Terra! Felice Piemontese
LE AFASIE DEL SIGNOR P.
di
Felice Piemontese
Il signor P. si è svegliato, una volta tanto, di buon umore. Un importante editore americano gli ha infatti chiesto un racconto da pubblicare nell’antologia che un noto critico, professore ad Harvard, sta preparando per il prossimo anno. La controllata euforia del signor P. è giustificata: lui si guadagna la vita, infatti, lavorando come impiegato (del livello più basso) in una società di navigazione, ma la sua passione è sempre stata la letteratura, e ha pubblicato alcuni libri che hanno anche suscitato un certo interesse nella critica, vendendo però poche centinaia di copie. Per questo il signor P. non sa bene se è giusto che si definisca uno scrittore – pochi in effetti lo considerano tale – o un qualsiasi impiegato del quale, nel migliore dei casi, si giudicano con una certa indulgenza le bizzarrie, in nome appunto della letteratura.
Gli sembra dunque che la richiesta dell’importante editore americano, oltre a dare soddisfazione al suo narcisismo, possa contribuire in maniera decisiva a definire una volta per sempre quello che si può definire il suo status. I libri pubblicati dal signor P. sono usciti infatti, per la maggior parte, presso piccoli editori dall’esistenza precaria e talvolta avventurosa. Falliti dopo qualche tempo, e di cui quindi non resta traccia da nessuna parte. E dunque inesistenti sono anche le opere che questi editori hanno pubblicato.
A complicare ulteriormente le cose, c’è anche il fatto che il signor P., nonostante la sua passione per la letteratura (o forse anche per questo) ha sempre scritto pochissimo. Per anni interi il suo rifiuto della scrittura è totale. Una sorta di paralisi blocca ogni sua velleità e lascia allo stato di ipotesi tutti i progetti che, peraltro numerosi, gli si affollano in testa. Da anni, dunque, le idee di nuove opere nascono e muoiono nella mente del signor P. che di questo soffre parecchio, anche se in certi momenti sembra che, come si dice, se ne sia fatta una ragione.
A che si debba questo fenomeno, il signor P. se l’è chiesto spessissimo, e si è dato anche delle risposte. Una di queste è che avendo negli anni giovanili partecipato a movimenti che si definivano di avanguardia, e che si basavano sul fatto di non accettare la trasformazione dell’arte in una merce simile a qualunque altra merce, non sia mai riuscito a guarire veramente da questa fastidiosa malattia.
Ma c’è anche, ed è forse più importante, una particolare condizione psicologica, che porta il signor P. a identificarsi di volta in volta con questo o quello scrittore, fra i tanti che ogni giorno, ancora oggi, voracemente legge. Ha pensato più volte che una soluzione sarebbe forse quella di imitare uno scrittore portoghese oggi famoso (e costretto a un’oscura vita impiegatizia non meno squallida di quella che egli stesso conduce) che, non riuscendo a scegliere che tipo di autore essere, decise di moltiplicarsi per dieci o venti e di essere nello stesso tempo, e con nomi diversi, scrittore realista, epico, simbolista, nichilista, neoclassico, metafisico, ermetico.
Ma forse, più semplicemente, si tratta solo della mancanza di ciò che una volta si definiva talento.
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Il signor P. decide di uscire per comprare i giornali. E’ un’abitudine antica della quale ha cercato più volte di liberarsi, naturalmente senza riuscirci. I giornali provocano in lui una sorda irritazione. Forse, paradossalmente, di più quei pochi che in parte almeno rispecchiano le sue idee, che tutti gli altri. Però continua a comprarli. L’unica cosa che è riuscito a fare è ridurne il numero, un tempo ne comprava tre o quattro, oggi al massimo due.
