Due interviste a Philippe Forest
di Linnio Accorroni
Pauline
Ho avuto il privilegio di intervistare per ‘Stilos’ due volte, nel giro di poco più di un anno, Philippe Forest, autore di due fra i più intensi e sconvolgenti (mi piacerebbe che questa parola, a dispetto dell’abuso, conservasse in questo caso almeno un po’ della sua forza semantica originale) romanzi degli ultimi anni: Tutti i bambini tranne uno e Per tutta la notte, entrambi pubblicati da Alet. Ho pensato di riunire in un unico ‘pezzo’ le due interviste, stante anche la indiscutibile contiguità delle due opere.
È Ivan, in uno dei passi più celebri e discussi de I fratelli Karamazov, a dichiarare la propria indisponibilità ad accettare la felicità eterna del Paradiso, se “il biglietto d’ingresso” che va pagato è quello delle lacrime di un solo bambino. Alla fine della lettura di questi romanzi di Philippe Forest, vien la voglia di unirsi alla radicalità della protesta del più intellettuale dei Karamazov e restituire il biglietto. Più volte, durante la lettura, si vorrebbe distogliere lo sguardo dalla crudezza delle immagini e delle situazioni narrate che sanno di dolore come poche altre, come se, allontanandoci da quelle righe, il non-scritto (e il non-letto, quindi) potesse essere riassorbito, rientrare miracolosamente nella sfera del non-mai avvenuto. Si vorrebbe che Pauline, suo padre e sua madre fossero solo personaggi finzionali, “romanzeschi”, appunto, di pura invenzione, la cui vicenda umana reale poco ha a che spartire con la verosimiglianza della storia narrata. Si vorrebbe che un colpo di scena, un intervento di qualche inverosimile e assurdo deus ex machina sparigliasse la crudele necessarietà degli eventi e Pauline tornasse a indossare lo zaino per andare a scuola. Ma così non è, purtroppo. Lo scrittore francese, grande esperto di letteratura giapponese, saggista le cui opere di teoria letteraria sono state tradotte in Italia da Holden Maps-Bur, per raccontare la morte per una rarissima forma di cancro alle ossa di suo figlia Pauline, di soli quattro anni, ha scelto la forma romanzo, evitando però le secche dell’autocompatimento vittimistico e le viscosità di tanta paccottiglia romantica, che sembrano aderire consustanzialmente alla trattazione di una materia siffatta. La cronaca di questa tragedia viene refertata con lucida consapevolezza, con la coscienza di chi sa che, di fronte a questo “scandalo che fa tacere ogni metafisica, al cui confronto qualsiasi dramma assume movenze da abile minuetto” ogni deriva consolatoria pare insensata e folle. La scrittura appare incapace di poter assumere una qualsivoglia valenza salvifica o terapeutica perché, di fronte alla esperienza di una tragedia siffatta, “le parole non danno alcun soccorso”. Questa è stata la mia prima intervista con lui, uscita su Stilos del 5 luglio 2005 in occasione della pubblicazione del suo primo romanzo.
Titolo originale dell’opera in francese è L’enfant éternel che in italiano viene stravolto in Tutti i bambini tranne uno, espressione ripresa da quel Peter Pan di James Barrie, le cui citazioni contrappuntano la voce monologante dell’io narrante. Che cosa pensa di questa scelta editoriale? Che cosa si è perso, o guadagnato, rispetto al titolo originale?
Quando ho proposto il manoscritto al mio editore francese, il mio romanzo aveva questi due titoli tra i quali esitavo. Gallimard ha preferito: Il bambino eterno, che è un’espressione di Mallarmé tratta della poesia che aveva consacrato alla morte
di suo figlio, Anatole. Mi sono accorto che tale titolo si prestava molto a un’idea sbagliata. La critica lo ha a volte inteso con il significato che la letteratura, la poesia, il romanzo permettono di trionfare sulla morte, di conferire a un bambino scomparso una sorta di immortalità, trasformandolo in un personaggio letterario e aprendogli così una strada verso i posteri. Io non credo per niente a tutto ciò e proprio nel mio romanzo provo a demolire e demistificare tali concezioni religiose di salvezza attraverso la letteratura. Nell’esistenza c’è un risvolto tragico che è irriducibile. È per questo che preferisco il titolo in italiano. Insiste sul carattere singolare (uno solo), solitario e dunque scandaloso dell’esperienza che costituisce la morte di un bambino. E inoltre, attraverso il riferimento a Peter Pan, collega il mio libro all’universo dell’infanzia e al mondo delle fate. Scrivere, resta pur sempre come dire: “C’era una volta…”.
