On the road
di Mario Pandiani
Parto alle sei e un quarto, affrontare quell’autostrada lastricata di tangenti, neanche per una velina su un piatto di seta, fossi un calciatore. Ma per Madeleine Peyroux sì? E chi cazzo è? Mio fratello mi dice, “Non vieni per McCoy Tyner e vieni per una sciacquetta qualsiasi?”. Ho ascoltato le sue canzoni, alcune in loop per ore, è un sistema sanguinoso ma infallibile per sterminare i parassiti; le piattole dello show biz cadono inesorabilmente dopo una ventina di minuti, lei no. Devo sapere, devo capire se quella voce in cui vivono alcune imperatrici è costruita alla Berkeley school of music oppure se è sua. Ecco, mi infilo in quel budello gestito dal gotha della merda piemontese e cammino a centoquaranta, voglio vederlo dall’inizio il concerto. Alle sette e mezza sono in coda a Novara est; un’ora e mezza fino allo svincolo per viale Certosa. Il conto è presto fatto; sono in ritardo. Telefonate concitate con Sergio, che gli offrivo l’ingresso gratis (si, Herbie Hancock ha avuto una storia con mia madre, non mi ha mai riconosciuto, ma mi offre delle facilities).
Miracolosamente da viale Certosa al Blue Note, la mecca del jazz, in cinque minuti, trovo posteggio dietro l’angolo; com’è cambiata Milano. Mi fiondo alla biglietteria, sfodero le credenziali ed entro accompagnato da due hostess in minigonna, luci accese e Garufi mi aspetta con un Negroni bello servito al tavolo riservato. Entrano i musicisti, lei non è certo una velina, una culona direbbe Jack Lemmon prima di innamorarsene, ma prima guardiamoci intorno, vediamo il locale; alcuni lo trovano caro. Un locale di classe, la musica si sente benissimo senza volumi esasperati, chiunque ascolti concerti in Italia sa cosa voglio dire, i tecnici del suono sono cervelli che non fuggono all’estero purtroppo, questo sarà americano. Un locale a elevato tenore di riccastri, alcuni umani, come quello di fianco a noi, se lo gode lui il concerto, dobbiamo legarlo alla sedia o se ne vola via. Davanti a noi una montagna di merda, una ventina tra coglioni in tasmanian gessato e Tod’z e scorfanelle vestite Prada. Gozzovigliano a crostacei e vini da ottanta euro a botta. A fianco, poco distante, un bel mammifero modello 103 che lascia ammirato Sergio, io le do le spalle; disciplina, non sei qui per giocare. Devo ringraziare a questo punto gli amministratori del Blue Note, mi emoziona stare nel letame quando c’è una perla sul palco. In fondo è la stessa fauna di ricconi che scendevano ad Harlem per sentire il Duca, Bird o Lady Day. Le sensazioni sono le medesime di quando frequentavo il Minton’s e il Birdland; rumore di bicchieri e piatti e mormorio mentre gli dei ci elargivano sangue. Dirò al boss del B.N. di far aprire una finestrella come quella dell’omonimo club di Parigi, quella da cui Francis Paudras ascoltava Dale Turner sotto la pioggia.
Comincia il concerto; primo set.
Il tastierista ha una faccia che Forrest Gump avrebbe volentieri sfasciato a cazzotti, cerco di andare sul palco a strappargli di mano quell’Hammond C4 che spalma un effetto vetril sul ritmo, Sergio mi tiene per la maglia. Quando però questo stronzo mette le dita sul pianoforte mi ricredo, è magico, disegna, non esibisce tecnica, costruisce dei tessuti e un responsorio cromatico alle note su cui scivola la voce di Madeleine. Dall’altro lato c’è… sì, è lui, so chi è, è Michele, quello del Glen Grant, l’esperto di whisky, occhialetti e capelli pettinati alla John Kennedy Junior, chitarra Gibson semiacustica gialla fiammante, se non con il bicchiere posso centrarlo con un cubetto di ghiaccio. Attacca un solo e tira fuori da quella Maserati carrozzata Giugiaro una linea melodica fantastica e languida; si spende emotivamente l’asse da stiro e dopo avermi inchiodato alla sedia con una tempesta emotiva ne esce senza essersi sgualcito una sola piega dell’elegante completo nero. Il batterista sembra Steve Buscemi da bambino, nevrotico e incerto fa il suo lavoro da batterista blues in modo impeccabile, mai avanti, mai disattento, colora tutto con le spazzole, uno che apprezzi, un buon soldato. il bassista idem, l’understatement più completo e una pertinenza eccellente nell’accompagnamento, brillante nei soli. Lei canta in modo diverso dai dischi, ero venuto per appurarlo.
Fine del primo set, se avessi speso 45 euri per un’ora mi sarei incazzato. Sergio vuole mangiare ma lo tengo al tavolo, deve fumare, esce e rientra senza ostacoli finita la dose. Ci intratteniamo per un’oretta disturbati dalle gozzoviglie del consiglio di amministrazione che si è ritrovato a cena per festeggiare i nuovi licenziamenti. La sventolona ogni tanto si alza e ci passa davanti scardinando l’ordine delle sedie e delle nostre priorità. La conversazione è amabile, per non esserci mai parlati prima d’ora è come se ci conoscessimo dalla guerra; cattivo sangue non mente.
