L’idea di umano e i Frankenstein della cultura pop
di Giorgio Vasta
Sei nato negli anni ’80 e hai trascorso la giovinezza guardando la tv. Qualsiasi cosa passasse, dai cartoni animati alle serie, dalle sit-com alle soap, mescolando tutto in una sorta di unico iperplot dolcificato orrorifico exploitation apparentemente illeggibile. Durante l’adolescenza è stato il turno della consolle, dei giochi on line, con il gergo delle gilde e l’elaboratissima strategia delle battaglie combattute contro un “nemico” che sta a migliaia di chilometri di distanza, che conosci soltanto tramite un nickname e che non incontrerai mai. Poi, un po’ più grande, altri giochi di ruolo, ma più complessi, giochi rispetto al quale il primo Dungeons & Dragons è come il telefono senza fili per la generazione dei tuoi genitori. Modernariato ludico, niente di più.
Intanto sei entrato nelle chat con gli avatar, hai costruito un modellino di personaggio con il suo bel taglio di capelli e il suo vestito colorato e l’hai portato in giro per il web. Di internet, in generale, hai percorso tutte le declinazioni possibili, tutte le proposte di convivialità e costruzione di legami più o meno verificabili. E ancora oggi consumi quotidianamente altra televisione, magari via cavo, forse tramite il satellite o la pay-per-view, real tv e reality show di tutti i generi, anche quelli ambientati nei campi di concentramento o su pianeti appena scoperti, e divori con lo sguardo i flussi muscolari del wrestilng, i ruggiti in camera look dei lottatori, i loro costumi variopinti.
In tutto questo arco di tempo, non dico nessun libro letto – sarebbe caricaturale e non ti renderebbe giustizia – ma soltanto alcuni, una manciata. Meno di dieci e più di cinque. E di questi nessun classico (dei classici hai sentito dire qualcosa a scuola, ma si tratta di reminescenze, di fantasmi). Per lo più i best seller che anche gli altri leggevano. Nessuna ricerca, quindi, da parte tua, nessuna particolare passione per la cosiddetta “letteratura”. In camera hai dei libri ancora nel cellophane: sembrano fossili presi nell’ambra, archeologia di una storia della cultura della quale tu adesso sei un eversore tranquillo, un agit prop senza malizia, senza intenzione. Il punto di non ritorno, il terminale, il luogo del collasso.
Hai grossomodo vent’anni, quindi, e sei costruito con questi materiali, con i prodotti dell’intrattenimento di massa, con gli oggetti di consumo del loisir. In te, senza che tu ne abbia nessuna particolare consapevolezza, si compie un destino, si conclude un’idea di formazione culturale. Si conclude e ricomincia, si modifica, si rinnova. Si dilata, questa idea, annettendosi forme e contesti che fin qui non avremmo mai potuto nemmeno immaginare.
Anche perché fino a una ventina di anni fa, una condizione simile alla tua – essere la risultante umana di una costellazione di fenomeni culturali non ascritti alla cultura classica, alla cultura “alta”, e neppure a quel surrogato della cultura alta che è la cultura light – ti sarebbe stata rimproverata come un assurdo, ti avrebbe reso un extraterrestre, una specie di freak sociale, un deforme culturale. Un Frankenstein.
Oggi, invece, le cose sono cambiate.
Più esattamente stanno cambiando. A cambiare non è tanto il fenomeno culturale – il tuo essere un Frankenstein composto da pezzi di cultura bassa – ma i parametri a partire dai quali si definisce il valore, la dignità e la decenza di questo Frankenstein. Parametri che vengono drasticamente riformati, facendo crollare la gerarchia consueta per la quale la cultura letteraria coincide con il vertice della piramide della formazione e tutto il resto segue a scendere, fino alla base, una base che si allarga progressivamente e che è fatta di sistemi di intrattenimento massmediale disponibili e utilizzabili da tutti senza distinzione.
A dare una spallata forse decisiva a questa lettura dell’umano e a restituire credito al Frankestein culturale contribuisce un libro (guarda un po’, il fossile!) di Steven Johnson, Tutto quello che fa bene ti fa male (Mondadori, 2005), un saggio indefinibile (sociologia della cultura?, storia della conoscenza?, scienza della complessità?, trattato sulle narrazioni sociali contemporanee?, reportage attraverso i fenomeni massmediali collettivi?) che rovescia del tutto – e con grande raffinatezza intellettuale – codici e paradigmi da tempo dati per buoni, proponendo un’indagine più avvertita e consapevole e complessa di una serie di fenomeni connessi alla nostra contemporaneità ed evidenziando la fragilità della nostra idea di cultura nonché il velleitarismo di ogni sua reificazione.
Il ragionamento di Johnson – che vive a New York ed è giornalista e studioso di neuroscienze – parte da una contestazione lieve a una specie di “cadavere” del nostro immaginario. Una cosa immobile, rigida, che diamo per scontata. Una certezza – certezza che se osservata abrasivamente si rivela una credenza – per la quale da un lato c’è il mondo reale, solido e tridimensionale della cultura “vera” (di matrice scientifico-letteraria); un mondo densissimo e cospicuo, anche difficile (ma certi valori non possono che essere conseguiti a partire da una difficoltà, è chiaro), indiscutibile sul piano morale e in grado di generare ininterrottamente pensiero e sensibilità; dall’altro lato, invece, c’è un mondo parziale, mancante, quello dei videogame e della fiction tv, un mondo caratterizzato dalla sua “facilità”, se non addirittura “ovvietà”, da una docilità costitutiva, una docilità certo febbrile, elettrica (si pensi ai videogame o alle sit-com), ma sempre e comunque una radice cubica di mondo, a misura di minus habens, una waste land da evitare il più possibile tanto è insalubre e compromessa.
L’obiezione di Johnson è che le cose non stanno in questo modo. Lo studio ravvicinato, dall’interno e non pregiudiziale dei prodotti della cultura pop contemporanea porta a risultati imprevedibili. Prima di tutto, se consideriamo come riferimento anche semplicemente quello – appena accennato – della difficoltà (cultura letteraria connessa alla difficoltà costruttiva, cultura di massa pop connessa all’ovvietà inerziale), ci rendiamo conto che il grado di abilità necessario a giocare con un videogame di ultima generazione, tanto quanto quella che occorre per guardare una fiction multilineare non lineare (cioè una fiction che sviluppa più trame fuori da vincoli cronologici tradizionali) è elevatissimo e assimilabile, mutatis mutandis, a un’esperienza complessa come la lettura di un romanzo postmoderno.
E questo è soltanto un esempio.
Il punto centrale del libro di Johnson è che l’esperienza del videogame, così come quella della fruizione della fiction televisiva, del cinema popolare e di internet, prescindendo dai contenuti morali veicolati da questi prodotti, è di per sé un’esperienza fortemente complessa, una palestra capace di costruire un muscolo della mente tanto plastico quanto duttile. Ognuno di questi prodotti – che si è fra l’altro evoluto nel tempo sviluppando sempre maggiore articolazione interna e generando morfologie ramificatissime (tra il Pac Man delle origini e Sim City, così come tra Starsky & Hutch e Lost, corre la stessa differenza che c’è tra una goccia d’acqua marina e un intero oceano) – è una sintesi di elementi molteplici in connessione reciproca, un reticolo di stimoli che provocano ininterrottamente reazioni nella nostra mente, inducendola a comportamenti organizzati come la decisione (nel caso dei videogame interattivi) e la decifrazione di strutture narrativamente elaborate (nel caso delle fiction tv).
La negletta cultura popolare si trasforma così in un dispositivo metabolico che presiede alla costruzione della nostra intelligenza (a una sua parte, è chiaro). Le periferie dell’impero della cultura, ovvero gli oggetti mediatici di consumo indiscriminato e irriflesso, smettono di colpo di essere il male tout court guadagnando in utilità. A venire modificata è la nozione di esperienza. Non si fanno più valere, nel giudicare la qualità di un’esperienza, distinzioni legate all’importanza dei suoi temi, alla loro “decenza”. Si prescinde, come Johnson più volte suggerisce, dai contenuti morali (suggerimento politicamente scorretto e pertinentissimo). La violenza e il sesso – a volte mediati dai prodotti della cultura pop – sono dei che cosa ma quello che sulla nostra conoscenza ha un effetto performativo sono i come, vale a dire i modi in cui quei che cosa vengono messi in scena. La nostra esperienza si nutre di nuove strutture, sempre più complesse, che allenano la nostra reattività e la nostra capacità di decodifica. Tutto ciò è esistenza che trasforma se stessa in conoscenza, senza discriminazioni e senza ghetti.