Uscire, significa anche, necessariamente, avere un contatto con la città nella quale il signor P. vive. E dunque veder montare dentro di sé attacchi di furore, moti di insofferenza, velenosi sarcasmi. Percorso il vialetto di poche decine di metri che lo mette al riparo dai rumori e dal frastuono, infatti, il signor P. si ritrova subito nella strada che collega al centro della città la zona collinare in cui abita. Ed ecco il solito spettacolo. Mentre un elicottero della polizia volteggia pigramente nel cielo – ci sarà stata poco prima una delle cento o duecento rapine che avvengono ogni giorno – migliaia di automobili sono completamente ferme, in attesa dell’evento miracoloso che all’improvviso consenta di procedere, anche solo di qualche metro. Quasi tutti i guidatori hanno spento i motori e si dedicano a qualche provvisoria attività. Parlano al telefono, per la maggior parte, qualcuno legge, altri chiacchierano, litigano con la persona che è seduta accanto, scrutano il cielo con apatica curiosità, per via dell’elicottero. Quasi tutti sono soli nell’auto. Hanno facce livide o congestionate, furibonde o rassegnate.
Ogni tanto, uno comincia a suonare forsennatamente il clacson, subito imitato da decine di altri, che soltanto dopo un po’ si rendono conto dell’inutilità del gesto, e ne sono forse essi stessi infastiditi. Perciò smettono. Intanto, sui marciapiedi scorrazzano motociclisti e guidatori di motorini, facendo una sorta di slalom tra i rari pedoni terrorizzati o indifferenti, che a loro volta procedono tra cassonetti della spazzatura sventrati, cumuli di rifiuti maleodoranti, mobili abbandonati, specchi e vetri in frantumi, cocci di bottiglia, assorbenti e preservativi usati.
Il signor P., che per un attimo ha avuto la tentazione di allungare la sua passeggiata fino ai giardini pubblici che sono in fondo alla strada, di recente restaurati e di cui hanno subito preso possesso bande di vandali che hanno divelto panchine, sradicato fontane, strappati dal terreno fiori e piante, abbandona subito l’idea pensando al malinconico spettacolo che si troverebbe di fronte.
Pensa che anche questo atteggiamento nei confronti della città in cui da tanti anni abita è un segno di vecchiaia incombente. Un tempo, la selvaggia vitalità degli abitanti lo affascinava, addirittura. Abitava in un quartiere popolare e ci si sentiva a proprio agio. Si muoveva con disinvoltura anche nelle zone più degradate, vicoli affollati di prostitute, strade sconosciute anche ai più esperti, periferie industriali abbandonate che pure avevano un certo, sinistro fascino. Tutto questo gli piaceva, e poi sembrava che qualcosa di straordinario dovesse accadere, anche se nessuno sapeva bene che cosa. Sta di fatto che, con vaghe motivazioni, aveva lasciato cadere tutte le opportunità che pure gli si erano presentate, di trasferirsi altrove, come avevano fatto, ad uno ad uno, quasi tutti i suoi amici.
Il fatto è che sono cambiato io, ma è cambiata anche la città, si dice sconsolato il signor P. e pensa che gli piacerebbe avere la penna avvelenata di quello scrittore austriaco che chiamano l’Imprecatore, da lui preferito ad ogni altro, capace di rovesciare fiumi di contumelie, di sarcasmi, di feroci invettive su luoghi di cui tutti hanno un’immagine idilliaca (“la città, per chi la conosca e conosca i suoi abitanti, è un cimitero delle fantasie e dei desideri, bello in superficie ma in effetti spaventoso sotto questa superficie”; quelli che ci vivono “perseguono le loro stupide caparbietà, insensatezze, ottusità, i loro affari brutali e le loro melanconie, e costituiscono un’inesauribile fonte di reddito per ogni possibile e impossibile genìa di medici e di impresari di pompe funebri”).
L’invettiva, si dice il signor P., è un genere letterario che non ho mai praticato. Lo attira, ma l’ombra dell’Imprecatore lo paralizza. Tanto per cambiare.
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Del resto, si dice il signor P., i giornali non fanno altro che rispecchiare la follia del mondo. E che il mondo sia impazzito gli sembra confermato da quel che legge con impotente furore: ecco un noto editorialista che parla con disinvoltura di “bombardamenti umanitari” e di omicidi “etici”, mentre altri discettano sul fatto che ci sono dittatori buoni e dittatori cattivi, genocidi accettabili e genocidi inaccettabili, stragi che feriscono le coscienze e stragi che le lasciano indifferenti. In maniera ossessiva si fa riferimento ad altissimi e incommensurabili “valori”, che cambiano non appena cambia il proprietario del giornale.
