Nuovo cinema paraculo / L’estetismo del degrado

di Christian Raimo

Nel cinema italiano, dalla fine degli anni ’90 è cominciata a riapparire la bruttezza. I corpi sfatti, le città oscene, la lingua sporca. Nei film di Alessandro Piva, Roberta Torre, Daniele Vicari, Matteo Garrone, Ciprì e Maresco… si riscoprivano luoghi e facce che sembravano essere spariti: macilenti, nani, grassi, sdentati, sessualmente deformi che vivevano tra Villaggio Coppola, Iapigia, l’hinterland milanese, le neo-baracche romane. Consapevole o istintiva, era una scelta visiva chiara e spiazzante, che si opponeva con radicalità alle due estetiche che hanno dominato il cinema italiano degli ultimi quindici anni: i begli arredi delle micro-tragedie famigliari della borghesia in crisi d’identità sociale e politica (da Moretti a Muccino, da Calopresti alla Comencini) e la deriva iper-televisiva, a tinte pastello, natalizia o balneare, dei film dei comici (a chi tra Pieraccioni, Panariello, Ceccherini, i Fichi d’India… non ne è stato concesso almeno un paio?).
Mentre i luoghi reali dell’Italia subivano un’operazione di comodo saccheggio, mentre i patrimoni artistici venivano dati in pasto alle cartolarizzazioni, e mentre la maggior parte degli italiani si confrontavano invece, tra attrazione e snobismo, con gli standard nazional-palestrati del Grande Fratello, il brutto semplicemente spariva dalla rappresentazione o veniva relegato alla sua versione più innocua e scontata: la macchietta, lo sgorbio, il secchione.
La sfida della nuova generazione di registi italiani è stata al contrario quella di dar visibilità a questa sconcezza, ostentare una “malattia” italiana, corporea, fisica ancora prima che sociale. Esporre e denunciare così una trasformazione antropologica avvenuta non a causa di una rovina civile, ma di un disfacimento innanzitutto estetico. Questa prassi artistica ha funzionato fino a ieri, finché, pare, – caduto Berlusconi, l’icona della caricatura al potere – questo sguardo da illuminazione del mostro è diventato estetismo del degrado. Dopo gli ultimi film della Torre, di Crialese, di Garrone, la conferma viene dall’ultimo di Paolo Sorrentino. L’amico di famiglia è purtroppo questo: un film di maniera sul disastro, un racconto che non è più empatico e satirico, ma sconfina con la leziosità.
Chi è il protagonista dell’Amico di famiglia? Un orrido figuro, gobbo, con un braccio rotto, che vive in una casa miseranda con una madre balena opprimente e allettata, si nutre solo di dolciumi, parla citando Selezione del Reader’s Digest, e presta denaro a strozzo a una congerie di questuanti: vecchine che si fingono malate terminali per poter ottenere ancora soldi per giocare a bingo, genitori che vorrebbero riscattare una vita di umiliazioni organizzando per la figlia un matrimonio che riceva l’elogio dei parenti, giovani coppie che si lasciano umiliare pur di preservarsi nel mito della felicità Ikea… Tutto questo a Latina, nella provincia del declino industriale, dell’assenza di possibilità di riscatto sociale, tra le costruzioni dell’architettura fascista, monumenti a un tempo che già era parodia della classicità.
Senza dircelo, Sorrentino ce lo esibisce: che cos’è questo panorama se non l’Italia? Un paese di indebitati, di analfabeti di ritorno, di gente che vive beatamente nella merda se può sfoggiare una facciata di sedicente benessere. E, come già nell’Uomo in più e nelle Conseguenze dell’amore , si dimostra un regista che sa portare alla luce il tessuto carsico delle attuali relazioni umane, il declino ridicolo e forse commovente di una civiltà già non particolarmente progressiva, tra desideri di esibizionismo e forme di sopravvivenza immoralissime. Capace, straordinariamente capace di fotografare con un’altissima definizione lo sfacelo di un comunità corrotta nelle viscere e deflagrata, che idolatra il culto del denaro senza aver sviluppato il minimo senso di coesione sociale né di dignità individuale.
Ma poi, ecco ciò che lascia delusi. Quando sceglie di sviluppare questo ritratto (tagliente, dolorosamente politico) calcando sui colori saturi, sulla distorsione dei tempi e degli spazi, sull’innaturalezza di questo scenario. E lo allontana da noi in definitiva, ne fa un racconto marziano, consolatorio in quanto eccessivo, sempre sospeso in un pulviscolo onirico, surreale. Accontentandosi di aver girato un film schiettamente d’autore, con musiche esaltanti (Teho Tehardo e Anthony and the Johnson), un montaggio da trailer, fatto di scene troppo autonome (Giogiò Franchini) e una fotografia troppo esposta (Luca Bigazzi). Quel che ne viene fuori è un prodotto grottesco, un esperimento stilistico condotto sulla realtà di serie b, un’occasione apparentemente mancata. Quella di pensare che l’emersione dell’osceno va cercata soprattutto in noi, nel tumore inconfessato di un’avidità diffusa, di un darwinismo sociale davvero bestiale. In una società (la nostra Italietta contemporanea) che si è scoperta mai così povera di speranze, e di reale credulità.