Frankenstein, dunque, non è un mostro, non è il male. La sua barbarie è soltanto apparente. Se di un invasore si tratta è comunque un invasore necessario. Se il suo avvento è traumatico – e certamente lo è perché segna la rottura di un paradigma consolidato – il suo è un trauma utile (i filosofi direbbero “euristico”) perché ci costringe a pensare a una nuova idea di umano.
“Homo sum: humani nihil a me alienum puto”, scriveva Terenzio. Sono un uomo: non c’è nulla di umano che consideri estraneo alla mia esperienza. Neppure una partita a The Sims o una puntata di Desperate Housewives.
[pubblicato su Notable. Magazine di Letteratura, Arte e Spettacolo, numero 0, ottobre 2006]
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Giocare alla PS2 sarà pure un’esperienza postmoderna,
ma se guardo a mio fratello che è cresciuto negli anni ottanta,
fino adesso, gli si è modificato il pollice e l’indice più che il cervello.
A proposito, il professor Andreoli l’altra sera ha detto cose
interessanti sui decerebrati che hanno filmato la mattanza down.
Non era vera violenza ma solo spettacolo della violenza:
“io c’ero. Io c’entro. I miei quindici minuti li ho avuti anch’io”.
Violenza fredda che non fa male, ma è fatta per durare.
Chissà che ne pensa il dottor Johnson di questa ‘esperienza’.
Un’altra cosa: ma quanto durerà ‘sta sbornia dei po-poro-popo-post?
Se ne parla da almeno trent’anni. Dico, non sarà che la Grande Mutazione, la “poppizzazione” inavvertita della società matura (sic), è arrivata al punto di (de)cottura e non ce ne siamo accorti?
E che palle. Che grosso svanstuken. Devi vedere come sono figa, tettona e transettona, con il mio ultimo Avatar. Venite a trovarmi, non ve ne pentirete. Se a qualcuno interessa vi lascio l’indirizzo e mail.
Copio-incollo un pezzo divertente di Paolo Interdonato. Scelgo lui perché viene dal mondo del fumetto, dunque è più difficile tacciarlo di coservatorismo becero & crimini affini. Se volete leggere qualcosa di più potreste aprire Maus nell’edizionde di Repubblica. Vorrei anche consigliarvi sull’argometo videogiochi di leggere una certa pagina di S. di Gipi, libro splendido, ma so che la narrazione per immagini non è molto considerata qui (nel senso che gli articoli sull’argomento sono quasi inesistenti). Buona lettura.
“1. Mi piace entrare al libraccio. Soprattutto perché è abbastanza vicino alla stazione in cui prendo il treno che mi porta a casa e, se sono riuscito ad accumulare abbastanza ritardo da perdere il treno per un soffio, mi infilo nei locali di questo remainder’s e riesco a perdere anche due o tre treni successivi.
Quello in cui vado (ce ne sono un po’ a Milano) si trova vicino a P.ta Venezia ed è molto grande. In passato mi piaceva scartabellare tra riviste e urania. Col tempo però è diventato sempre più difficile trovare cose che mi interessassero e ora il settore delle riviste, dei gialli e degli urania e diventato triste come lo spazio analogo che viene riservato a questi oggetti in una qualsiasi edicola.
Per un po’ mi sono gettato sulla scaffalatura dei cd usati, guardando la carta con sdegno.
Poi ho abbassato la guardia e – approfittando del fatto che i figli crescono, diventano più autonomi e la notte dormono profondamente – sono risprofondato nel tunnel delle letture scoordinate e incontrollate.
2. Quando, nella seconda metà degli anni 70, mio padre ha portato a casa un televisore a colori col telecomando, sicuramente non sospettava che quell’oggetto mi avrebbe modificato radicalmente e per sempre. Fino ad allora eravamo abituati a convivere con un oggetto i cui ritmi (di accensione e messa a fuoco) richiedevano rispetto e devozione. Il nuovo telefunken no. Lui lo accendevi e subito i suoi colori saturi (ci sarebbero voluti anni prima che imparassimo a non esagerare) rischiaravano il salottino buono con il mobilio anticato e la moquette verde pera.
E poi il telecomando. Hi-tech d’altri tempi: una ventina di bottoni su ciascuno dei quali potevi poggiare tranquillamente il polpastrello del pollice; pesava come una pentola a pressione e lo dovevi tenere con due mani, ma ti permetteva di tenere il culo sprofondato sulla poltrona mentre passavi dal primo al secondo al terzo al primo al secondo… Già.
Ho perso un po’ il controllo, ma torno subito al mio rapporto coi libri del libraccio.
3. Ne compro decine scegliendo – soprattutto – tra quelli usati. C’è anche uno spazio, abbastanza piccolo, in cui vengono affastellati tutti i volumi usciti in tempi recenti e di cui qualche acquirente incauto ha già deciso di liberarsi. Normalmente i libri usati sono venduti al 50% del prezzo di copertina, quelli recenti – per ragioni imperscrutabili – costano il 60%.
Va bene.
4. Forse è vero che la natura non fa salti. Però io avevo in mano il telecomando. Ce l’avevo quando l’opportunità di selezionare canali a due cifre diventava una cosa utile, quando la tv dei ragazzi diventava una finestra di programmazione permanente, quando il faccione di paolobonolis presentava animazione seriale statunitense e giapponese (il più delle volte indifendibile) a un pubblico di bambini con in mano il telecomando. Proprio come me.
5. Tra i libri che ho comprato durante l’ultima razzia al libraccio c’è questo oscar mondadori dalla copertina rossa. Si chiama “Tutto quello che ti fa male ti fa bene” e spiega perché la televisione e i videogiochi ci rendono più intelligenti. L’ha scritto Steven Johnson. Appuntati questo nome, perché un giorno potrebbe scriverne altri. Il libro è pervaso da falsità ideologica affatto sottile (anzi spessa come la gomena che qualcuno voleva far passare dalla cruna dell’ago), ammantato di tutto quel “buon senso” che ci fa dire “Accidenti! Ce l’avevo davanti agli occhi! Come ho fatto a non pensarci?” Fa anche degli esempi. Anzi… fa solo degli esempi. Caratteristica dell’insulso volumetto è infatti quella di essere completamente privo di una parvenza di metodo alla guida di un approccio mosso grazie a spannometria e pressapocanza.
Il mio telecomando, nel frattempo, mi ha reso uomo migliore. Ora non riesco a mantenere la concentrazione sullo stesso libro per più di venti minuti e mi ritrovo in preda a schizofrenia della lettura. Freneticamente alterno il libretto rosso dei pensieri di Johnson a “La scomparsa di Majorana” di Sciascia, a “Groppi d’amore nella scuraglia” di Scarpa, a “supereroi e superpoteri” di Di Nocera (qualcuno arresti il grafico), a Best Off 2006…
6. Grazie telefunken!”
Per tutta il tempo che ho impiegato a leggere questo pezzo, mi è risuonato in testa il tuo interessante paragone (fatto qualche domenica fa nelle sale della biblioteca di Cuneo) tra Il Grande Fratello e Il Decamerone.
Non so se c’entra, ma, secondo me, c’entra.
Caro Giorgio, come ti ho detto in un’altra occasione, un post dovrebbe significare da noi (blog) quello che significa per altri (wrestling).ovvero, correre verso il ring. Così il tuo intervento. Grazie
effeffe
Credo di aver visto decine di ragazzi degli anni ’80 qui ipoteticamente ritratti nella prima metà del post. Nessuno ha letto meno di 10 libri, e i bestseller li schifano. Per il resto sono così. E sono loro stessi che rivendicano un uso della cultura meno ingessato di quello che ricevono a scuola. Non credo che lo facciano in virtù delle loro esperienze videoludiche in rete, ma di certo l’intelligenza è mutata, e così i canoni della cultura condivisa o condivisibile quando si dialoga.
IMHO il modello più interessante di questa mutazione rimane l’Inghilterra, fucina di fumetti, serial, progetti musicali dove c’è cannibalismo della cultura giovane verso quella dei padri – almeno dai tempo dei Romantici ;-)
Vorrei fare un inciso sul concetto di cultura e videogame.
Si sente parlare di videogames sempre più spesso, sui giornali, sulle riviste femminili, nei saggi sui nuovi media, alla TV. Gli atteggiamenti possibili sono molteplici. Il giocatore fa a meno di parlarne perché lui i videogame li conosce da dentro. Gli intellettuali non possono che vedere i videogame come cultura di serie B (un po’ come faceva Tomas Mann a proposito del Cinema). La gente li vede come passatempi per ragazzi pigri o per smanettoni che invece di esercitarsi nell’arte della riproduzione preferiscono la pratica onanistica del dildonico joystick vibrante della Playstation2.