Il libro dettaglia un percorso esistenziale straziante e disperato (la morte per cancro di una bambina di quattro anni) senza però essere mai contagiato dalla ‘pornografia’ dell’ostentazione sentimentale, dalla catastrofe emotiva dell’autocompatimento che sempre è in agguato quando si ha a che fare con una materia similare. Come è riuscito a evitare il contatto rovinoso con quello che lei stesso definisce come “lo scoglio del pathos”?
Mi è difficile rispondere alla sua domanda. Posso solo dire che sono felice dell’impressione che lei esprime. Occorre lottare contro il sentimentalismo attuale che trasforma la sofferenza in un oggetto di speculazione e la trasforma in uno spettacolo – uno spettacolo stupido ma proficuo, e anche ignobile. Se il mio libro raggiunge tale risultato, credo che sia a causa della sua violenza e del suo rifiuto ostinato di dare un senso (cioè di giustificare, recuperare) allo scandalo della morte. Occorre accettare l’emozione e il sentimento che sono da sempre gli elementi irrinunciabili della creazione artistica ma rifiutarsi di forzarli dentro una dimostrazione religiosa, morale e psicologica che alla fine reintroduce un senso proprio dove qualsiasi significato crolla, inabissandosi. Viviamo sotto il regno televisivo dell’ “happy end” e anche i finali drammatici sono, in un certo modo, conclusioni positive. La stranezza è che occorre accettare l’esperienza del disastro per toccare il senso vero della gioia e dell’amore, restando, ciononostante, perfettamente allineati alla lezione del lutto. Ricordiamo le parole di Faulkner: “Tra il dispiacere e il nulla, io scelgo il dispiacere”. Contro l’ottimismo vuoto e mistificatore del nichilismo attuale, occorre scegliere il dispiacere ed è questa la condizione che, paradossalmente, ci dà i mezzi per sopravvivere.
Tutto il decorso della malattia viene narrato senza alcuni infingimento o omissione, senza mai togliere lo sguardo anche di fronte agli eventi più terribili e dolorosi, una specie di iperrealismo narrativo, tanto che chi legge deve superare spesso la tentazione di abbandonare il testo perché prostrato da tanto dolore e sofferenza. L’io che narra dà quasi la sensazione che tale esplicitezza senza autocensure sia necessaria per dar fondo alla disperazione di questo calvario esistenziale.
Il romanzo è realistico. È la sua definizione. È il suo onore e la sua giustificazione. Per riprendere le parole di Georges Bataille, io scrivo i romanzi “in odio alla poesia”. Perché la poesia è menzogna quando pretende di mascherare con belle apparenze l’orrore di vivere. Non ho nulla da rimproverare ai lettori che si distolgono dai miei libri perché li trovano insopportabili. Posso solo ricordare loro che ciò che trovano insopportabile in libri come il mio, per migliaia, milioni di individui – e un giorno loro stessi saranno fra loro – va obbligatoriamente sopportato nella vera vita. La stranezza, lo ripeto ma non riesco a spiegarlo, è che ciò che l’esperienza umana ha di più ricco, gratificante e profondo si trova proprio sul versante delle vicende insopportabili. Il romanzo deve parlare della vita così com’è: reale, inintelligibile e di cui non si potranno mai avere spiegazioni.
