Quartowood
di Gianni Biondillo
Ad un certo punto arrivarono i camion e scaricarono tutto, ci passarono l’intero pomeriggio, solo alla sera, al buio, incominciarono a girare. Il cortile di casa mia, via Lopez 6, Milano, Quarto Oggiaro, fu invaso da Cinecittà. Era il 1994. La sera tutti gli abitanti guardavano dai balconi Margherita Buy e Lello Arena che duettavano. Un faro di una potenza inaudita fu piazzato nel soggiorno di casa mia; il mese dopo la bolletta della luce ebbe un’impennata considerevole ma nessuno mi pagò la differenza. Era lo scotto della magia del cinema, in fondo.
La sceneggiatura del film prevedeva un passaggio nei turbolenti anni ’70, a Milano. Da Roma, dalla capitale del cinema, si decise che se dovevi rappresentare i turbolenti anni ‘70, a Milano, dovevi, inevitabilmente, mettere in scena Quarto Oggiaro. Fu così che mi ritrovai Mario Monicelli seduto sotto un catafalco assurdo nel mezzo del cortile di casa mia, che ogni tanto, noiosamente, diceva “azione” e poi si rifondava a pensare ai fatti suoi.
Sembrava una calata di un esercito colonialista che veniva a civilizzare i villici. Lello Arena deragliava con uno scooter, in pieno cortile (che nella finzione invece era una strada), Margherita Buy aspettava, spiritata, e firmava autografi, un esercito di comparse vestite in modo ridicolo passava e ripassava davanti la cinepresa eseguendo gli ordini di qualcuno.
Il cinema, così, visto da sottocasa, fu per me davvero deludente.
E il film, uscito l’anno appresso, altrettanto deludente. Riconobbi a malapena il balcone di casa. L’appartamento sembrava illuminato da una fievole candelina, il cortile scomparve, gli attori mimavano d’essere quello che non erano. E lo fecero male. Il film si intitolava Facciamo paradiso ed è a tutt’oggi una delle cose più brutte che Roma ha saputo girare a Milano.
Poi però, il ghiaccio era rotto, si fece vivo Gilberto Squizzato. Nel 1999 su RAI 3 vidi le quattro puntate de I racconti di Quarto Oggiaro. Un, si disse all’epoca, real movie. (Oggi come si dice? Docu-fiction?) Cioè in buona sostanza qualcosa che mischiava realtà e finzione, una storia che prendeva spunto da un fatto realmente accaduto (un benzinaio che uccise un suo rapinatore), attori presi dalla strada, produzione più agile, meno invadente… Ammetto senza vergogna che in alcuni momenti mi sono addormentato. Ma quello era dovuto anche alla programmazione notturna, non solo al ritmo blando e un po’ soporifero del girato. La storia stava in piedi con le grucce ed aveva in certi momenti una inverosimiglianza, per me quartoggiarese, impressionante. Ma riconosco a Squizzato l’occhio attento allo scenario e, soprattutto, l’aver compreso che quel panorama non aveva senso alcuno se escluso dai suoi abitanti. Margherita Buy a Quarto Oggiaro, diciamocelo, non c’entra una cippa. Squizzato prese alcuni miei vicini di casa e li fece recitare, col loro idioma barbaro. Alla fine ne è uscita un’opera recitata magari da cani, ma vera come mai un film cinecittadino ha mai saputo essere quando ha parlato di qualcosa che non fosse una terrazza romana.
Andò, insomma, che Quarto Oggiaro piacque ai cineasti milanesi, che del quartiere ne sapevano a malapena la collocazione geografica (e forse neppure quella). Sembrava persino “figo”, trendy, girarci, alla ricerca del degrado da banlieu parigine (molti poi ci restarono male, non trovando stupratori e scippatori ad ogni angolo di strada) o da Bronx nuovayorchese – che poi, qualcuno dovrà dirlo a questi alternativi di sinistra che il Bronx, oggi, è un quartiere graziosissimo e fighetto assai…
Comunque, tornando a noi…
Antonio Bocola e Paolo Vari si misero sotto con un gruppo di amici sceneggiatori e decisero di raccontare la periferia milanese come simbolo di tutte le periferie d’Italia. È da un po’ che ci giravano attorno, dal 1997, con un mediometraggio presentato al festival Filmmaker. Dai e dai autoproducono il film e, proprio come Squizzato, cercano le facce sul posto.
Il posto è una ipotetica piazza Gagarin alla Barona. Noi tutti sappiamo che non esiste nessuna piazza Gagarin a Milano. E, ancora meglio, che la Barona, in Fame chimica, si vede a malapena. Perché il film viene girato in piazzetta Capuana a Quarto Oggiaro. Magia del cinema, lo so. Alcune di quelle facce sono davvero meravigliose, al punto che il protagonista, troppo bello, troppo buono, troppo “attore professionista” stona in modo stridente con la vitalità e la bravura espressa dai non professionisti. La storia è quella che è, ma il film merita, anche per l’involontario sguardo antropologico dovuto dai corpi, dai volti, dalle voci di quegli attori. Nel 2004, quando lo vidi, non ricordo nulla di davvero più interessante nel panorama cinematografico nazionale.
C’è da dire, poi, che nello stesso periodo Fabio Martina stava lavorando con i ragazzi del quartiere, con laboratori di recitazione, proiezioni di film, e al contempo cercando contatti con la Provincia di Milano per ottenere finanziamenti… Martina è un tipo ostinato. Gli frullava da un po’ in testa una storia che aveva letto sul giornale. Ad un certo punto mi contatta, mi travolge col suo entusiasmo, mi fa leggere la sceneggiatura del suo progetto, A due calci dal paradiso, storia di una amicizia che, a differenza di Fame chimica, va in crisi non per una donna, ma per un provino all’Inter. Roba più terra terra, forse. Più ruspante.