9 COMMENTS

  1. quindi se Sorrentino avesse utilizzato in questo film uno stile ‘realista’ non ci avrebbe allontanato da quella materia. Quindi se non avesse trasceso nel grottesco, nell’onirico, nell’anti-naturalistico, avremmo empaticamente compreso meglio il film e ci saremmo educati, ci saremmo immunizzati.
    E’ questo che dice Raimo?
    E’ una questione linguistica. Ma che resta sul limine di due visioni antitetiche. Zola e non Gadda. Moravia e non Celine.
    Bisogna didascalizzare tutto!
    Non è una posizione, come dire, superata da cento anni di estetica e di opere? Non dico sia il contrario, ma perché per leggere e criticare un’opera c’è bisogno di stabilire un dogma che uniformi quell’opera alla propria idea?! Ma che noia questi sacerdoti del proprio Io, che lo gonfiano e dilatano fino a farlo coincidere con una visione tout-court del mondo!

  2. Non capisco perchè sarebbe deludente…Troppo “Sospeso nel pulviscolo onirico” ? Troppo “consolatorio perchè eccessivo”? O perchè, che so io, erede di un tartufismo postdialettico?
    A me sembra non “schiettamente d’autore”, ma banalmente d’autore, troppo teso alla ricerca dell’effetto. Le musiche, più che esaltanti, sembrano messe lì apposta a surrogare la debolezza dell’immagine. Questa mostra le sue ambizioni velleitarie quando indugia sul balletto della bella-bestiale o sui rettili visti dalla madre balena, sulle facce delle prostitute nella vasca o sui poster del camper del socio aspirante traditore (fin dall’inizio: sennò che ci sta a fare?)…

  3. Per me Uno dei più bei film degli ultimi tempi, quello di Sorrentino. Che da alla fine una sensazione di puro “squasso” in contrasto con la finalissima scena dell’amico di Titta, lassù sui pali della luce vicino alle montagne: caldo e congelante insieme.

    un parere di semplice fruitrice.

    E poi vogliamo dire che a Torino è stato presentato il primo film-video game con finale a opzioni da parte dello spettatore?
    Dicono che sia il futuro del cinema…sceglierci il finale…. che orrore! neanche quel piccolo scoglio ci vogliono lascià per sognare, commentare, immaginare…..

  4. Condivido l’analisi di Raimo. Un film lezioso, che nel suo surrealismo di fondo discioglie e annacqua gli ottimi presupposti con i quali era probabilmente nato. Ho avvertito la stessa sensazione che ebbi al termine di “Primo Amore”, di Garrone, che Raimo giustamente cita (ma che fine ha fatto?), anche se non lo affiancherei così facilmente a Crialese: poco più di un’accozzaglia di frammenti autoriali giustapposti l’uno all’altro, con un significato di fondo che rimane solo accennato, svuotato.

    “L’amico di famiglia” è pieno di sequenze (la ragazza nuda nel parco – di una casa di cura?), personaggi (chi chiede un prestito per comprare il titolo nobiliare del padre), che non hanno altro effetto se non di annacquare – mi ripeto – la problematicità naturale del film. E non mi sembra che si tratti di mancanza di didascalismo (a meno che non mi si spieghi il significato recondito della sequenza, tra le tante, dei centurioni fuori al Colosseo).

  5. Condivido in parte quello che scrive Raimo.
    Mi chiede però se non avverta un carattere abbastanza interessante dell’ “orrido figuro”, ovvero quello di disvelare gli orrori di una società dominata dal miraggio del consumo.
    Inoltre il gobbo va esplodere la contraddizione, come si sarebbe detto negli anni ’70, cioè crea un cortocircuito tra una morale arcaica e immutata (il suo familismo amorale) ed l’esangue vita contemporanea che si esaurisce nei beni.
    Questo aspetto mi è parso molto interessante.

  6. Io penso pure che pezzo bello. Tutti quei morti: ma perché? E Bruno Vespa invece no. Secessionismo Viennese: votalo!

  7. Erano tempi che non tornava nuovo cinema paraculo.
    Ci hai mancato.
    Ora che hai tornato.
    Non ci lacciare più.

    Nanni Moretti: era meglio Luigi Nono.
    Luigi Nono: era meglio Scionberg.
    Sciomberg: era meglio Verdi.
    Verdi: era meglio Wagner.
    Bruno Vespa: non era meglio nessuno.

  8. O sbagliato.
    Bruno Vespa: non era peggio nessuno.
    E così la gag è andata a farsi benedire.
    Perdonare perdonare perdonare
    cha cha cha

  9. Quando Padre Raimo va al cinema diventa la nonna in pantofole. Cerca di capire la storia, e riduce il film al narrato, come magari fa con un libro. Come se la scrittura, lo stile non esistessero. Quando prova a parlare di fotografia se ne esce con “la fotografia era troppo esposta”: frase priva di significato. La fotografia può essere sovra esposta, magari. “Troppo esposta” significa essere ignoranti in generale, e conoscere poco l’italiano nello specifico. Bigazzi è uno che fa fotografia con niente, uno che a detta dei più si colloca molto in alto nell’arte del dp. Il modo in cui Sorrentino usa la mdp è stilisticamente alto, inaccessibile agli altri “registi” italioti. Anche se il film non piace, la maestria c’è. In tutti i suoi film si avverte un margine di sensibilità esploso, contundente. Per capirla, sta cosa, bisogna avere viaggiato e inventato. Ah, dimenticavo: la prossima, al cinema, Padre Raimo potrebbe ricordarsi che il film si fa con immagini e suoni. Il sonoro! la nonna se ne era dimenticata ma, si sa, l’età. Glielo perdoniamo.

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