Porrajmos – L’annientamento
a Kornel, deportato in Romania
di Marco Revelli
Quasi tutti sanno (o dovrebbero) cosa sia la Shoà. Pochi invece, quasi nessuno, cosa voglia dire Porrajmos. È il termine che in lingua romané significa «distruzione », anzi «qualcosa di più» – come spiega Giorgio Bezzecchi, il rom hervato che ha tradotto per Fabrizio De André le ultime strofe di Khorakhané -: «devastazione», «divoramento », comunque ««annientamento ». Sta a indicare lo sterminio degli zingari, Rom e Sinti, per opera dei nazisti e dei fascisti, nei luoghi – Auschwitz soprattutto – che a stento, e di malavoglia, la nostra memoria contemporanea accetta di ricollegare alla tragedia dei nomadi europei preferendo tenerli segregati in una terra di nessuno della storia, esattamente come ne tiene segregati i discendenti nelle tante terre di nessuno delle nostre periferie urbane.
Furono 500.000, forse più, i «figli del vento» sterminati nei lager. Altre centinaia di migliaia furono perseguitati, incarcerati, deportati, le famiglie sciolte, le comunità disperse, allo scopo dichiarato di sradicare il Wandertrieb, l’ «istinto nomade» identificato dall’eugenetica paranoide fascista con il disordine, la trasgressione, la commistione del sangue e la degradazione del costume. Eppure la loro – nell’epoca del politically correct e dell’omaggio spesso rituale alle vittime di ogni genocidio – rimane una lingua tagliata.Una memoria drammaticamente muta. Tenta di rimediare a questo silenzio che lascia l’inquietante sensazione di un secondo porrajmos, l’omaggio (il 5˚ dal 2000) che la rivista anarchica A ha dedicato alla memoria di Fabrizio De André: due Dvd (uno nero, con 4 filmati di testimonianza, e uno rosso con due spezzoni di spettacolo e una storia di vita) più un libretto di documentazione, raccolti sotto il titolo A forza di essere vento… Sono gli strumenti per un viaggio in un territorio storico «altro», oltre il confine delle nostre verità convenzionali. Chi vorrà affrontarlo, vi incontrerà l’altro radicale – questo è per noi lo «zingaro », l’«ultimo degli ultimi» – che ci racconta la nostra storia non detta: la storia della nostra colpa. Del nostro esser andati oltre nel processo di disumanizzazione dell’altro da noi, fino a perdere ogni brandello di umanità. Si prenda l’episodio del 16 maggio 1944 a Birkenau, così come viene ricostruito nello splendido intervento-lezione di Marcello Pezzetti, del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano. Birkenau era la componente del complesso concentrazionario di Auschwitz destinata allo sterminio. Lì, accanto agli ebrei, dal 16 dicembre 1942, in esecuzione del «decreto Auschwitz» con cui il governo del Reich aveva dato inizio alla «soluzione finale» per gli zingari, avevano iniziato ad affluire, nel Blocco IIe, decine di migliaia di Rom e Sinti, uomini, donne e bambini, tenuti, a differenza degli altri, tutti insieme, senza dividere le famiglie, fino al maggio 1944 quando fu decisa la liquidazione del «settore zingari». I circa 4000 nomadi sopravvissuti avrebbero dovuto essere avviati, in un solo colpo, alle camere a gas. E fu allora che avvenne l’incredibile: gli zingari resistettero. A mani nude, qualcuno armato del solo coltellino di latta improvvisato nelle baracche, contrastarono le SS. I pochi sopravvissuti raccontano che erano le madri in prima fila, a difendere con le unghie e con i denti i loro bambini, alcuni dei quali di pochi mesi, nati nel campo stesso.
Fu- dice Pezzetti – «qualcosa di straordinario. Qualcosa di cui si dovrebbe sempre parlare»: una delle pochissime rivolte in un campo di sterminio, e l’unica ad aver avuto successo perché l’operazione fu interrotta, l’annientamento sospeso. Almeno temporaneamente.
