L’impronunciabile parola “avanguardia” (1)
di Andrea Inglese
La discussione
Eravamo in parecchia a tavola, quasi tutti poeti, con un vino sciolto un po’ acido, e i soliti portacenere stracolmi. Io, durante una pausa di silenzio, ho detto: “Certo che anche l’avanguardia è …”. Poi ho avuto un accesso di tosse, e ho smarrito il predicato nominale, e anche la consistenza del giudizio che stavo formulando. Nel frattempo però era calata un’aria di piombo. La gente cominciava a guardarsi in cagnesco. Un paio si alzarono da tavola e andarono a pagare, alla romana. Quello vicino a me, un poeta di esperienza, scrollò le spalle e disse: “Intanto, l’avanguardia non è mai esistita”.
Nel frattempo le brocchette di vino erano state spostate su di una seggiola libera, e un gruppo vociante si era radunato intorno ad un paio di dizionari sbattuti a centro tavola. “Silenzio”, gridò qualcuno, “si consulta!” Un sottogruppo più minuzioso sfoderò manuali di letteratura da un chilo e mezzo, comprati a prezzo intero. I più sereni e determinati sventolavano sotto il naso altrui fitti fascicoli artigianalmente rilegati di bibliografie critiche. Poi fu il momento della commozione. Un poeta giovane, con i capelli lunghi e spettinati, estrasse dalla borsa di cuoio un bel po’ di santini. Erano massicci e dorati e lui li posò sul tavolo senza fiatare. Ne riprese uno in mano, gli alitò sopra, e col risvolto del maglione sfregò da un lato e dall’altro. Lo rimise a posto che scintillava come nuovo. Era il santino di Rimbaud, o di Mallarmé. Non ricordo più. Si assomigliavano parecchio. “Prima che la discussione inizi”, disse il più anziano e autorevole, “formiamo le squadre”. I “Detrattori Totali” si fasciarono il braccio di nero, gli “Ortodossi Per Sempre”, calzarono sul capo una bandana arancione, gli “Ortodossi A Metà” erano in due e si riconoscevano a colpo d’occhio, i “Tiepidi Ma Interessati” si arrotolarono i pantaloni alle caviglie. Insomma, l’atmosfera non era dissimile da quella che respiravo in Italia in tali occasioni. Tutti volevano assicurarsi prima che la discussione iniziasse che ognuno avesse deciso da che parte stare, in modo che già prima di discutere fosse chiaro con chi ci si poteva accordare e con chi no. Una volta compiuto questo smistamento preventivo, contabilizzate presenze e appartenenze, tutti quanti eravamo così stremati che pagammo il vino e ci salutammo, alternando ringhi e sorrisi a seconda dei segni distintivi che ognuno esibiva.
La ricerca seria
Mentre mi dirigevo solitario verso la metropolitana, ormai allontanatomi dal bistrò, mi raggiunse uno dei poeti presenti alla discussione. Un personaggio fine e distinto, di quelli piuttosto taciturni, che parlano solo attraverso editoriali solenni, introduzioni ad antologie, conduzioni televisive in terza serata di programmi culturali di nicchia. Mi prese sottobraccio e mi disse: “Lei ha delle potenzialità. Io l’ho capito subito, anche se non ha concluso la sua frase. Ma mi dica, come mai questa provocazione raffinata e, nel contempo, populista? Lei ha reperito dei materiali poco conosciuti, delle lettere inedite di Barthes, ha lavorato sui quei tre numeri della rivista “Garde-fou” ormai introvabili? Sa, io coordino un gruppo di lavoro, tutta gente giovane, addottorata, senza lavoro fisso ovviamente. Stiamo lavorando sull’uso delle comunicazioni telefoniche tra i membri delle avanguardie europee negli anni Cinquanta. Un territorio vergine, interessantissimo, probabilmente decisivo. Certo, ci mancano i tabulati, ci basiamo su impressioni fugaci, appunti di agenda, ricordi, ma è in questi frangenti che il lavoro filologico si fa più pericoloso e assiduo, mi capisce?”
Non mi lasciò rispondere. E riprese: “Guardi, la capisco benissimo… Queste discussioni inutili, tutte viscerali, meschine, patriottiche, approssimative… Non portano a niente. C’è tanto fare e tanto da leggere. Inutile parlare, pretendere di giudicare, di esprimersi. Tanti territori secondari, interstizi, vicoli ciechi, angolini, su cui silenziosamente e solitari grattare. Questo davvero conta.”