Alcuni intellettuali però hanno cominciato a studiare la cultura del videogioco da vicino, inaugurando una nuova disciplina accademica che solitamente viene definita con il termine di Game Studies. Altri la chiamano ludologia, altri ancora semplicemente cultura videoludica.
Il punto che vorrei mettere sotto i riflettori è che non si può definire una forma di espressione complessa e evoluta come il videogame come cultura di serie A o di serie B. Il parallelo con il cinema qui funziona ancora (in altri casi invece non basta): c’è l’espressionismo o il surrealismo dei primi del novecento e c’è l’ultimo film dei fratelli Vanzina, c’è Rambo 4 e Stalker di Tarkovsky.
Secondo il mio modesto parere il videogame è una forma d’arte in potenza, nel senso che non sarà mai arte finché non sarà dichiarata tale da colui che la crea. Inoltre è una forma d’arte immersiva, multimediale e interattiva, che mischia categorie eterognee prese in prestito dal cinema, dalla letteratura, dalla computer graphic, dalla musica, e molto altro ancora, con un categorie molto diverse che appartengono al mondo dell’intrattenimento, del “giocare”, del “gareggiare”.
Su questo complesso e disordinato tavolo si intrecciano livelli semantici ancora superiori: il concetto di community, quello di luogo e quello di non-luogo, la psicologia dell’altro da sé, della prima-vita e di second-life. Diventa difficile pertanto parlare di videogame: sarebbe più opportuno parlare di “quel videogame” o di “quel gamedesigner”, il regista del videogioco.
Per cercare di cominciare un lavoro culturale e divulgativo sul tema del videogame ho deciso di sostenere attraverso la mia agenzia (di mestiere dirigo una new media agency) due progetti culturali che vado a sottoporvi:
http://www.videoludica.com
http://www.synthravels.com
Il primo promuove la cultura videoludica, il secondo è un’agenzia online di viaggi (gratuiti) nei mondi virtuali. Spero possano risultare di vostro interesse.
Capisco che per creare un videogioco bello bisogna essere intelligenti e aver studiato e predere idee in prestito dagli intellettuali e dagli artisti, oltre che essere furbi e centrare i desideri del mercato.
Capisco che persone intelligenti e sensibili possano divertirsi con un videogioco benché spesso siano beceri “sparatutto”.
Capisco che un gioco di simulazione possa in qualche modo essere costruito per simulare la civiltà e quindi possa – astrattamente se non concretamente – essere uno strumento pedagogico.
Capisco che i videogiochi possano creano comunità e questa è una bella cosa.
Quello che per me è il grande salto è concepire un videogioco come “arte”. Lì sospetto che ci sia un’idea di arte un po’ balzana, che combacia col detto “prendi l’arte e mettila da parte”. Ecco io non riesco a capire quest’ansia dei promotori della cultura del videogioco di nobilitare le loro creature col nome “arte”. Ho il sospetto che questo comportamento abbia ben poco a che fare con quella sensibilità, attenzione, intelligenza e direi libertà che si agitano nei meandri della cosidetta – in modo cialtronesco- “cultura bassa”.
Io chiamo arte il Dracula di Breccia, non uno sparatutto, una simulazione di volo, una partitona di calcio.
Andrea,
per molti ancora oggi Breccia non è un artista ma un fumettaro. Per me ragazzo era un genio e lo è tutt’ora. Proprio per questo non mi precludo (io che di videoludica non ci capisco una cippa e non ho mai giocato alla playstation) la possibilità che “arte” lo possa diventare.
Perché no?
quando ero tra i fiancheggiatori di NI e non ancora indiano Andrea mise su questo post tratto dalla mia (nostra) rivista SUD . L’omaggio di Munoz a Breccia (la copertina era proprio un ritratto fatto da Munoz stesso del suo maestro,) è tra le cose più belle pubblicate su Sud
https://www.nazioneindiana.com/2004/06/21/cosi-devi-fare/
effeffe
@Andrea
Non a caso parlo di “arte in potenza”… il tema è complesso proprio perché da un lato non c’è ancora (o quasi) l’intenzione del gamedesigner di produrre arte bensì business dell’intrattenimento. Inoltre, come ho cercato di spiegare, le categorie utilizzate oggi per parlare d’arte non sempre sono sufficienti per descrivere un “contesto” ipermediale come quello di un videogame.
Si potrebbero però aprire molti dibattiti come ad esempio questi: uno spazio frequentato da 6.000.000 di persone e riproducente delle architetture che diventano quinte di scenari umani quotidiani è semplicemente un non-luogo? Un gioco che propone una storia la cui essenza narrativa e poetica si esprime nella quasi totale inconsapevolezza del giocatore, in un contesto estetico assolutamente innovativo, può essere considerato solo un giocattolo elettronico?
Non ho detto che i giochi a cui faccio riferimento (World of Warcraft nel primo caso, Shadow of the Colossus nel secondo) siano Arte! Dico che è sempre semplicemente semplicistico definirli cultura di serie B o nicchie culturali passeggere.
Cioè, non lo so. Io ci ho giocato una volta e poi sono arrivati gli ufo e il gioco si è mangiato le 200 lire.
Erano gli anni Ottanta
Avevo diciassette anni
Impaziente mi aspettava la vita
Come cazzo è che è già finita?
Game Over
A parte qualche nobile eccezione di rara prontezza, tutti i miei giovani studenti dell’univ. della riforma mi sembrano tanti ‘NTUNTUTI.
a.b.> non riesco a capire quest’ansia dei promotori della cultura del videogioco di nobilitare le loro creature col nome “arte” [..] Io chiamo arte il Dracula di Breccia …
g.b.> non mi precludo [..] la possibilità che “arte” lo possa diventare.
Non mi sembra utile confondere il piano personale (ciò che soggettivamente uno, in base al proprio peculiare tirocinio dei sensi e dell’intelletto, considera essere “arte”) con quello sociale (ciò che nella società arriva a “legittimarsi” come “arte”).
Così, lo stupore di a.b. riguardo a “quest’ansia” mi sembra un poco simulato, o retorico: è del tutto evidente quanto prestigio sociale mantenga ancora questa semplice etichetta. A rigore, un arrangiatore di ready-made non dovrebbe adoperare e rivendicare un termine che il proprio capostipite, Duchamp, voleva precisamente abolire, ma è ovvio che “è bello”, come dice Esticaatsi, sentirsi un erede legittim(at)o degli antichi maestri, che il volgo neppure si sogna di mettere in discussione.
Io ho abbandonato la pratica dei videogiochi abbastanza presto, però ho sempre continuato ad osservarne, e spesso ammirarne, soprattutto gli sviluppi grafici (avendo inoltre un’idea di quanto sia difficile realizzarli, quale combinazione di talenti “alti” richieda questo obiettivo.) E li ho visti sfiorare spesso, ai margini di un main-stream troppo popolaresco, quello che è il mio “concetto personale” di arte (la mia pet-theory): mancava loro soltanto quel poco di scaltrezza, di fiuto, di opportunismo, che invece possiedono a bizzeffe coloro che nascondendosi dietro inaccessibili formule teoriche si limitano di fatto ad agitare idiosincrasicamente il “significante” con austera solennità, pretendendo che da ciò scaturiscano chissa quali significati, invece che noia per chiunque non sia in qualche modo “interessato” all’impresa stessa. Ma credo che prima o poi, magari combinandosi attraverso “team” compositi, questi talenti si completeranno a vicenda, e troveranno modo di intrufolarsi, magari scorticandosi un po’ la schiena, dentro al “sacro recinto”. Ma non credo che la questione abbia una rilevanza cosmica.
Wovo, nella società che frequento io, magari piccola, tutti dicono che Breccia è arte. Non me ne importa niente dei tromboni della critica ufficiale che lo considerano un pincopallino, essi non fanno parte della società che frequento, e se per caso fosse così, accorgendomene estrarrei un cartoncino rosso.
A me importa delle persone intelligenti e sensibili senza gradi sul braccio a cui Breccia potrebbe arrivare ma non arriva perché i sedicenti “chierici della cultura bassa” non fanno che occuparsi di cose da fighetti benestanti. La forza espressiva e il messaggio di libertà che circola in certe cose “popolari” loro, i chierici, non riescono nemmeno ad annusarla. Così queste rimangono chiuse in una piccola enclave di conoscitori nonostante la loro universalità e qualità.
Non penso che occorra specificare che breccia è solo un esempio.
Cultura alta e cultura bassa
artisti e fumettari
pop e camp
mah.