Fabio il film lo fa, esce nel 2006, ed è ancora (inutile dirlo) un docu-fiction, come se non ci fosse altro modo per raccontarlo quel quartiere se non utilizzando non solo lo scenario dei palazzoni e dei campi di pallone spelacchiati, ma anche e soprattutto il materiale umano che quel luogo sa esprimere.
Mi rendo conto, ora, che a furia di avvicinarcisi Quarto Oggiaro diventa, di film in film, sempre meno luogo comune e sempre più luogo reale. Bene. Il territorio c’è, le facce pure. Di maestranze e voglia di fare ce n’è fin troppa. I soldi… i soldi, ho capito, che bene o male si trovano.
Ora, però, vi prego, vorrei anche le storie. E quelle, davvero, in quel posto non mancano. Fidatevi.
[pubblicato in FILMMAKER 17, novembre 2006]
bravo gianni, gran bel pezzo. sulle periferie milanesi, sul loro significato, sulla pretesa “raffigurazione del loro autentico significato” (blabla), ce ne sarebbero di cose da dire.
anche a me di “fame chimica” erano piaciuti i volti ingenui, non-attoriali, a volte goffi al punto da lasciar trasparire ciò che erano e punto.
e anche a me piacciono i luoghi reali. forse sono solo scettico sulla possibilità di ritrarli col mezzo cinema – che è apparentemente il più adatto, no?, il più diretto. non so perchè. pura perplessità mia.
Ciao Gianni! L’altro giorno pensavo che il tuo commento sul mio blog fosse uno scherzo, questo sito non si apriva. Oggi sono arrivato qui e sono sorpreso e divertito. Gli altri tuoi romanzi li ho già letti e aspetto con curiosità il prossimo. Leggendo PER SEMPRE GIOVANE mi ha fatto molto piacere scoprire il tuo amore per il cd di BATTISTI-PANELLA. Comunque complimenti e continua così!
“…Roma ha saputo girare a Milano…” ma è possibile che un articolo cosi’ intelligente come il tuo non riesca ad uscire da questi luoghi comuni ? peccato…
“sembrava una calata di un esercito colonialista che veniva a civilizzare i villici”….qui dentro c’è tutta l’essenza del pensiero che volevi esprimere, e mi piace come lo racconti, si sente che ci sei dentro, al luogo e al tempo.
un saluto
carla
Istruttivo, piacevole, come sempre
Beh, o Gianni, ma per le storie non ci sei tu? Oppure mi sono perso qualcosa…?
Ne approfitto per segnalare “Fi Jerda” un bel film di Alessandro Golinelli e Rocco Bernini, uscito un anno fa circa, che racconta la Milano “periferica” di questi anni: attorno al campetto/giardino si incrociano storie, etnie, disagi, destini sempre in bilico con momenti visionari e poetici interessanti e originali. Girato in b/n e digitale. Non so bene però che distribuzione abbia avuto, al di là di centri sociali, festival e simili.
Ciao Gianni!
La -luce- non è più quella. Finita la magica verità. Dall’arriflex e nagra al sony ora l’involontà diritto d’antenna, dittatura-dettatura del doppiaggio, scatoloni di programmazione-forma come idea pre-concepita. Altra cosa è -scolpire il tempo.- (non dobbiamo inoltre dimenticare la pseudo cultura del racconto idea (logia), morte anticipata che ha generato credibili fantasmi culturali per una ventina d’anni: incipit della fine. I finti aiuti economici ai soliti noti, (il cinema italiano è esistito fino a quando gli aiuti statali non sono arrivati: veri distruttori di talento) e con quelli gli “autori” che “articolano” e gli immancabili ed eterni figli e nipotini d’autore, cretini di talento.
Scusate, ma fra collassi del server e mie assenze forzate non ho potuto rispondere. Innanzitutto grazie a chi mi fa i complimenti.
Poi, a MAURO: attenzione, però, al luogo comune del luogo comune: non era mica una annotazione protoleghista la mia, figurati. Ma ti assicuro che il senso di straniamento di una intera troupe che parlava in romanesco nel cuore di QO era davvero forte. E non è che le maestranze, a Milano mancassero (o manchino). Era (è!) una forma mentis proprio del “cinema ufficiale italiano” (vedi il commento di Michele) che non vede oltre il suo naso (e il suo ombelico, tra l’altro). Che poi Cinecittà sia a Roma è un fatto. Fosse stata a Trieste, la troupe tutta di triestini mi sarebbe sembrata strana altrettanto.
Caro Gianni,
è sempre un piacere leggerti. Ho acquistato tutte le tue fatiche letterarie.
Attendo con ansia nuovi volumi!
Un saluto dagli anni 80!
Davide
@ gianni
scusa, una domanda idiota: esiste ancora il “bar quinto” a quarto oggiaro? perchè quando avevo diciott’anni o giù di lì era noto come locale veramente truce. volevo andare a caccia di storie, ma gira che ti rigira non ci sono mai stato.
lo so, era una domanda idiota. :)
Giorgio, se ti capita di leggere il secondo dei miei romanzi ne parlo diffusamente del “bar quinto”… ;-)
Okay, Gianni, procederò senz’altro! Grazie! :)