Il fratello oscuro: un ritorno a Napoli

di Cristiano de Majo

Piazza Cavour. Non lontano da qui può capitare che qualcuno nella notte spari colpi di kalashnikov sulle vetrine dei negozi (è successo durante la notte di Capodanno), e tuttavia non è più la piazza dell’assalto alla diligenza, del caos violento e sconsiderato di un tempo. Come si dice in gergo è stata ri-sistemata dopo l’apertura della fermata della metropolitana collinare. E ora, in questo pomeriggio di gennaio, potrebbe sembrare persino un luogo placido, un luogo dove fermarsi a guardare i gruppi di mamme e figlie che passano in rassegna i negozi di scarpe e di pelletteria, un luogo dove stare. All’imbocco di via Foria passo affianco a una fila di bancarelle cariche di chincaglieria cino-napoletana allestite per le compere della befana.

Il pezzo forte della collezione è un bambolotto nero che sembra affetto da una spiacevole forma di gigantismo: sarà alto più di un metro e ha una testa mostruosa, l’hanno messo seduto scomodamente su un passeggino troppo piccolo per la sua stazza. Credo sia una delle prime forme italiane di giocattolo etnico ed è indicativamente ipernutrito – forza bengalesi, senegalesi, dominicani, venite a comprare una bambola per i vostri figli che è più grande dei vostri figli!, potrebbe essere lo slogan giusto per offrirlo ai potenziali acquirenti –, ma a me, chissà perché, fa venire in mente la Tammurriata Nera della Nuova Compagnia di Canto Popolare, quei versi che raccontavano la sconsideratezze riproduttive dei soldati afro-americani nel dopoguerra: è nato nu criaturo è nato niro/e ‘a mamma ‘o chiamma Ciro, sissignore, ‘o chiamma Ciro. Il Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina (Madre) è a qualche centinaio di metri. Si infila via Duomo e si prende la prima traversa sulla sinistra, all’altezza del Bar Tico, via Settembrini, nel buio dei vicoli del quartiere San Lorenzo.
La sede del museo è un bel palazzo dell’800 abbandonato nel 2001 in seguito a un allagamento che provocò notevoli danni alla struttura. Qualche tempo dopo si decise di farne un museo. I lavori di ri-funzionalizzazione vennero affidati all’architetto portoghese Alvaro Siza con un progetto che tendeva – e non poteva che – conservare, più che creare ex-novo con conseguenti e prevedibili polemiche sull’utilità per l’arte contemporanea di uno spazio a stanze difficilmente adattabile alle esigenze degli artisti rispetto invece a una struttura ad hoc.

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Nel Natale del 2002 Rebecca Horn cura l’annuale istallazione per piazza del Plebiscito. Rapita dallo spettacolo magico-macabro del Cimitero delle Fontanelle, ma cogliendo anche l’intimo e quotidiano rapporto con la morte che si vive nella città, l’artista tedesca decide di spargere una distesa di teschi sulla pavimentazione della piazza. Capuzzelle che – letteralmente – escono da sottoterra e che vengono accolte da alcuni illustri napoletani come una “provocazione gratuita”, la definizione che generalmente si usa per le cose che non si riesce a decifrare. L’opera Spiriti presente al Madre in una sala dedicata – la Sala Horn, appunto, al primo piano insieme ad altre sale monografiche dedicate ad artisti che hanno lavorato in questi anni per la piazza – sembra in qualche modo la continuazione di quell’allestimento. Sono ancora teschi, ma questa volta incollati alle pareti di fronte a specchi rotanti che ne mostrano angoli e spigoli e prospettive. Teschi che si guardano allo specchio. È una visione dolorosa. C’è qualcosa di violentemente accusatorio in questi Spiriti. Ripenso a tutte le persone, i napoletani che conosco, che non hanno letto Gomorra dicendomi “sono cose che già sappiamo”. Agli illustri esponenti della Napoli Bene che pensano che i problemi della città siano i problemi di tutte le città. Agli intellettuali e alle loro voci afone. A quelli che dicono “se Napoli non cambia…” come se la città fosse retta da una divinità capricciosa. Teschi che si guardano allo specchio. Rivedo questa scena di qualche anno fa: un uomo schiattato sull’asfalto coperto da un telo davanti alla fermata dell’autobus vicino casa mia, sparato ai Colli Aminei. Più tardi, quella sera, sarei uscito, sarei andato a cinema, oppure a una festa chissà, anche se quell’immagine avrebbe continuato a tormentarmi per molto tempo, tutto sommato avrei fatto finta di niente. Mi viene da chiedermi se anch’io quando vivevo qui ero un altro teschio che si stava guardando allo specchio. Mi chiedo: essere napoletano significa per forza essere un teschio che non può che guardare se stesso?