Non sono io a dire così, dico semplicemente “cultura”, e la “cultura” mi sembra una cosa bellissima.
Trattare temi complessi chiamando in causa, anzi “dentro” lo spettatore, facendo esplodere la forma con cui il tema stesso è trattato. Non so se sia cultura. Ma vi pare poco?
Nell’insuperato Metal Gear Solid (Konami, 1998 – per Play Station) di Hideo Kojima, il giocatore cioè ciascuno di noi impersona Snake, un’incursore che deve infiltrarsi in una base nucleare conquistata dai terroristi che vogliono usare un prototipo di arma nucleare ecc ecc. Il gioco è (a mio parere) divertente, insolito e profondo e bizzarro quanto basta. Teoricamente, l’ideale è finire il gioco senza farsi mai vedere dai vari soldati nemici – ma ci sono alucuni incontri che sono obbligati.
Certo, ci sono i cosiddetti boss di fine livello, e quelli BISOGNA farli fuori per proseguire nel gioco. Ebbene, il buon Hideo Kojima ha voluto che, una volta “portata a zero” l’energia del cattivo, sempre in omaggio alla convenzione del genere, dica le sue ultime parole prima di morire. Però la convenzione del genere avventuroso salta, perché ogni cattivo morente sostanzialmente rinfaccia a Snake (cioè al giocatore, cioè a ciascuno di noi che lo impersona) di essere lui il cattivo – anzi di essere IL MALE. Dopotutto, è il soldato «definitivo».
L’apoteosi ***SPOILER***
si ha quando Snake (cioè il giocatore, cioè ciascuno di noi che lo impersona) arriva dal moribondo cecchino che ha cercato di impedirgli l’accesso alla zona della base dove sta l’arma, il Metal Gear. Quando lo raggiunge, Snake scopre che è una donna, una Cecena cresciuta da bambina in un paese dilaniato dalla guerra, salvata da un militare, e che ha scelto di fare la cecchina per tenere la guerra il più possibile silenzioa e distante da sé. Ebbene: la povera Sniper Wolf è spacciata, soffre, perde sangue… e chiede a Snake (cioè al giocatore, cioè a ciascuno di noi che lo impersona) di finirla. Snake estrae la pistola. Lo schermo si scurisce. Silenzio. Il giocatore spera di scamparla, poi sente lo sparo. Nessuna giustificazione: il giocatore è un assassino. Sono un asassino. Sei un assassino.
*** FINE DELLO SPOILER***
Per chi gioca, una cosa diventa presto chiara: chiunque accetta la logica della violenza, per forza o volendolo, provocherà morte e distruzione: chi costruisce le armi, chi combatte per istinto, chi viene addestrato a farlo, chi spinge gli altri a farlo. Il fatto che si reagisca (e di chi è l’azione scateanante? Anche questo nella trama è impossibile comprenderlo davvero, come nei conflitti reali) non giustifica l’orrore. Naturalmente, chi non accetta la violenza, o chi non la sa usare, soccombe. Prima degli altri.
Dal primo momento, il gioco mette al centro questo cuore di tenebra che è la violenza in noi. Se non venisse a patti con le convenzioni del genere, forse, sarebbe più facile considerarlo arte, ma qui secondo me vale il discorsco del sanguinario nel teatro elisabettiano e delle attese del pubblico. Io non sono mai stato colpito in modo così dieretto e viscerale da qualche pezzo d’arte alla biennale dei Venezia che mirasse a “sensibilizzarmi sul tema”.
D’altra parte, sono le convenzioni del genere videogame che qui ci permettono, in un certo senso, di essere Kurtz, laddove Conrad, lavorando sulla forma-romanzo (e con vari espedienti e artifici letterari), di quella follia ci consegna la versione di Marlow.
A me non sembra poco.
No, non è poco, è un mondo in evoluzione dove possono entrare tante cose, però per me sono cose che stanno nella sfera del divertimento, dell’intrattenimento, per quanto raffinato sia, e lo dico con rispetto. Però dico anche che attualmente coi libri, con la pittura, coi fumetti, col teatro, con la musica si fanno cose diverse, si fa – a volte – arte.
Ora tu dici che è pensabile che qualcuno sviluppi un gioco che è intrattenimento di facciata ma in realtà sia in un modo incredibilmente complesso di raccontare la vita. Ti do ragione. Ma ribalto il tuo punto di vista. Prova a leggere per esempio i grandi romanzi come giochi in cui entrare e muoverti. Ecco già pronti i videogiochi più avanzati, di tutti i tipi, a prezzo contenuto per giunta!
a.b. says: “Ecco già pronti i videogiochi più avanzati, di tutti i tipi, a prezzo contenuto per giunta!”
Ci stai depotenziando, vuoi chiudere, a.b.! noi vogliamo esordire, vogliamo esplodere, vogliamo aprire!
Lo ammetto: non sono riuscito a leggere tutto lo scritto. Però non mi pare, fatte le debite proporzioni, che il numero di ‘pirla’ sia superiore negli anni ’80 rispetto a quelli, che ne so, del ’60, del ’50, del ’90 o del ’70.
Buona serata. Trespolo.
PS: ho scoperto ora che il termine ‘pirla’ può essere utilizzato indifferentemente per uomini e donne senza alcun problema. Un termine democratico direi.
Sì, ma se tu vuoi aprire a possibilità diverse devi considerare il videogioco come un pennello, come medium da usare per raccontare la vita. Possibilissimo, e probabilmente alcuni videoartisti ci stanno già provando, ma non è più un videogioco allora. E siccome tu dici – e io sono d’accordo – che il videogioco non è una cosa “cattiva”, secondo me per essere coerente non dovresti farlo diventare un’altra cosa. I videogiochi vanno già bene così, non è necessario che diventino “arte” quando sono ottimo divertimento.
Beh, si potrebbero escogitare, accanto alle solite modalità “arcade” (con punti accumulati e progressioni logiche negli schemi) delle modalità “arcadia”, contemplative, stranianti, deleuziane etc. La realtà virtuale potrebbe portare davvero ad opere d’arte “totali”, ma penso che ne siamo ancora abbastanza lontani.
Poi penserete che ce l’ho su con l’arte contemporanea – e in parte è vero -, ma se io devo accettare la genialità di Duchamp che mi rovescia il pisciatoio, perché l’arte è un linguaggio e l’atto artistico sta nell’esporre in un colpo la grammatica, l’enunciato e il contenuto intrecciandoli, beh, allora mi permetto di dire che questo triplo salto mortale alcuni videogiochi lo fanno bene. Mi sta bene che i VG siano intrattenimento, ma alcuni gamedesigner, come Hideo Kojima o Fumito Ueda, sono dei geni. Tra parentesi, lo stesso autore di Metal Gear Solid non ha – a mio parere – saputo superarsi nei suoi giochi successivi.
Esperimento mentale: perché non progettiamo (ops, avevo scritto “scriviamo”) un videogame davvero innovativo ispirato all’Orlando Furioso?
Se a questa proposta avete alzato il sopracciglio perché non è bello contaminare l’alto col basso, anziché cominciare a pensare in che cosa questo vidogame potrebbe essere innovativo e a un tempo caratteristico dello spirito ariostesco, avete/abbiamo (quando me lo ha proposto un 16enne anch’io sono rimasto interdetto) perso un’occasione di pensare qualcosa di nuovo, di innovare la tradizione che il mondo ci invidia.
naturalmente, a. b., che alcuni artisti giochino con altri linguaggi per compiere operazioni artistiche è uno dei motivi per cui l’arte contemporanea NON produce capolavori – intesi come masterpieces. Forse sto alzando troppo il tiro? :S
Più che con altri linguaggi giocano con il Linguaggio, procedura che conduce a piaceri meno universali (in quanto presuppongono un meticolosa conoscenza dei campi di produzione) e quindi più esclusivi. Meno pubblico (e per lo più fatto di concorrenti) ma “distinzione” assicurata. Da qui un double-bind che è abbastanza evidente.
Aspe’ Paolo S., intanto “Fontaine” di Duchamp è del 1917. quindi non è per nulla contemporaneo. Poi non è soltanto un’opera di arte concettuale, “Fontaine” è anche una forma, e un simbolo. Per me il lavoro di Duchamp è straordinario ma non vorrei aprire l’ennesimo dibattito, anche perché ora non serve.