Parliamo dei commenti al suo post e conveniamo che stare pressati come aringhe sotto la pioggia in uno stadio cileno per trenta euro a sentire Bob Dylan o un’altra voce di bilancio di una major statunitense sarebbe decisamente peggio. Rientrano, il concime se ne va poco dopo e la visuale migliora, l’aria è più rilassata, i pezzi sono meno eseguiti, lei si lascia più andare. Canta bene. L’affiche dice: La cantante jazz Madeleine Peyroux. Nulla di più sbagliato, la sua anima è nel metro di Parigi, per strada, è goffa, non è vestita da sera come le pollastre che imitano le star straziando gli standard con gorgheggi imparati a scuola, è cresciuta ascoltando la musica sulle ginocchia della tata di colore.
“Tutti in Georgia hanno una tata di colore” (Macché canadese…), me l’ha detto Ray Charles quella volta che ha annullato il recital per via della segregazione razziale lì in Georgia. Io ero in coda alle transenne, lui si è fermato e mi ha detto “E’ quello che li salverà, avere una tata nera”, infatti la segregazione l’hanno tolta e Giorgia on my mind è diventato l’inno dello stato, e hanno continuato a fargli il culo tale e quale a prima. In cantina la tata cantava i blues e la piccola Madeleine batteva le mani, quando ebbe una radiolina prese a sintonizzarsi sulle radio country, jazz e blues, in America ci sono queste radio, in questo l’America è democratica.
Piccole donne crescono: parte per Parigi e va a cantare per strada, in metro. Fa un disco e sono tutti entusiasti, sparisce di nuovo, ne fa un altro, idem e adesso è un cult, se l’è guadagnato, se non se la mangiano con le royalties. In quella voce in cui la grazia non ha trovato un posto, ha preso la residenza, si sente bene la provvisorietà di una nota, gioca sulla stonatura e sulla flessione in modo delizioso, non esibito, ma la ragazza ha carattere, è impacciata in mezzo a due quarterback musicali, ma dirige lei. Non è per nulla timida, perfettamente consapevole che le corde del mio cuore è lei a gestirle. Del resto del pubblico chissenefotte, è venuta dalla Georgia per me e io da Torino per lei.
Dalle nove all’una va bene, l’intervallo in mezzo ci sta, riascoltarla mi conferma che è bravissima. Non c’è un pezzo cantato allo stesso modo, l’esecuzione strumentale è un po’ rigida, ma non è musica troppo scritta e la qualità si fa perdonare tante cose. Per ultima, dopo il bis, arriva quella che aspettavo: J’ai Deux Amours, la canzone che mi fece spendere gli ultimi franchi per una bottiglia di champagne, uscito dal récital di Josephine Baker all’Olympia nel ‘47.
É un concerto che mi ha commosso, quello che volevo sentire, concessioni ce ne sono, certo, il locale di classe, gli orari, i musicisti professionisti. E’ imperfetto dunque buono, è da queste imperfezioni, contrasti, ossimori del cazzo che ho ricevuto la musica che amo di più. Tornando a casa l’autostrada è vuota, non c’è nebbia e non piove più, ripenso a quella voce e la amo, come ho sempre amato una donna sincera, una donna che non si inzacchera qualunque ambiente attraversi.
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Mi è piaciuto molto il tuo raccontare, e sì, trovo che stare nel letame per ascoltare una perla sia una ragione validissima, a volte.
Scrive Pandiani
“Parliamo dei commenti al suo post e conveniamo che stare pressati come aringhe sotto la pioggia in uno stadio cileno per trenta euro a sentire Bob Dylan o un’altra voce di bilancio di una major statunitense sarebbe decisamente peggio.”
Hahahahahahahahahahahhahahahahahhahahahahahahhahahahahahaahahahahahahahahaahahahahahah!!!!!!
Ci hai proprio quello che ti meriti!
Hahahahahahahahhaha!
“n’altra voce di bilancio di una major statunitense”
Hahahahahahahahhahahahahaha!
Pandia’, ti puoi ancora salvare: la prossima volta vieni con me a sentire Springsteen che ti presento qualche ragazza non vestita da diavolessa prada, e bella dentro, invece di fare l’occhio a fisarmonica insieme a Sergio e i suoi scontatissimi (non nel senso del prezzo ovviamente) negroni…
Ce la fai ancora a ballare per tre ore di fila? Ce la fai a svegliarti presto per stare attaccato alla transenna?
Hahahhahahahahahahhah!
Che 2 lenze!
Era un “negroni sbagliato”, brut invece del gin, dovevo tornare in macchina, ma cosa non sarebbe scontato, un più trendy mohito? io bevevo negroni quando tu ascoltavi lo zecchino d’oro.
Ma sei forte, è mai possibile che se uno se ne sta lì, si apprezza una poesia in santa pace gli devi tirare in testa Guerra e pace?
Springsteen sarà sicuramente il boss, ma non il mio, lavoro in proprio da troppo tempo, non va bene per me la fiat del rock.
Di ragazze belle dentro, sai, se ne incontrano anche a sentire Boccelli e al Blue Note sicuramente ce n’era una sul palco, ma se paghi tu i trenta denari per ballare tre ore a un concerto ci sto, ci penso io a non farti fare la fila alle transenne, ma meglio se suonano dei negri.
Sei forte và, dovevi vederci, eravamo proprio ganzi, Sergio e me.
che dire, piacere, gusto, usufrutto dell’arte.
e quel sapore, al posto delle scariche d’adrenalina che si lasciano ad altri.
bel pezzo.
Comunque qui si resta ancorati all’aneddotica mentre la musica continua a latitare.