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Un diagramma, soltanto una striscia di carta distesa come un serpente e come un serpente conservata in una teca. È l’azione di Joseph Beuys per il terremoto dell’80 (al secondo piano). Mi fa sentire il rumore delle tapparelle e delle finestre che sbattono, mi fa vedere mio padre che mi prende in braccio e mi porta fuori di casa e la signora che corre nuda oltre il portone del nostro palazzo e il signore che le offre un cappotto con cui coprirsi: avevo cinque anni. Il terremoto. L’eruzione del Vesuvio. Napoli come epicentro di calamità. L’opera di Beuys mi fa pensare a questa prospettiva. Al senso di morte incombente che da sempre preme sulla città. Siamo perennemente sul punto di morire, tutti, noi napoletani o almeno prendiamo inconsapevolmente in considerazione questa possibilità. È questa la ragione, il senso, del nostro tragico fatalismo? È questa la ragione, il senso, della disperata vitalità? Penso alla città dei morti ammazzati e delle sparatorie quotidiane. Ma anche al valore dell’identità. Nell’epoca della disgregazione delle identità e dell’atomizzazione, l’essere napoletano rimane ancora un collante sorprendentemente forte. Odio/Amore e Vita/Morte, lo Yin e lo Yang partenopeo. Guardo di nuovo il diagramma, le linee impazzite che graffiano la carta millimetrata. Ora mi sembra un tracciato dei nostri sentimenti.

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Un rettangolo di velluto nero che apre un vuoto sul pavimento. L’opera di Anish Kapoor nella Sala Kapoor è una Sindrome di Stendhal concettuale. Si rimane ipnotizzati da questo buco a tal punto da non poter staccare lo sguardo. Ci si finisce dentro, letteralmente. Ma cos’è Dark Brother? È la terra, la materia primordiale, una nuova origine del mondo e anche, allo stesso tempo, la sua fine? È la nostra metà oscura, qualcosa che cerchiamo di dimenticare ma che in fondo è parte di noi?
Rimango a guardare il buco nero per alcuni minuti, forse troppi. Pensando alla mia condizione di auto-esiliato, riesco a cogliere in pieno e per la prima volta il processo di rimozione che ho messo in atto andando via da Napoli. Mi è successo di dimenticarmi quello che sono. Mi è successo di disconoscere questa fratellanza. Mi è successo di esimere me stesso dalla responsabilità di essere nato qui, ho pensato. Ed è stato, davanti a un tappeto di velluto nero, che ho deciso: sarei ritornato a Napoli, a fare i conti con il mio fratello oscuro.

10 COMMENTS

  1. Grazie biondillo, meraviglioso tu e il pezzo
    Concordo col sentimento, con-partecipo all’autoesilio.

  2. Nascere a Napoli è una fortuna. Viverci è il prezzo che si paga per aver avuto questa fortuna.

  3. SENTIMENTI O SENTIMENTALISMO? VOGLIA DI REAGIRE O DI IMMEDESIMARSI CON UN QUALUNQUE MISERABILE TESCHIO PICCOLO-BORGHESE INURBATO IN UNA CITTA’ CHE E’STATA DISTRUTTO DA PRETESI BUONI SENTIMENTI! CORAGGIO! SOLO DALL’ESTERNO QUALCOSA POTRA’ ESSERE SALVATA!