Due mesi e mezzo più tardi, dopo aver trasferito un migliaio di deportati a Buchenwald e aver indebolito la capacità di resistenza del Blocco IIe, il 2 agosto, 2847 zingari – uomini, donne, bambini (circa 300) – verranno «passati per il camino » nel crematorio n.5. Dopo di allora, commenta Pezzetti, dopo che anche le voci di quei 300 bimbi sopravvissuti tra gli orrori furono spente, «non ci sarà più vita a Birkenau». Oppure si guardino le immagini di Hugo: la sconvolgente testimonianza di Hugo Hollenreimer, un Sinto tedesco che conobbe le sevizie del dottor Mengele, nell’ambulatorio di Birkenau dove il medico SS usava le coppie di gemelli zingari come cavie per i propri esperimenti, nell’intervista di 19 minuti con Giovanna Boursier – che è anche autrice di un sintetico ma documentatissimo saggio pubblicato nel volumetto di accompagnamento -, con sullo sfondo le immagini di Auschwitz e in sottofondo il rumore del vento, durante il pellegrinaggio che un gruppo di Sinti e di Romcompì nel 60˚dello sterminio finale degli zingari. È un documento raro, perché nella cultura di quei popoli è radicata l’idea che non si possa «raccontare il male». E parlare dei morti – soprattutto di «quei morti» – è cosa troppo dolorosa, che sconvolge chi parla e chi ascolta, in qualche misura insopportabile. Infatti il bel volto di Hugo si contrae e si torce prima ancora che le parole comunichino l’orrore, le linee armoniche si spezzano quando ricorda l’uomo biondo, costretto a correre nudo tra i cani che ne smembravano il corpo, o il dolore del ferro che entra nella carne, come se, in quelle vite perdute, si perdesse anche lui. E, alla fine, ritorna l’eco delle prime frasi del racconto, quando dopo il rastrellamento che diede inizio alla deportazione, rinchiusi in attesa della tradotta per Auschwitz, tra lui e il padre si svolse il seguente dialogo: «Papà, perché siamo qui? -Perché siamo Sinti – Siamo Sinti ma non abbiamo fatto niente di male…». È il dialogo che risuona ancor oggi, in tante parti del mondo. Lo dice benissimo Moni Ovadia, in 19 secondi, all’inizio del cd nero, sotto il titolo Hai mai avuto un amico zingaro?: «Viviamo in una società che non sa accogliere l’altro e non sa vedere il punto di vista dell’altro». È questo il nodo: il punto di vista dell’altro. E, dunque, una questione di sguardo. Di saper vedere.
O meglio, sapere da quale parte mettersi per «vedere». Fabrizio De André lo sapeva. Era il punto di vista degli ultimi. Gli ultimi come sono, non come vorremmo che fossero (in genere «come noi», anzi, come vorremmo essere senza riuscirci). Per questo le sue canzoni sono, insieme a un grido di giustizia, un potentissimo antidoto contro l’ipocrisia. L’ultima strofa di Khorakhané diceva: «e se questo vuol dire rubare/ questo filo di pane tra miseria e fortuna/ allo specchio di questa kampina/ ai miei occhi limpidi comeun addio/ lo può dire soltanto chi sa raccogliere in bocca/ il punto di vista di Dio». Un invito a tacere se non si è capaci di assumere il punto di vista degli altri. Era il suo modo poetico di giudicare i giudici. E per dire che mai più dev’essere dato agli aguzzini il potere di decidere quale sia la vita «virtuosa» e quale la «degenerata». Il buono, da assimilare, e il cattivo, da cancellare. Per questo – hanno ragione i redattori di A – ci manca così tanto il «suo sguardo anarchico».
– Pubblicato su Alias, 11 novembre 2006 –
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Bell’articolo su un pezzo di storia davvero troppo spesso dimenticato. Ho trovato interessante (e sconvolgente) che “nella cultura di quei popoli è radicata l’idea che non si possa «raccontare il male»”. Penso al libro che sto leggendo in questi giorni: “L’eredità di Auschwitz” di Bensoussan, in cui viene affrontata proprio la questione del “come ricordare”. La necessità di un’etica della memoria. E la sua inevitabile tragicità.