Dici che l’arte contemporanea ti delude. Be’ con Wovoca e me sfondi una porta aperta. Se mi facessero scegliere tra giocare con la tua PL2 e camminare per i giardini della biennale… prepara pure i giochi! :-)
Poi dici che alcuni gamedesigner sono dei geni. Ne sono sicuro. Anche Maradona era un genio. A me che il genio sia qualcosa che appartiene a Rembrandt o Hideo Kojima o Maradona fa solo piacere perché significa che per essere grandi, per intrippare, per commuovere magari non è necessario per forza quella cosa strana che è l’arte. Gli artisti cercano parole di verità, e spesso l’arte è terribile, i giochi cercano meraviglia e divertimento. Sono cose che possono convivere in ognuno!
Un videogioco sviluppato sull’Orlando Furioso? perché no… Ma si può tentare ancora di più, in fondo il linguaggio dei videogiochi è giovanissimo. Secondo me se le case produttrici capiranno che facendo lavorare quelli che tu chiami geni si arriverà a forme di interattività sbalorditive, be’ i geni sanno che per pescare le idee occorrono altri geni… nessun sopracciglio alzato dunque. Piuttosto leggiamo tutti Kafka e mettiamo tutti su i giochi (che tu ci taroccherai… :-)
Ma state tutti giocando con le rispettive categorie che più vi garbano al momento? Perchè un’accozzaglia di punti di visione così disparati non l’ho mai trovata, nemmeno nell’arena della politica militante.
Cercate di dare un freno ai vostri impeti opinionisti, la realtà è più complessa di quanto sembra e non sarà una presunta semplificazione oppositiva a creare un felice dibattito.
Confesso che nutro molti dubbi sul senso di alcuni dibattiti ma poi ci casco anch’io, offrono un terrreno fertile di esperienza critica…Sarà che sono stato scritto per cinque anni a Scienze della comunicazione e lì di opinioni strampalate e discorsi copiati e visioni marcie passate per innovative ne ho sentite tante!!!
Un saluto…buona ricerca della cultura a tutti!!!
Poi volevo anche dire che nella bellissima descrizione che fai di Metal Gear Solid, il tipo di rivoluzione introdotta dall’autore, mi ricorda la rivoluzionarietà con cui Alan Moore ha fatto deflagrare lo stereotipo del super eroe in Watchmen. O Miller nel Ritorno del cavaliere oscuro. Genio puro.
Che cosa??? La realtà è più complessa?? Ma dai … ne sei sicuro?
Azzardo è un geniaccio… :-)
Infatti … è chiaro che questa notizia cambia tutto, anzi lo scombussola (I’m working on a fix :-)
Io non sono mai stato colpito in modo così dieetto e viscerale da qualche pezzo d’arte alla biennale dei Venezia che mirasse a “sensibilizzarmi sul tema”.
Sensibilizzare sul tema, ecco lo scopo dell’arte. Beh, son contenta, mi ero sempre chiesta a cosa servisse.
La Verità è che la parola arte, se proprio proprio ci tiene a significar qualcosa, avrebbe urgentemente bisogno di un buon, prolungato, rigenerativo lasso di permanenza nel cesso. Questa è la Verità. Assoluta.
Secondo me.
Ma voi sapete che cosa e’ l’arte? Chi ve l’ha detto? Sono arrivato vecchio senza capirlo. “L’infinito” e’ arte e Mario Merola no? Probabilmente ha provocato + emozioni Merola che Leopardi: quali emozioni valgono di più? gli “emozionati” od i classificatori di emozioni? e chi lo stabilisce? L’arte è la forma?
Morirò senza saperlo e con solo un briciolo di invidia verso chi sa: si è campato lo stesso.
Grazie, scusate e saluto.
Beh, c’è una lunga tradizione, secolare, di gente che si è interrogata su quello che faceva e che facevano gli altri, si può discuterne, ma c’è e si parte di lì, non da una tabula rasa.
Va bene dire ognuno la sua, ma cribbio, a volte qua sembra di assistere a una puntata di dilettanti allo sbaraglio.
Manco da diverse ore, mi affretto a dire ad a. b. che concordo al 100% sulle rivoluzioni di Miller e di Moore e coll’evidente doppio legame. Effettivamente, io ho messo in campo il termine genio per dribblare non tanto Diego Armando quanto lo spinoso concetto di «arte».
Che appunto non deve sensibilizzarmi sul tema, sono stato impreciso. Sono i *lavori* della Biennale (ritiro “pezzi d’arte”) che spesso si danno questo scopo. E mi annoiano.
Poi mi contraddico (sono vasto, contengo moltitudini) sui masterpieces: Chris Cunningham è uno che ha esposto a Venezia e mi ha colpito. Forse lo scopo dell’arte non è colpire e non è neppure dispiegare la maestria espressiva e non è neppure avanzare metariflessione sul linguaggio o emozionare, ma Flex è roba che spacca. E lui è un genio :O
In piccolo, sta qui: http://www.youtube.com/watch?v=cpSk4An81y0
> Ma voi sapete che cosa e’ l’arte? Chi ve l’ha detto? [..] quali emozioni valgono di più?
Ovviamente quelle in cui you “can feel your heart begin to pound”, e infatti una delle forme d’arte (performance) più efficaci è il nascondersi dietro un angolo e gridare “BU!!!” a quelli che passano. Le espressioni alla Bacon assunte dalle loro facce costituiscono la prova provata che il “messaggio” è passato.
> c’è una lunga tradizione, secolare, di gente che [..] si può discuterne, ma c’è e si parte di lì
E chi lo dice, cara Alcor? Quali accordi si sono mai presi al proposito? Le biblioteche, come quella di Alessandria, si possono anche dare alle fiamme, visto che se ciò che vi è contenuto risulta in accordo con il “Libro Sacro” allora è superfluo, mentre se risulta in disaccordo è blasfemo. Il carico di “memi” che ambisce a sopravvivere attraverso il cervello dei giovani è ormai eccessivo, ma lo si vuole capire?
“…la gerarchia consueta per la quale la cultura letteraria coincide con il vertice della piramide della formazione e tutto il resto segue a scendere, fino alla base…”
una domanda che mi sembra crusciale è: questa da noi è ancora la Cultura?
rispondo che a me pare di sì.
forma ancora?
e chi forma?
oggi occorre ancora una formazione oppure basta il solo addestramento?
> questa da noi è ancora la Cultura?
Dovresti chiarire cosa intendi con quel “noi”. Così come l’ “occorre”. A chi? A colui che viene formato/addestrato oppure a quel “noi”? Disambigua please :-)
Ci sarebbe un lungo giro storico da fare, per capire come mai il rapporto con il testo letterario è considerato, o lo è stato – in Italia per un bel peezzo e fino almeno alla metà del secolo scorso, il vertice della piramide della formazione. Azzardo velocisssimamente: mentre sviluppava skill comunicative essenziali alla vita politica e pubblica, la letteratura manteneva allenate anche le facoltà critiche e la sensibilità dell’individuo.
Purtroppo la museificazione e la storicizzazione da un lato, l’avanzata della tecnica e la concorrenza degli altri media dall’altro hanno minato questa posizione privilegiata.
I sostituti non sono all’altezza nei risultati (vedi scienze della comunicazione), ma la vecchia letteratura (com’era/com’è) non basta più. Mica un caso che Pasolini si sia dato al cinema – per dirne una…
Scusate, che differenza c’è tra “disambiguare” e “chiarire”? Grazie a tutti.
“skill comunicative”.
Pare un colloquio de Procter&Gamble.
Conosco un adolescente di secondo Liceo Classico con grande capacità critica e non senza una certa vena di follia che oltre ad aver visto Desperate Housewife, cartoons dei Simpson, letto libri e trattati filosofici regolamentari ha letto un più recente “Filosofia della Musica” di Massimo Donà ed anche “I Simpson e la filosofia” nonchè speso una buona fetta dei suoi risparmi – centoquarantasette euro – per un vecchio e raro numero di Dylan Dog. L’ho anche sentito sostenere la necessità di introdurre il numero chiuso per i corsi di laurea in filosofia e motivare dettagliatamente questa convinzione sulla quale non mi dilungo perché potrebbe anche offendere qualcuno: quindi, ritengo non ci siano limiti spazio temporali alla validità delle Terenzio-sentenze.
@Aldo: che “disambiguare” si usa su Wikipedia, ed è quindi molto più “in” che non chiarire. Noi le mode le facciamo, mica le subiamo.