  4. SENTIMENTI O SENTIMENTALISMO? VOGLIA DI REAGIRE O DI IMMEDESIMARSI CON UN QUALUNQUE MISERABILE TESCHIO PICCOLO-BORGHESE INURBATO IN UNA CITTA’ CHE E’STATA DISTRUTTO DA PRETESI BUONI SENTIMENTI! CORAGGIO! SOLO DALL’ESTERNO QUALCOSA POTRA’ ESSERE SALVATA!

    (se qualcuno non avesse letto bene)

  5. Devo ammettere che (mea culpa mea maxima culpa) non ho letto tutti tutti i tuoi pezzi (mamma mia ma che razza di sorella sono?? ma giuro che provvederò, giurin giurello!!) però questo mi sembra davvero tra i migliori!!!

    leggendolo è piacevole perdersi nel testo tra “excursus” e collegamenti che rimandano anche a storie spesso sentite narrare precedentemente!!

    marty

  6. Io ho una casa affittata a studenti proprio a due passi da piazza Cavour, dove comincia la salita per la Sanità. Non vivo a Napoli, ho scelto la Toscana ma ogni tanto ci passo, e soprattutto ricordo i mesi trascorsi in quella città anni fa con mia sorella (che invece a Napoli, in quella casa, ci ha studiato e ci vive), quando scappavo da Pisa e mi rifugiavo nella metropoli partenopea per respirare un po’ di napoletanità (di cui allora, chissà perché, mi sentivo privata). Erano gli anni dei 99 Posse, di Officina 99, dei centri sociali (anche se io ci andavo perché trascinata, non per trasporto vero), di quando cominciava a emergere l’idea, il desiderio, di una Napoli nuova e riscattata dal destino di città incantevole e maledetta. Gli anni della pedonalizzazione di via Toledo (oggi via Roma), di piazza Plebiscito. Non so dire se qualcosa a Napoli sia cambiato davvero. Tutto quello che mi trasmette questa città ogni volta che ci vado è un senso di tristezza. Per il frigo nostro quasi sempre vuoto, per la precarietà della vita da studenti ma anche per le case fatiscenti, per le famiglie che vivono nei bassi e per le donne che stanno tutto il giorno davanti alla porta di casa, sedute sulla sedia, puntando i compratori di sigarette di contrabbando e urlando nomi in continuazione, fin dalle 7 del mattino (Toooniiiiino, Ciiiro, Maaaariiiiiaaaa).
    Tristezza per la periferia che ti assale quando ti avvicini alla città e che assomiglia sempre di più a Beirut, per i panni stesi ovunque, l’appiccicume per strada, i motorini che ti sfrecciano a destra e sinistra rischiando di travolgerti (anche se non ti travolgono mai, perché come guidano i napoletani, nessuno…), per 8 persone su 10 che incroci, TUTTI inevitabilmente, con la sigaretta in mano. Per i clacson che ti sfondano i timpani, per l’autocompiacimento di essere, comunque, diversi. Mi piacciono invece i napoletani di qualche generazione fa. Quelli che incontri in qualche meravigliosa piazza e che magari portano ancora il cappello, a volte quello coloniale, e che, se ti capita di chieder loro un’informazione su una strada, ti spiegano tutto con una cortesia, galanteria e precisione di altri tempi. Quei napoletani stanno scomparendo. Ma il vero difetto, quello in cui purtroppo credo risieda la vera condanna dei napoletani, è il non voler riconoscere che questa città somiglia sempre di più a una metropoli dei paesi arabi, del sudamerica, che a un gioiello d’Italia com’era un tempo. E i napoletani della Napoli Bene, quelli che vivono al Vomero o a Posillipo e continuano a bearsi della loro “elezione” (perché napoletani ma anche ricchi e agiati) sono forse i principali colpevoli di questo immobilismo della città che vive “sotto” le colline.
    Bello comunque il pezzo di De Majo, si sente che è scritto da un napoletano che ha lasciato Napoli e, in qualche modo, si è scisso.

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