Stringendomi il braccio con le dita a pinza, mi lasciò velocemente, non prima di aver estratto un suo biglietto da visita.
Volli comunque replicare. Spiegarmi. Lo feci, ma sedendo su una panchina e rivolgendomi ad un tizio accovacciato a terra. Era una di quelle persone che vivono per strada, sdraiati spesso sui cartoni. Che hanno sempre la faccia gonfia e mezzo nascosta da berretti di lana, o affondata dentro risvolti laceri di cappotti. Oppure non hanno né berretti né cappotti, ma una specie di nube aleggiante intorno al volto, che glielo sfuoca.
Il fantasma
L’avanguardia è roba museale, certo, roba da settoriali ricerche accademiche, o da commemorazioni, o da vecchi rancori e anatemi, comunque roba obsoleta. Inoltre, è roba brevettata. Non ne puoi parlare così, con disinvoltura, per necessità personale. Ci sono i Comitati Scientifici del Discorso sulle Avanguardie. Gente infiltrata ovunque. Appena vengono a sapere che ne parli, senza bibliografia esaustiva in una mano, e manualistica autorevole nell’altra, iniziano a ridacchiare da ogni angolo. Ridacchiano e ridacchiano. Hanno un sacco di fedeli, che sono assunti per ridacchiare con loro, a tempo. E a forza di sentire il loro ridacchiamento, ti confondi, e perdi il filo dei tuoi pensieri. E solo quando sono sicuri che hai rinunciato al tuo imperfetto, improvvisato, rozzo pensiero, alla tua miserabile doxa, loro si quietano e tornano ad essere la gente seria che tutti conosciamo.
Ma anche se l’avanguardia è obsoleta, il suo fantasma continua ad abitarmi. Si manifesta in questo modo: appena scrivo un verso, o leggo un rigo di un’opera letteraria, o faccio un ragionamento intorno a quanto ho letto, una voce si fa sentire e dice: “Tu che leggi e che scrivi, devi leggere e scrivere per comprendere quello che sta accadendo nel mondo, e quel poco che hai compreso di quanto accade nel mondo tu devi poterlo scrivere, e devi poterlo scrivere in modo che le tue parole abbiano incidenza su quanto accade nel mondo, mostrando che quel mondo che hai visto e compreso non può essere il mondo per cui scrivi.” Il fantasma dell’avanguardia mi dice che devo scrivere, ma non per questo mondo. Mi dice, anzi, che avendo capito che tipo di mondo è questo, non posso scrivere che per l’altro mondo. È un fantasma che porta in sé grande risentimento, e volontà ascetica, e una notevole dose d’impotenza.
L’idea di essere portatori di un altro mondo, anche se solo attraverso la propria scrittura, e non attraverso tutta la propria anima, è qualcosa di eccitante, di rassicurante, e che infonde un sentimento di indistruttibile superiorità. (C’è, detto di passaggio, una certa analogia tra i cristiani e il loro mondo ultraterreno, e gli scrittori avanguardisti, che scrivono per un altro mondo.) Tutto il problema sta a definire quest’altro mondo, e capire, eventualmente, chi potrebbe esserne interessato. A chi di questo nostro mondo frega di leggere qualcosa scritta per un altro mondo?
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forte (e fortiniano, direi) !
;-)
Fortiniano? Io direi “leopardiano”. L’unico modo per affrontare la “questione” è proprio la metaforizzazione della materia in volute piane, tra il sarcastico e il surreale, da operetta morale. Chi sa mai, però, se i partecipanti alla discussione avvinazzata, soprattutto alcuni di loro, si sono mai resi conto di essere impantanati nel guado: sospesi, senza possibilità di uscirne, tra il patetico e il ridicolo.
Ma forse A.I. ce lo dirà nella seconda parte. Aspettiamo con fiducia.
“…mostrando che quel mondo che hai visto e compreso non può essere il mondo per cui scrivi.”
forse potresti sciogliere un po’ di più questa proposizione, ingles.
magari dire che significa e cosa c’entra con l’avanguardia.
eccetera.
(sempre che ti interessi essere compreso – ma sovente all’avanguardista non cale: 6 un avanguardista?)