Completo per Alcor (sempre nell’ovvio presupposto che qui bisogna comunque “spararle grosse”, al fine di economizzare spazio e tempo). Il carico di memi è diventato quasi insopportabile anche dal momento in cui l’arte ha lasciato le opere (sulla quale si “compattavano” le vite degli artisti) per andare a coincidere con le vite stesse (mitologizzate) degli artisti, assai più ingombranti da traghettare nel tempo (oltre che arbitrarie) e di cui le opere spesso diventano un mero e feticistico “oggetto testimoniale”. Occorrono forse degli esempi? Al contrario, direi che sono le eccezioni che diventano oggi degne di menzione. Così, mentre un antico maestro bruciava la propria esistenza per costruire opere che possiamo interpretare e utilizzare – nel senso di Eco – o anche pervertire, a diversi livelli senza doverne conoscere in tutti i dettagli l’ambiente di incubazione, o le “intermittenze del cuore” dell’artista, oggi dovremmo sottoporci a dei veri “tour de force” (ai confini del plagio) per accedere alla conoscenza di quelle complicatissime (e abbastanza arbitrarie) architetture di “spazi del possibile” che possono giustificare davvero l’importanza delle opere stesse all’interno delle logiche altamente autonomizzate (quindi autoreferenziali) di certi campi di produzione. Così, appare ben comprensibile il dramma dei poeti (a qualche thread di distanza): essi presuppongono che il fruitore non semplicemente li legga (che alla prima lettura tutti sembrano trarre impressioni divergenti) bensì li studi, li compiti, li ripeta, li inserisca faticosamente in un reticolo culturale con la stessa devozione, umiltà e perseveranza che si riservano ai classici, e questo mi pare sinceramente assurdo. E d’altra parte c’è il sospetto che essi non vogliano realmente elevare il catecumeno sino a dei livelli critici potenzialmente pericolosi, ma piuttosto costruire l’utile malinteso che le loro distanti sofisticazioni intellettuali possano essere “colte” da molti semplicemente a livello di “sentimento”, come per un qualsiasi poetastro romantico (suonano così inutili certe sequele di encomi affettuosi che gli appartenenti allo stesso gruppo fanno seguire all’esemplare esposto in rete, e a nulla giova l’aggiunta di una sembianza di apparato critico: basta che passi qualcuno di un gruppo rivale che tutto può venire facilmente ribaltato – cosa impensabile in altri ambiti.) Il guaio è che loro davvero inseguono le logiche dei campi dai quali sono affascinati, tuttavia dovrebbero ammettere che non c’è davvero nulla che assicuri a questi loro finissimi adattamenti un carattere di universalità, e io penso che salvo qualche casuale miracolato finiranno semplicemente travolti dal flusso del mondo, che reclama oblio quanto e più che non memoria. I nostri creatori di videogiochi partono invece dal lato opposto: allettano le masse con una sensualità immediatamente fruibile, per poi inserire gradatamente nel gioco delle articolazioni e sofisticazioni intellettuali che magari soltanto alcuni saranno in grado di cogliere consapevolmente, formando così una piramide di fruitori che si innalza dal basso. Adottano dunque quello che nell’arte era il procedimento tradizionalista. Considerato che questo processo di differenziazione è, in pratica, appena cominciato, non rimane che aspettare e vedere a cosa possa condurre.
Preciso che il mio discorso sui poeti, molto astratto, si riferiva alla mia esperienza globale in rete e non a casi particolari qui rappresentati (non cerco polemiche).
@Paolo
Pensare di sviluppare un gioco come arte è esattamente l’azione che trasformerà il videgoame da arte in pontenza ad arte vera e propria. Credo…
In generale però in videogame è già una complessissima forma espressiva che in oltre trent’anni ha prodotto un’universo di soluzioni estetiche, ludiche, narrative, informatiche, socio-culturali, economiche, ecc. ecc. ecc.
Si leggono ancora sulle riviste d’arte e cultura o nelle tesi di laurea dei nostri atenei, migliaia di pagine per approfondire temi dell’arte degli ultimi millenni. Possibile che così in pochi si fermino ad analizzare ciò che potrebbe diventare la nuova arte di questo secolo?
@ wowo
“E chi lo dice, cara Alcor? Quali accordi si sono mai presi al proposito?”
la prassi, caro wowo, anche la tua, e anche questo thread, così come si svolge, è che alcuni lo fanno male.
Per inciso, io ho letto con molta attenzione il post di vasta, e molto interesse, e sto uscendo per andare a prendermi il libro.
vedo dal tuo secondo commento che hai pensato che mi riferissi a una tradizione eminentemente letteraria e accademica, col cavolo, se posso dirlo, a me l’accademia non interessa, la tradizione è una cosa complessa, e certo, il sapere che è conservato anche dall’accademia ne fa parte, le parole che usiamo qui vemngono anche di lì, ma certo non sono io che alzo quegli steccati. Io sono porosa.
Ho riletto il tuo post, che c’entrano qui i poeti?
Sia pure in rete?
Potresti dirle sotto il post dei poeti alcune cose, ci sarebbe forse un po’ di polemica, certo, ma forse anche si delineerebbe più chiaramente il legame piuttosto stretto che c’è tra lingua poetica e io, mentre qui mi pare che sia molto stretto il legame tra il video game e il sistema neurologico, il cervello, la mente.
Leggerò il libro con attenzione, sia pur distante, vista l’età.
Matteo: il problema della disseminazione delle forme espressive, culturali e “sottoculturali” va di pari passo con la frammentazione dei saperi (vedi post della Lipperini e relativi commentsul silenzio degli antropologi).
Forse Martin Heidegger non sarebe d’accordo, ma JP Sartre e Terenzio magari sì, ma il piano su cui ci troviamo dovrebbe ancora aver ache fare principalmente con l’uomo, non a(na)tomizzato da interessi speciali e discipline specialistiche.
Se il buon vecchio Shakespeare ieri o Hayao Miyazaki oggi “spaccano”, è perché sanno leggere e descrivere l’uomo come tale (Shakespeare lo fa con un suo alfabeto dei sentimenti, Miyazaki con un catalogo delle età dell’infanzia), e lo sanno fare perché accolgono, elaborano e consegnano un tutto (anzi, tanti: degli universali singolari?) che noi leggiamo come codificato, ma che in realtà appunto “spacca” le codifiche e arriva sotto le nostre scorze storiche, accademiche, psicoanalitiche, filosofiche, religiose ecc ecc.
Questo leggere e riscrivere (e vai con la metafora letteraria!) non appartiene – secondo me – a nessun medium in particolare. Su questo piano, apprezzo (beh, diciamo posso apprezzare) Metal Gear Solid “come” Il processo, come Flex o Una ballata del mare salato o 4’33” di Cage o il Mosè di Michelangelo. Se siano arte o meno, non sta a me dichiaralo.
@alcor
Il discorso sull’eccesso di memi mi sembrava ben connesso alle gerarchie di legittimazione culturale di cui parlava l’articolo di Vasta, ed ai tentativi di ridisegnarle da parte di nuovi generi finora esclusi. Tra il movimento verso l’alto dei designer di videogiochi, pieni di pubblico pagante ed in cerca di teoria, e quello verso il basso di certi poeti postmoderni, pieni di teoria ma privi di pubblico pagante, mi è sembrato di scorgere un grazioso rapporto di specularità.
Sulla prassi: ma il pensiero critico non dovrebbe appunto “esplicitare” le prassi, oggettivarle, tentarne una geneaologia? Questo mezzo in teoria ce ne offrirebbe (attraverso la sua “oggettivazione istantanea” del pensiero) una possibilità straordinaria (e pazienza se si dovesse poi ritorcere contro noi stessi). P.es., nel thread su VibrisseLibri ci sono delle bellissime costellazioni di concetti (tornaconto morale vs tornaconto monetario / presentazione vs promozione / il rispetto che “si deve” ad una forma di volontariato) che si situano tutti nella dimensione, apparentemente costitutiva, del “disinteresse”. Cioé la pervicace negazione dell’interesse nel disinteresse, ovvero dell’innegabile, ancorché tortuosa, “convertibilità” fra capitale simbolico e sociale e finanziario, ovvero della dimensione agonistica dell’impresa intellettuale, ovvero dell’ “altra faccia” della cultura (che si vorrebbe invece interamente “buona”), ovvero, alla fin fine, dell’ambivalenza ineliminabile tra la funzione di supporto e l’effetto di costrizione, che è applicabile a qualsiasi strutturazione.
@ Wowo
Sul “grazioso rapporto di specularità” concordo. Il pubblico pagante non è poca cosa, alla fine, sembreresti dare ragione a sanguineti sull’avanguardia, salvo che anche lì, la merce avanguardistica sanguinetiana, sia pur pagata, è pagata poche lire, se resta merce poetica, mentre qua i videogiochi smuovono milioni di euro e dollari, credo.