La discesa verso gli abissi di questa “commedia”, dall’idillio iniziale all’inferno delle ultime pagine, non pregiudica però la possibilità di osservare, come in un trattato di sociologia contemporanea, anche alcune peculiarità della società postmoderna: vedasi le riflessioni su malattia e mass-media, sulle strutture ospedaliere, sulla deontologia dell’insegnamento, sulle istituzioni totali, sull’elaborazione del lutto etc…
È in questi casi che si trova la dimensione realistica e anche impegnata del mio libro. Il nichilismo, spiega il filosofo Heidegger, è il non pensiero del nulla. Si basa sulla dimenticanza, sulla censura della morte. Nessuno vuole più sapere nulla di ciò che capita a un essere umano nella sua relazione con l’irreparabile. L’ospedale è un luogo d’osservazione insostituibile a tale riguardo. Tutto il pensiero dominante – in particolare quello di una certa psicologia positiva all’americana – tende a cancellare dalla nostra coscienza tale realtà. Il mio romanzo parte in guerra contro tale pensiero dominante. Lo prende in giro. È ciò che costituisce il carattere comico – inatteso – della mia opinione. Di fronte alla menzogna, occorre ridere. Il romanzo suggerisce questo ridere – che è anche un appello alla lucidità e alla libertà.
Victor Hugo e Stephan Mallarmè hanno vissuto e narrato un’esperienza simile alla sua. Parlando di questi due autori, lei coglie uno dei nodi più profondamente veritieri dell’opera, ovverosia l’inconsistenza e vacuità della parola scritta di fronte a un’esperienza siffatta: “Scrivere aggiunge ancora qualcosa alla vergogna di essere rimasti vivi”.
Sì, come spiegava George Bataille, la letteratura è sempre colpevole. Non salva niente. Non riabilita nessuno. I più grandi poeti – Hugo, Mallarmé – sono disarmati come chiunque altro davanti alla morte, dinanzi alla sofferenza inaccettabile che suscita la perdita di un bambino. Si può scrivere un libro. E anche su questo libro è il più sublime che ci sia, non cambia nulla. Si è ricondotti ugualmente di fronte allo stesso precipizio, allo stesso pozzo. Occorre sempre ricominciare tutto. Il romanzo è una parola per nulla. Il mistero è che questa parola – beninteso, una parola impotente – è ugualmente necessaria per esprimere l’amore su cui la morte non trionfa.
Pauline, Philippe e Alice
“Sarebbe troppo facile: aver scritto un libro e credersi a posto… Una bambina scompare, esce un romanzo, e tutto rientra nell’ordine… Ciascuno torna ai casi suoi…sarebbe così facile, così vigliacco… A volte mi dico che ormai, in realtà, è questa vergogna che cerco… La forma della mia follia, ti dicevo… Lì, ostinatamente, a ritornare su questa storia, fino a rendermi insopportabile a tutti.”
Così Philippe Forest, a distanza di appena un anno dall’opera precedente, motiva questa reimmersione nell’oceano infinito del dolore e del desiderio, la rivisitazione dello straziante calvario di ospedali, operazioni, farmaci, speranze e disillusioni. La struttura di questo Per tutta la notte ricalca quasi necessariamente la stessa del precedente Tutti i bambini tranne uno: anche qui padre, madre e figlia occupano quasi per intero la scena, personaggi alle prese con un copione che avrebbero volentieri evitato, protagonisti dolenti dell’indicibilità e dell’intollerabilità, mai tentati da fughe nel patetismo consolatorio o in compensazioni teleologiche. Il primo capitolo riprende le mosse dalle ultime pagine del precedente con la narrazione degli ultimi giorni di vita di Pauline. Qui nessun particolare, neppure il più terribile e sconvolgente, viene escluso o censurato perché se la scrittura è, per suo status, impotente e inutile, ma che serva almeno a ricordare quella macchia di polline sul pigiama bianco della bambina ancora viva o la dolcissima giornata primaverile, con il vento che soffia con violenza sotto il sole, e l’asfalto macchiato dalla peluria gialla del polline degli alberi quando Pauline viene portata all’obitorio, il suo sorriso dolcissimo e accusatorio. Nel secondo capitolo, i due ‘salvati’ tentano “di rimettere piede, inebetiti, sulla sponda del senso”: vagano per stanze d’albergo vicine al cimitero dove Pauline è sepolta, si isolano in un vuoto parossistico che esclude familiari, amici, meditano il suicidio, sono scossi da un senso perenne di “catastrofe” a cui sono riconoscenti perché, comunque, “in esso si perpetuava la disperazione di aver