Se si fa azione politica, va bene.
e sì, tasthego ha ragione. come per ‘letteratura politica’, ‘politica e letteratura’, ‘politica culturale’, ‘tradizione’, ‘moderno’, quella di ‘avanguardia’ è parola tanto scivolosa che l’insoddisfazione per eventuali definizioni è proprio costante, fatale. eppure un po’ di chiarezza andrebbe fatta. aspettiamo la puntata successiva.
ma è @ marco che ha fatto centro! QUESTO inglese è fortini, una lettera agli amici piacentini quarant’anni dopo! va bene, anche un’operetta morale (si sa, fortini lo leggeva per davvero leopardi). taglio inedito per fare critica, non accademico, ovviamente, ma nemmeno la divagazione stucchevole del critico pavone (pieno, di “…” e di strizzate d’occhio che ti viene da dire, come per un altro caso: spostati, fammi vedere il testo e la questione di cui parli). daniele balicco (il manifesto libri) ha scritto un saggio potente sul nostro (non sarebbe male parlarne qui su NI, magari proprio con lui).
ma fortini torna anche, mi pare, non solo nello ‘stile’ e nel piglio del post, ma tra i contenuti di quesa resa dei conti personale, provvisoria messa a punto (anzitutto per inglese stesso) delle riflessioni sulla poesia. e allora, @andrea, mi e ti chiedo, il senso fortiniano di poesia come utopia obliqua e straniante (scrivere ‘per l’altro mondo’, liberato, giusto) è davvero accostabile anche solo nominalmente alla ‘avanguardia’? c’è brecht, ci sono i ‘classici’, la ‘tradizione’, al massimo le revisioni intorno al surrealismo, nel suo pensiero poetico. anche questa ‘linea’ va rubricata sotto il nome di ‘avanguardia’? dove c’è tutto e il suo contrario?
come dici, tutto sta a chiedersi perchè si ‘scelgono’ certi poeti, e non altri… (qui ci vogliono, i puntini). un abbraccio f.
etimo di avanguardia: parte anteriore di un esercito
parte anteriore che non sempre è così coraggiosa da farsi ammazzare per prima, anzi il più delle volte vi è obbligata.
detto questo, ora bisognerebbe stabilire ancora esattamente chi sarebbe quel nemico che l’avanguardia poetica dovrebbe fronteggiare “coraggiosamente” .
a mio parere si rischia di rimanere vittime del fuoco amico.
un saluto
paola
correzione:
ora bisognerebbe stabilire ancora esattamente chi SIA quel nemico e non SAREBBE
aggiunta: e provassimo a chiamarla “di retroguardia?”
in questo caso, disincagliandola, tra il serio e l’ironico, un poco dall’etimologia (ma nemmeno tanto), se vale che la poesia è solo escremento, la parola ci sta
> L’idea di essere portatori di un altro mondo, anche se solo attraverso la propria scrittura, e non attraverso tutta la propria anima, è qualcosa di eccitante, di rassicurante, e che infonde un sentimento di indistruttibile superiorità.
Ecco, bruder, l’hai detto.
> A chi di questo nostro mondo frega di leggere qualcosa scritta per un altro mondo?
Essenzialmente (escludendo morose e morosi) a chi è a sua volta interessato alla medesima idea, quella cioé di essere portatore di un altro mondo.
(ah, escludendo anche quelli che se ne devono occupare per mestiere).
-“A chi di questo mondo frega di leggere qualcosa scritta per un altro mondo?”
A CHIUNQUE GIURI DI NON ACCONTENTARSI MAI DI UN MONDO COME QUESTO.
O LA RIVOLUZIONE O LA MORTE.
Eccitanti pensieri su mondi questi ed altri!
-”A chi di questo mondo frega di leggere qualcosa scritta per un altro mondo”
Eccitante domanda!
Ovvero, anche godere è un problema, e si fa come si può.
Ovviamente con molta simpatia e con tutto il rispetto di cui un vecchio borghese è capace.
GREAT!!!
ps
il santino di Rimbaud è un tocco raffinato… :-)
a tash,
sciolgo, sciolgo, ma a puntate e nel mio modo, senno’ caro tash, ritorniamo ai manuali: dove c’è scritto tutto quello che SI deve saper sull’avanguardia…
Aspetto il seguito.
Inglese,
è vero che i consigli sono come le caramelle,
nel senso che non vanno mai ascoltati
se a offrirceli sono degli sconosciuti,
ma io te ne lascio lo stesso uno
(è il mio mestiere, in fondo):
guardati bene dal fare nomi,
nelle prossime puntate,
o qui volano,
oltre agli stracci,
anche dentiere,
parrucche,
testamenti,
barattoli di latte in polvere
e
omogeneizzati.
