi lo vuole, sul “mulo” è possibile scaricare l’opera di Straub “Fortini/Cani”, del 1976, basata sul testo “I cani del Sinai” di Franco Fortini e direi ancora tremendamente attuale.
n.g.
Difficile riuscire a leggere un testo più non-critico, nel senso di a-critico di quello qui sopra, che rientra a pieno titolo nella categoria del panegirico totale, senza che filtri un solo elemento di Vera Informazione sull’opera dei due cineasti in questione, ai quali fa proprio un pessimo servizio, direi.
Interessante l’affermazione che la “comprensione della vita e della storia” ci viene impedita a bella posta da “mediatori culturali”, ché altrimenti, cioè senza i suddetti “mediatori”, ci apparirebbe subito chiara e lucente.
Povero Straub e poveri noi.
Caro tashtego, mi piacerebbe tanto sapere cosa stai leggendo ultimamente…
Per me il testo di Gigliozzi (molto bello) è un invito, a chi non la conoscesse, ad avvicinare l’opera di questi due straordinari cineasti. Avendo amato, da sempre, il loro cinema, lo ringrazio di questo “a-critico panegirico totale”.
NEVIOUS
Per chi lo vuole, sul “mulo” è possibile scaricare l’opera di Straub “Fortini/Cani”, del 1976, basata sul testo “I cani del Sinai” di Franco Fortini e direi ancora tremendamente attuale
G
Nevious potresi per favore mettere un link?
Grazie per il ricordo (anche se l’idea di fare un “cinema radicale nei temi e nel linguaggio” credo farebbe un po’ incazzare j-m e d… il cinema per loro non è un linguaggio: ma questo ci porterebbe chissà dove nelle discussioni).
Segnalo questo sito dove si può vedere il loro ultimo breve lavoro, “Cinetract” -, pare, fischiato al festival del tappeto rosso, a roma.
http://www.pierregrise.com
@ tashtego
Il testo di Gigliozzi si intitola “brevissima introduzione …”. È poco più di una scheda informativa, e credo che come tale andrebbe presa. Se pensi ad un lettore che non conosce il cinema di Huillet/Straub, potrebbe trovarci alcuni spunti importanti, e cioè:
-la loro alterità (o “estraneità”) rispetto al cinema di consumo
-una sintetica biografia della H.
-il rapporto tra la “rimozione” del loro cinema e la necessità di recuperare la “memoria”
-il concetto di “cinema di resistenza”
-un accenno alle loro “radici ideologiche”
-il legame con le teorie del “realismo” di Brecht (che non è quello “socialista” à-là-Zdanov né quello di Luckàc)
-il rifiuto del doppiaggio.
Non mi paiono spunti di poco conto.
Se poi per “acriticità” intendi non porsi in conflitto, ma in dialogo (anche di approvazione), posso concordare. Non vedo però cosa ci sia di male. In un certo senso, Gigliozzi prende posizione, facendo trasparire una certa condivisione della loro poetica.
@ georgia
Il “mulo” è un software per scaricare dalla rete (www.emule-italia.it). Dopo averlo installato, metti il nome di Straub su “cerca” e poi scarichi quello che ti interessa …
n.g.
ops! si scrive Lukàcs e non Luckàc
sorry
[…] https://www.nazioneindiana.com/2006/11/04/rigore-e-liberta-brevissima-introduzione-al-cinema-di-huill… http://www.torinofilmfest.org/?action=detail&id=80 […]