perso nostra figlia. Perché quella disperazione era quanto di più vero conservassimo di lei. Da una parte c’era il mondo del romanzo e dall’altra il mondo della vita”. Nel terzo una collezione di foto: nella prima parte si riesumano le istantanee che risalgono a un tempo che pare remotissimo e irrecuperabile, quando viveva una bambina felice e amatissima con genitori pieni di premure e cortesie, senza nessuna premonizione della distruzione prossima ventura dell’idillio. Nella seconda parte invece il lento, inesorabile progredire della malattia fino all’ultima foto, pochi giorni prima di morire, con il corpo devastato dall’orrore della metastasi (il cranio nudo, un nuovo ombelico aperto dal catetere, il braccio sinistro paralizzato con un’enorme cicatrice rosa …): “Ho voglia di scrivere che, in questa foto, è più bella di quanto non sia mai stata. Abita semplicemente il proprio corpo [..] Arrivo al punto di chiedermi se sia mai stata malata. Nessuno può immaginare la somma delle sue sofferenze. Ma un qualche cosa di lei è stato lì per davvero, caparbiamente splendido e dolce, e su di esso il cumulo incalcolabile degli anni non farà presa.” Nel quarto e nel quinto capitolo il lettore comprende quanto l’“elaborazione del lutto” sia un’espressione fondamentalmente inerte che magari può trovare ospitalità e senso tra lo spessore fragile delle pagine, ma non certo nella vita vera. Il rapporto moglie-marito adesso sfiora i contorni di una coazione con tratti paranoici, i viaggi prostrano più della sedentarietà, i libri e la scrittura non vanificano ma riesumano, amplificandolo, il potenziale dell’orrore. I deliri, le allucinazioni, la follia sembrano avere sempre più campo. Nelle ultime pagine una nuova voce narrante prende il sopravvento: forse l’annuncio di un terzo atto. Su ‘Stilos’ del 5 dicembre 2006 è apparsa questa intervista.
Evidentemente la vicenda dolorosa di Pauline non poteva essere contenuta solo in un libro: in finale di questo secondo capitolo che è Per tutta la notte, lei lascia intuire che ve ne sarà un altro, con novità magari significative (il cambio della voce narrante, per esempio). È così?
Sono convinto che a ciascuno di noi almeno una esperienza – e per qualcuno può essere soltanto una – ci è assegnata dalla vita. È a partire da quella esperienza che noi percepiamo tutto il resto della nostra esistenza. Tra la maggior parte degli scrittori, si può rintracciare questa esperienza da quell’insieme da cui la loro opera è uscita. Io ho scritto dopo l’avvenimento di cui ho parlato in Tutti i bambini tranne uno, ma ho provato a farlo ogni volta in una maniera nuova al fine di non lasciar svanire quella verità che mi era stata confidata. Per tutta la notte costituisce la ‘ripresa’ di Tutti i bambini tranne uno nel senso in cui Kierkegaard definisce la ripresa come un ‘ricordo in avanti’. Dopo, ho scritto altri libri. Un nuovo romanzo intitolato Sarinagara del quale una nuova traduzione italiana apparirà prossimamente, poi altri due libri ancora che saranno pubblicati l’anno prossimo in Francia: un saggio e un romanzo. Queste opere sono del tutto differenti. Sarinagara si svolge in Giappone. Il mio prossimo romanzo è un romanzo d’amore. Ma tutti questi libri mi riconducono in una maniera o nell’altra verso questa esperienza di desiderio e di dolore che si trova già contenuta nel mio primo libro.
Nel libro, lei spiega, a più riprese, con quel nitore dello stile che sembra caratteristica irrinunciabile della sua scrittura, le motivazioni che l’hanno portata di nuovo a riprendere la penna. Vuole spiegarcele?
Le ragioni sono molteplici. Io credo che ogni nuovo libro debba essere costruito contro quello che l’ha preceduto. Mi sono accorto che Tutti i bambini tranne uno era stato talvolta interpretato nel senso esattamente opposto a quello che gli avevo voluto dare. Si era voluto vedere in questo libro un esemplare viaggio nel dolore e la prova che la letteratura può superare la sofferenza, sublimarla, darle un senso. La mia convinzione è esattamente l’opposta. Io penso che la poesia non possa salvare dal disastro del vivere, che essa può solo testimoniare. Valeva la pena riprendere la spiegazione di tutto ciò. È ciò che ho provato di fare. Senza dubbio, non ci sono riuscito; è perciò ho continuato a scrivere. Ogni vera letteratura parte dal suo scacco e da questo senso di colpevolezza che l’accompagna.