Lazzaro Visconti Pera
La prova del nove (anche dalle osservazioni di fm): ed essere assolutamente moderni significa essere portatori di un altro mondo?
caro fabio, primo spero tu abbia ricevuto mie nuove, secundo, penso che le differenze tra Fortini e l’avanguardia restano quelle che erano, e per dei buoni motivi, ma al seguito…
Le poetesse c’erano?
Potesse? Ma non scherziamo nemmeno, cara rosa dei venti. Quella dell’avanguardia è una questione “maschia”, non si discute.
Salvo a scoprire, poi, che gli unici “prodotti” notevoli di quella stagione sono opera di donne…
Lazzaro Visconti Pera
Potesse o “poetesse”?
“Al fine di liberare la parola dal controllo della ragione i futuristi russi ricorsero alla filologia. Penetrando in strati linguistici sempre più profondi essi cercarono l’essenza del linguaggio e la parola in sé. Le parole sconosciute sorgevano come lava messa in movimento dalla prelingua. Le parole liberate dal concetto e cariche del potere magico scatenavano la scarica emotiva di cui parla Breton nel Secondo manifesto del surrealismo.
La filologia apriva ai futuristi russi le porte delle civiltà scomparse. E da questo provengono il loro senso della storia e la loro passione per l’etnografia che, sul terreno filosofico, diventavano problemi del tempo e dello spazio e, sul piano poetico, atttrazione della civiltà moderna per l’età della pietra, del Nord per il Sud, della Siberia per l’Egitto, dello Sciamano per Venere.”
Preso a caso da un vecchio manuale:
Benjamin Goriely, Le avanguardie letterarie in Europa, Feltrinelli, 1967.
Ho un sacco di libri vecchi, lo ammetto. Ne è passata di acqua sotto i ponti. Quella forza dirompente, che giustificava poesie come quelle di dada e apriva nuovi campi al sapere umanistico, si è spenta, le post-avanguardie sono utopicamente depotenziate, sono sintomatiche.
Il problema dell’avanguardia è enorme nella cultura contemporanea. Sempliecemente perchè non è davvero affrontato. Solo uno sguardo all’indietro: filologia. Andrea lo ha introdotto benissimo con l’ironico riferimento alla ricostruzione delle telefonate di piu di mezzo secolo fa.
Il problema è un mostro con due teste:
Da una parte si è vittime di una cultura esclusivamente contemporanea, stream direi. Pensare oggi senza dimenticare cosa si é fatto ieri é rarissimo e spesso molto difficile.
Viceversa, avanguardia, la nostra, per chi è interessato a vivere nel suo mondo e a pensare come muovercisi, proprio perché nostra non ha da seguire le indicazioni di chi se ne è occupato in passato.
io credo che se si riesce a slegare (e a slegarsi) l’avanguardia dal suo ambiente originario, una Storia a flusso univoco in cui reale e razionale coincidono, si possa aprire non uno, ma molti modi diversi di pensare e scrivere e agire.
A patto di riuscire a non pronunciare l’aggettivo “storiche” quando si dice avanguardia
Mi piace molto che Andrea qui ne parli in forma narrativa ironica, molto gustosa tra l’altro, e non illustrandone una teoria
Mattia scrive:
“io credo che se si riesce a slegare (e a slegarsi) l’avanguardia dal suo ambiente originario, una Storia a flusso univoco in cui reale e razionale coincidono, si possa aprire non uno, ma molti modi diversi di pensare e scrivere e agire.”
Anch’io lo credo, e credo che ognuno, muovendo dal suo specifico presente e della sua pratica, possa compiere un percorso all’indietro, ma non nel senso del flusso compatto e ufficializzato, ma nel senso del vagabondaggio benjaminiano o da sbronza tenue, aprendo diramazioni impreviste…
Andrea
spieghi meglio l’idea di pecorso all’indietro? io, istintivamente guarderei solo avanti…
Di questo pezzo il concetto che apprezzo di più è : il suo fantasma continua ad abitarmi. Adesso bisognerebbe scrivere del fantasma.
[…] un intervento apparso su Per Critica Futura n° 3 e che riprende una riflessione già avviata su NI qui, qui e qui. A. […]