Appunto, parlavo della prassi dell’operare artistico o comunque creativo e delle considerazioni critiche e teoriche che vi si intrecciano, che non prescinde mai – anche se a volte non ne fa esplicitamente parola – dalla tradizione, perché proprio lì prende, modificandole, le parole per dirlo (le parole per dirlo mi fa venire in mente un libro rosa, possibile?)
no, sono andata a controllare, è il titolo di un libro di marie cardinal, viene definito “letteratura femminile testimoniale”, il che però sfiora la categoria.
Io non l’ho letto, ma vedi un po’ come le cose ti si infilano nella mente.
(@wovo, di cui non ho capito gli ultimi commenti).
Letterature italiana, latina e greca. Letteratura inglese o francese, o tedesca. Filosofia. Storia.
Questo il nucleo portante, l’intelaiatura sulla quale si impernia e si sostiene il sistema formativo italiano (“noi”) che trova puntuale riscontro, metti, negli scaffali delle librerie.
Fateci caso: da Feltrinelli, qualunque Feltrinelli d’Italia gli scaffali delle “scienze umane” (definizione ambigua e un po’ stupida) sono quantitativamente quattro o cinque volte più estesi di quelli dedicati tout court alle scienze propriamente dette.
Ancora oggi c’è prevalenza dell’arte della parola, dell’argomentazione verbale, su tutto: questo probabilmente intende G. Vasta quando disce che la “cultura letteraria coincide con il vertice della piramide della formazione”.
La stessa cultura letteraria, scambiata direttamente per cultura, che intride il liceo italiano come qualsiasi altro luogo frequentato dai “colti”, NI compresa.
Chi sono i “colti” e che differenza c’è tra “formazione” e “addestramento”?
Alla seconda domanda risponderei così.
Formazione è un processo di apprendimento che punta coinvolgerti per quello che sei e dovrai diventare.
Addestramento è un processo di apprendimento che non entra nel merito della ri-definizione degli individui come persone, ma pensa solo ad metterli in grado di agire e pensare in un campo specifico.
Tra queste due modalità c’è sempre stato conflitto e in genere alla letteratura si affida ancora il compito di formare, mentre alla scienza quello di addestrare.
Fino a pochi decenni fa i “colti” erano i membri di quella che si chiamava la “classe dirigente” di un paese, erano cioè tutti quei borghesi, grandi e piccoli, più una piccolissima fetta di classe operaia, che, formatisi alla cultura della parola, erano in grado di recepire il messaggio (di solito mediatorio, ma talvolta oppositivo) degli intellettuali per trasmetterlo, trasferirlo, nel pensiero e nell’agire quotidiano nei campi più svariati.
La mia impressione è che questa classe di “colti” non esista più, nel senso che i colti esistono ancora (e sono secondo me aumentati di numero), ma non hanno più un ruolo dirigente, non trasferiscono alle masse nessun messaggio degli intellettuali perché gli intellettuali non esistono più, la loro funzione si è esaurita, sono rientrati nei ranghi: il potere non ne ha bisogno e parla direttamente alle masse, formandole ai propri scopi.
Il mondo in cui viviamo si caratterizza per il riassorbimento degli intellettuali e delle borghesie colta all’interno di quello che io chiamo il Grande Ripieno, GR, costituito da un vastissimo insieme interclassista incantato dai media, vero motore politico e vero obbiettivo della ricerca del consenso di qualsiasi forza politica.
Dunque al potere (al Sistema? ai padroni?) non occorre più alcuna formazione, ma solo addestramento: gli intellettuali non ha sbocco, se non quello di intrattenere e di organizzare il consenso.
Che ruolo hanno in questo quadro, ammesso che sia esatto, le culture giovanili dette genericamente “del videogioco?”.
@tash
perfetto.
Alla tua domanda risponderei che hanno il compito di sostenere il consumo. Il che non toglie che questo non sia anche un rapporto creativo.
Anche la moda risponde a questa duplice valenza, produce, vende, e crea connessioni estetiche e comportamenti che a loro volta producono una forma di estetica che poi dilaga e si incrocia e intreccia con altre.
Resta però il fatto, a modesta correzione di quanto hai detto e su cui sono sociologicamente d’accordo, che per avere le parole adatte per dirlo e soprattutto dirlo bene e non solo farlo, ancora oggi, servono competenze che ai acquisiscono ancora al vecchio modo, se guendo la vecchia trafila.
Dunque la filosofia come pratica minore, l’imparare a pensar bene, ancora non è morta.
ella peppa
“che SI acquisiscono”
“SEGUENDO la vecchia trafila”
altro non ho visto, se c’è scusate.
@ Paolo S.
“Hayao Miyazaki spacca.”
Sono d’accordo, tutti quelli che nominano Hayao Miyazaki sono immediatamente miei fratelli (dico “nominano” e basta perché nessun essere umano potrebbe mai nominarlo se non per lodarlo).
Cosa c’è dietro la sua potenza? frequentando il blog di Igort ho imparato che il linguaggio giapponese dei manga e dei cartoni è: universalità del linguaggio e “kokoro”. Sia chiaro, sono strumenti per raccontare, non fini, e non tutti li usano bene. Certamente in mano a Miyazaki rendono le sue narrazioni una delle cose più belle che abbia mai visto.
Capire l’universalità di un linguaggio significa accostarsi in un certo modo anche alla letteratura. Per esempio, alcuni dicono: cosa c’è di nuovo in Gomorra rispetto ad altri libri sulla camorra? Be’ una novità cruciale è il linguaggio che arriva come una freccia. Con questo non voglio ridurre il libro alla dimensione del linguaggio, né ridurlo a costruzione mitopoietica e stronzate varie: Gomorra è verità, non giochetto di finzione. Ma senza quell’invenzione linguistica sarebbe rimasta verità inascoltata.
@Tash. Per capire: da quale punto in poi ti sono diventato incomprensibile? D’altro lato nemmeno io capisco bene il senso complessivo (morale? utilitarista?) della tua argomentazione, sebbene ne comprenda il lato puramente descrittivo. Pensi che sia sbagliato imbottire di chiacchiere “umanistiche” gente che in larga parte dovrà poi, per forza di cose, andare ad assumere mansioni esecutive di carattere “tecnico”? Oppure che se non si viene poi attivati dall’appartenenza ad una linea di comando che riporti al Potere (o a un Contropotere) non si possa ugualmente far funzionare il cervello (come se questo avesse bisogno, come un’economia capitalistica, di “sbocchi”)?. Beh, non sono affatto d’accordo. Penso che certe figure mitologizzate di intellettuale non siano più replicabili (se non a livello di spettacolo) sia per una maggiore generale consapevolezza riguardo alla complessità dei problemi, sia per un problema di relativa sovrabbondanza (determinato dall’istruzione di massa) che li rende al tempo stesso meno individuabili e meno distanti da quella massa con la quale dovrebbero (?) comunicare (a suon di parole d’ordine?). Non so, queste mi sembrano categorie o forme un po’ invecchiate.
D’accordo con Tashtego. Il suo riferimento alla supremazia in Italia delle scienze umane, cultura classica su tutto il resto, storicismo e letteratura, ha costituito per decenni una grave mancanza nel nostro sistema di altri elementi culturali anche se ha prodotto degli ottimi seri intellettuali.
A dirlo, ora che tutto è cambiato sono ormai in tanti, ma cerchiamo almeno di non ricadere nello stesso errore, il rischio di settarismo e provincialismo è in agguato dietro le mire universalistiche a cui aspirano ancora i reduci di una cultura alta e altra.
Credo che molti di voi avranno seguito le puntate su Repubblica de “I Barbari” di Baricco. Per me quella serie è una testimonianza orgogliosa dell’opinion-maker che oggi sa come fare un buon prodotto con la parvenza di frammenti di cultura riciclata mescolata alle opinioni-intuizioni più comuni. Mi verrebbe da dire basta e criticare Repubblica per questo ennesimo spot alla persona e al sistema ma poi…Beh Citati e gli altri si possono pure onestamente avventurare nelle loro frecciate liquide ma Baricco ha dalla sua la potenza della semplicità mediatica e tutto il fascino della cultura postmoderna. Alla fine dei conti fare i ribelli e i provocatori in nome della C-Cultura è un atteggiamento ormai divenuto sospetto.
Tra i giovani chi l’ha già capito si tuffa nella produzione o rimane a rimuginare o si coltiva serenamente il proprio orticello…
Quale sarà la prossima discussione su N.I, quella sulla qualità dello stato dell’arte in Italia?
un caro saluto
TashEgo dice: “Fateci caso: da Feltrinelli, qualunque Feltrinelli d’Italia gli scaffali delle “scienze umane” (definizione ambigua e un po’ stupida) sono quantitativamente quattro o cinque volte più estesi di quelli dedicati tout court alle scienze propriamente dette.”