Poche righe sono dedicate al fatto che un’autorevolissima rivista scientifica ha calcolato che siano finora centomila, tra la popolazione civile, le vittime dell’ultima guerra scatenata dall’Impero, naturalmente a beneficio di quella stessa popolazione, che, ingrata, non sembra apprezzar molto la cosa. Un altro trafiletto di poche righe informa che ogni giorno sono uccisi in guerra, qua e là per il mondo, 547 bambini, per la maggior parte proprio in nome degli Incommensurabili Valori. Diecimila, in un anno, sono quelli che muoiono uccisi dalle mine (il giornale tace sul fatto che tra i suoi azionisti vi sono i produttori di quelle mine), venti milioni, in dieci anni, si sono trasformati in profughi che vagano per desolate contrade.
Il signor P. interrompe la lettura con un senso di angoscia. E’ vero, pensa, che già Shakespeare, un bel po’ di tempo fa, parlava di un mondo uscito dai binari. Gli sembra, però, che adesso un’immensa catastrofe sia in atto, e che quasi nessuno se ne accorga.
I ghiacciai dell’Artico si sciolgono, come quelli alpini che a distanza di quasi un secolo fanno tornare alla luce soldati e carriaggi della prima guerra mondiale. Piogge tropicali in agosto e temperature di trenta gradi in dicembre stanno diventando una norma alla quale ci siamo subito abituati. E soprattutto l’odio dell’altro è ormai così profondo da far pensare che non sia più una fantasia l’Esplosione finale, che qualcuno possa vedere nella Bomba la soluzione di ogni problema.
Al signor P. sembra che avrebbe un senso riuscire a parlare di tutto questo, ma che è troppo difficile per chiunque, e più ancora per lui, che sente sempre più vicina la vecchiaia e soprattutto avverte un senso profondo di inutilità per ogni cosa. Ripensa ancora una volta a una frase che ha letto in qualche libro, e su cui ogni tanto torna a riflettere. La frase è questa: “Da un certo punto in là non vi è più ritorno. Questo è il punto da raggiungere”. Con infinita tristezza decide che non scriverà il racconto, e che non manderà nulla all’editore americano.
in “Il racconto napoletano” ed. Oedipus
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Stile! Shot! Splendida mollezza! Bello!
conosco due persone, entrambe sarde, che considero dotate di un grande talento per la scrittura. da mesi e invano chiedo loro con insistenza qualcosa da pubblicare, qui o su riviste cartacee, ed entrambi – che fra l’altro non si conoscono – si rifiutano o prendono tempo promettendo che qualcosa, forse, più in là…come i signor p. di questo bel racconto, in realtà scrivono pochissimo, magari perché sono anche loro consapevoli che quel punto di non ritorno è difficilissimo da raggiungere, e se non arrivi lì non vale neppure la pena scrivere. ci provano, certo, buttano giù idee, spunti interessanti, ma non partoriscono nulla che li soddisfi pienamente. sono degli esperti di raschiamenti, aborti spontanei, gravidanze isteriche, forse perché, come il pasolini-giotto del “decamerone”, preferiscono sognare un’opera piuttosto che metterla al mondo.
bello, mi è piaciuto.
Scrittura e passeggiata hanno uno strano e splendido rapporto. Mi ha fatto ricordare in alcuni punti proprio Walser e la sua camminata lenta e interessata a ogni minimo particolare della strada.
E con la calma dei passeggiatori non posso fare a meno di pensare che comununqe le scritture pensate e mai realizzate brillino di una bellezza intensa perchè irripetibili. Sono a tiratura limitata, molto limitata. Libri lunghissimi nati e dissolti nel tempo di un passo dietro l’altro. Una cosa è certa dopo la lettura di questo racconto: il Signor P. è così vero che quasi mi pare di vederlo.