Per ringraziarti del tuo bellissimo pezzo e, soprattutto, del pregevole “lavoro” che porti avanti, che a me piace chiamare di “recupero delle memorie disperse dei senza voce”, ti posto questa poesia di Mariella Mehr, poetessa sessantenne nata da una famiglia zingara di ceppo Jenische.
E’ dedicata a “tutti i Rom, Sinti, Jenische, (a) tutte le ebree e gli ebrei, (a) tutti gli uccisi di ieri e di domani”.
*
Non c’era mare ai nostri piedi,
anzi, gli siamo
sfuggiti a malapena,
quando – le disgrazie, si dice, non vengono mai sole –
il cielo di acciaio ci incatenò il cuore.
Abbiamo pianto invano le nostre madri
davanti ai patiboli,
e ricoperto i bambini morti con fiori di mandorlo
per scaldarli nel sonno, il lungo sonno.
Nelle notti nere ci disseminano
per poi strappare noi posteri alla terra
nelle prime ore del mattino.
Ancora nel sonno ti cerco, erba selvatica e menta:
chiuditi, occhio, ti dico,
e che tu non debba mai vedere i loro volti,
quando le mani diventano pietra.
Per questo l’erba selvatica, la menta.
Ti stanno leggere sulla fronte
quando arrivano i mietitori.
*
La traduzione è di Anna Ruchat, così come tutte le liriche della Mehr contenute in un libro “imperdibile”, il più bel regalo per il nuovo anno che potete farvi: Mariella Mehr, Notizie dall’esilio, Milano, Effigie Edizioni, 2006.
p.s.
Grazie a Gabriella Fuschini, che mi ha permesso di conoscere questa incredibile, grandissima poeta sconosciuta.
Hai ragione cato, vedo che abbiamo gli stessi gusti, anch’io ho conosciuto le belle poesie della mehr grazie alla bravissima gabriella che le aveva postate in Il primo amore e anch’io avevo apprezzato questo bellissimo articolo uscito su alias e che avevo postato nel mio blog insieme alla bella foto (sempre su alias)
Grazie al bravo rovelli che ci ripropone, anche qui, il suo quasi omonimo, il bravo revelli, e grazie a cato.
geo
Ricordo che avevo letto qualcosa della Mehr da Georgia. E anche allora mi aveva catturato.
Cato, vedo che la differance rovelli/revelli ha colpito ancora… (visto che da anni mi accompagna, stavolta sono io a giocarla scientemente).
@ Marco ROVELLI
Il complimento era tutto per te. Anche tener desta l’attenzione su articoli e contributi, come quello di Marco REVELLI, è ascrivibile al “recupero delle memorie”. ;)
Poi, se vuoi, da oggi, ogni elogio all’uno sarà valido anche per l’altro. E, di conseguenza, ogni critica…
Molto contento del fatto che tu conosca e apprezzi la Mehr.
Sempre buone ricerche.
Si è parlato in questi giorni di un muro che avrebbe dovuto separare gli zingari presenti a Milano dal resto della città.
La proposta pare sia stata rigettata dal comune di Milano ma ci turba cmq che in Italia esploda la subcultura della segregazione del diverso.
Di muri e di ghetti ci parla la storia passata e recente riportandoci a pagine di dolore e barbarie.
“A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli zingari” è una pregevole iniziativa editoriale che colma un grave vuoto di “memoria”.
I negazionisti giustificano lo sterminio degli ebrei come risposta a una presunta dichiarazione di guerra dell’ebraismo internazionale contro la Germania nazista, facendo riferimento all’articolo “Judea declares war on Gremany “ comparso nel 1933 sul Daily Express.
Quale sarebbe secondo i negazionisti la dichiarazione di guerra di zingari, testimoni di Geova e omosessuali che li avrebbe condannati al massacro sistematico? E quale la dichiarazione di guerra di malati di mente e bambini deformi ritenuti “vite indegne di vita” e perciò eliminati?
Se anche tu conosci Cornel, volevo solo dirti che è tornato in Italia è sta bene assieme a sua moglie Irina.. :)