E che vuol dire? allora guarda gli scaffali di critica letteraria: sono (giustamente) un decimo di quelli dedicati a ciò che tu chiami “scienze propriamente dette” (???).
Il fatto è che le feltrinelli non sono biblioteche universitarie ma negozi (come tutte le altre librerie, of course), e in quanto tali non vendono certo testi di “scienze propriamente dette” ma al più libri di divulgazione scientifica che è ciò che un pubblico di non-studiosi specialisti può legittimamente leggere e comprendere. Gli studiosi e gli specialisti si procurano il materiale di studio con altri mezzi, non certo andando alle feltrinelli. Il prosieguo del ragionamento lo lascio fare a te.
Detto questo, l’idea che ancora in italia spadroneggi una cultura letteraria storicista umanistica etc etc mi sembra solo un luogo comune.
Siamo sicuri sia ancora così?
Io credo di no.
Questo non vuol dire che Newton abbia sostituito Dante, che la cultura umanistica sia stata sostituita da una scientifica (come se ancora potessimo ragionare nei termini delle due culture!), al loro posto c’è qualcos’altro.
Anche la conclusione di questo ragionamento la lascio a te.
@ Wowoka: io le mode le evito, non le faccio, né le subisco.
A 4 anni mio nonno mi mise una sedia davanti ad flipper, di un bar che adesso non esiste più, e la mia testa era lo stesso a livello del vetro. Poi mise le 50 lire nella fessura, e lì tutto è cominciato. E non ho avuto bisogno di ascoltare “Tommy” prima…
Adesso sono alto e forte abbastanza da poterlo alzare in verticale il flipper, ma non ne esistono più, o quasi più. Nonno è morto da anni, ma io me lo ricordo ancora, ogni volta che vedo una fessura per le monetine :-)
Ok, la mia era una specie di battuta (fiacca, in effetti) – nemmeno io le faccio, le mode, quanto a subirle non saprei dire se ne sono completamente esente (siamo animali mimetici). Però non ho capito cosa è cominciato lì e cosa intendevi con l’ascoltare “Tommy”.
Ciao
@ uno che, eccetera
La mia è una semplice constatazione, nel mio commento non introduco, e spero non sembri il contrario, alcun elemento di giudizio, se non per quanto riguarda la definizione “scienze umane”.
Personalmente non credo che la questione consista nel sostituire Dante con Newton, anche se mi rendo conto che la tua è una formulazione paradossale, e nemmeno con l’introdurre più matematica, più fisica, più chimica o più biologia in corsi di studi che resterebbero comunque totalmente antropocentrici, nel senso che terrebbero comunque al loro centro la grande la Grande Certezza, la superiorità elettiva della scimmia umana, produttrice e cantatrice della Grande Dea: l’emozzione umana.
Direi in breve e senza potere, né forse sapere, aggiungere altro, che occorrerebbe cambiare l’intero cosiddetto Canone italiano come occidentale, versione scrausa et provinciale del Canone occidentale.
c’è qualche ripetizione.
chiedo scus.
@ Wovoka
Vignoli alludeva a questo:
Pinball Wizard
( The Who, from “Tommy” )
Ever since I was a young boy
I’ve played the silver ball
From Soho down to Brighton
I must have played them all
But I ain’t seen nothing like him
In any amusement hall
That deaf, dumb and blind kid
Sure plays a mean pinball
He stands like a statue
Becomes part of the machine
Feeling all the bumpers
Always playing clean
He plays by intuition
The digit counters fall
That deaf, dumb and blind kid
Sure plays a mean pinball
He’s a pinball wizard
There’s got to be a twist
A pinball wizard
He’s got such a supple wrist
How do you think he does it?
(I don’t know)
What makes him so good?
He ain’t got no distractions
Can’t hear those buzzers and bells
Don’t see lights a flashin’
Plays by sense of smell
Always gets a replay
Never tilts at all
That deaf, dumb and blind kid
Sure plays a mean pinball
I thought I was
The Bally table king
But I just handed
My pinball crown to him
Even on my usual table
He can beat my best
His disciples lead him in
And he just does the rest
He’s got crazy flipper fingers
Never seen him fall
That deaf, dumb and blind kid
Sure plays a mean pinball
>Però non ho capito cosa è cominciato lì e cosa intendevi con l’ascoltare “Tommy”.
– che ho cominciato ad andare al bar “per una partitina”, ero un bambino introverso e gareggiare con gli altri mi alzava l’autostima. Non so se mi abbiano cambiato più i libri, il cinema, lo sport o i pomeriggi passati in sala giochi ad osservare i “grandi”. Con il tempo ho capito che era un modo come un altro per passare il tempo in compagnia degli amici… E trovare unn interesse comune (in realtà ai miei tempi i videogiochi erano roba da secchioni, da sfigati… Quindi possiamo pure considerarla una scelta anticonformista :-D)
– “Tommy” è un disco/musical degli Who: in rete troverai articoli meglio scritti di quanto potrei mai fare io, per esempio questo:
http://www.ondarock.it/pietremiliari/tommy.html
@ wovoka
Vignoli faceva riferimento questo:
Pinball Wizard
( The Who, “Tommy”)
Ever since I was a young boy
I’ve played the silver ball
From Soho down to Brighton
I must have played them all
But I ain’t seen nothing like him
In any amusement hall
That deaf, dumb and blind kid
Sure plays a mean pinball
He stands like a statue
Becomes part of the machine
Feeling all the bumpers
Always playing clean
He plays by intuition
The digit counters fall
That deaf, dumb and blind kid
Sure plays a mean pinball
He’s a pinball wizard
There’s got to be a twist
A pinball wizard
He’s got such a supple wrist
How do you think he does it?
(I don’t know)
What makes him so good?
He ain’t got no distractions
Can’t hear those buzzers and bells
Don’t see lights a flashin’
Plays by sense of smell
Always gets a replay
Never tilts at all
That deaf, dumb and blind kid
Sure plays a mean pinball
I thought I was
The Bally table king
But I just handed
My pinball crown to him
Even on my usual table
He can beat my best
His disciples lead him in
And he just does the rest
He’s got crazy flipper fingers
Never seen him fall
That deaf, dumb and blind kid
Sure plays a mean pinball
@ wovoka
Vignoli faceva riferimento questo:
Pinball Wizard
( The Who, “Tommy”)
Ever since I was a young boy
I’ve played the silver ball
From Soho down to Brighton
I must have played them all
But I ain’t seen nothing like him
In any amusement hall
That deaf, dumb and blind kid
Sure plays a mean pinball
He stands like a statue
Becomes part of the machine
Feeling all the bumpers
Always playing clean
He plays by intuition
The digit counters fall
That deaf, dumb and blind kid
Sure plays a mean pinball
He’s a pinball wizard
There’s got to be a twist
A pinball wizard
He’s got such a supple wrist
How do you think he does it?
(I don’t know)
What makes him so good?
He ain’t got no distractions
Can’t hear those buzzers and bells
Don’t see lights a flashin’
Plays by sense of smell
Always gets a replay
Never tilts at all
That deaf, dumb and blind kid
Sure plays a mean pinball
I thought I was
The Bally table king
But I just handed
My pinball crown to him
Even on my usual table
He can beat my best
His disciples lead him in
And he just does the rest
He’s got crazy flipper fingers
Never seen him fall
That deaf, dumb and blind kid
Sure plays a mean pinball
@ wovoka
Vignoli faceva riferimento a questo:
Pinball Wizard ( The Who, “Tommy”)
Ah, interessante. Grazie a entrambi.
Io con i videogiochi ricordo una fase di vera “alienazione”, e pensare che erano quelli abbastanza grezzi del commodore64 (primi anni 80) poi ne sono uscito e, stranamente, quelli più sofisticati dell’Amiga e poi delle varie generazioni di PC non mi hanno mai più preso “nel gioco” (qualcosetta Doom ma anche perché uno poteva crearsi gli scenari e questo mi affascinava) ma soltanto in modalità “contemplativa” (guardar giocare gli altri). Oggi cerco di controllare che mio figlio non ne abusi, con qualche piccolo assaggio da parte mia.
@wovo
siamo figli del game-crash.
quando avevo metti intorno ai quarant’anni e fuggivo dall’incendio della mia vita di allora, giravo Roma di notte giocando a marzianelli nei bar: il massimo di complessità da video-gioco cui potevo accedere allora.
oggi manco quello, penso.
Non sono rimbambito, non fino a questo punto almeno, ma la ripetizione dei commenti è data dal fatto che fino alle 00.50 non era ancora comparso niente. Poi la macchina infernale deve aver deciso di restituire quanto aveva ingurgitato. Va be’. Bella discussione, comunque.