C’è una novità rilevante a livello strutturale: gli inserti dialogici tra un ‘lui’ e una ‘lei’. A che cosa è dovuta questa scelta?
Il romanzo deve contenere più voci senza mai dar ragione a qualcuna di esse. È la sua legge. Esso non si concede al relativismo, al nichilismo che sono di norma nella società attuale. Esso deva far apparire l’aporia, l’assurdità, la contraddizione senza appello dell’esperienza umana. In quanto autore, non voglio avere l’ultima parola. In Per tutta la notte io lascio queste ultime parole al personaggio della donna, della madre. Credo che, confrontato all’esperienza del dolore, della morte di un bambino, il punto di vista maschile e quello femminile non si accordano mai del tutto. Il narratore di Per tutta la notte crede che l’impresa di trasformare la morte di un bambino in un libro non è del tutto sprovvista di giustificazione. La donna non condivide affatto questa illusione letteraria. Per questo volevo che fosse a lei che il romanzo lasciasse la preoccupazione della conclusione della narrazione, del suo significato.
Lei rifugge dal patetismo, dalla commiserazione, dalla pacca benevola sulla spalla. Si ha come la sensazione che tutte queste dimostrazioni d’affetto facciano perdere di vista l’enormità dell’esperienza che è stato chiamato a vivere. È davvero così?
Io non rifiuto né il patetismo né la vera compassione. Al contrario. Mi sembra che l’attuale letteratura postmoderna si è persa recidendo ogni legame con l’emozione. Tutti i maggiori romanzi d’oggi arretrano davanti all’emozione perché essi vengono meno davanti al reale e vanno a cercare rifugio dalle parti dell’ironia, del gioco, del virtuale. Essi sono semplicemente incapaci di affrontare la sfida che ci rivolge quella condizione umana che, oggi come ieri, consiste nell’esperienza estatica del dolore e del desiderio. Ma io diffido da quel sentimentalismo che costituisce una maniera di trasformare la sofferenza in un oggetto di gioia inoffensiva e di speculazione interessata. Bisogna ricordarsi lo scandalo della sofferenza e la risposta incompleta che ci consegna l’amore. Se la letteratura serve a qualche cosa, serve, malgrado tutto, a questo.
La scrittura non serve; Sherazade da lei evocata in una delle pagine più intense del libro, è destinata a soccombere. Non si possono salvare le creature, ma solo le parole che testimoniano che un tempo quelle creature sono vissute. Non è insopportabile tutto questo?
Mi si dice talvolta che i miei romanzi testimoniamo l’insopportabile. Ma questo insopportabile va comunque affrontato. Non abbiamo altra scelta. Si può non voler leggere un romanzo che si svolge tra gli ospedali e i cimiteri. Ma è soprattutto lì che finiremo tutti. Ed è là che s’inventa un arte di vivere e d’amare che manca purtroppo altrove. Come Sherazade, il romanziere inventa una parola che differisce la morte, che allunga la notte in maniera di allontanare il più a lungo possibile il momento del nulla e dell’abbandono prima di spandere davanti a lui la magia d’una parola che restituisce la meraviglia del vivere, lo splendore del mondo.
Eppure, nonostante tutto, questo viaggio nello strazio e nel dolore più profondo, non è, come dice lei in finale di libro, “un messaggio assurdo in corsa nel vuoto”, ma induce a gettare uno sguardo meno frettoloso e distratto sui nostri cari, a riflettere sulla gioia e mistero dell’esser padri e figli.
Tutti i veri romanzi sono romanzi d’amore. I miei non fanno eccezione a questa regola. Non si tratta di esaltare la sofferenza, il dolore, di gioire con compiacimento della morte. È esattamente il contrario: dire il prezzo della vita e il valore formidabile del legame che ci lega agli altri.
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Libri stupendi, il primo e il secondo.
Grandissimo Forest. Oltre a tutto.
E poi i suoi due saggi, importanti pure quelli sull’io e il romanzo. Domande fondamentali davvero, e risposte intelligenti, nel senso più bello e profondo.
Presto usciranno per Alet anche altri due romanzi. Cose grosse!
leggetelo cavolo, fidatevi una volta!!!
con amore, la vostra Paola