Scandisci le parole
di Flavia Ganzenua
Vado a trovare mio padre una volta alla settimana, di domenica, come tutti. Solo che io lavoro a casa e non ho famiglia. Potrei passare più spesso. E’ che questo posto è sigillato ermeticamente. E’ strizzato, compresso, consuma poca aria, scade lentamente.
Ho tutto il tempo del mondo, penso ogni volta che finisce l’orario di vista.
Ci vengo volentieri, qui si sta bene. E’ un ex-convento di clausura arroccato alla collina che domina la città. Sembra distante, ma è un’illusione ottica. Cunicoli sotterranei arrivano fino in centro, alcuni sono stati usati come magazzini, rifugi durante la guerra. Uno di questi passa proprio sotto il mio appartamento. E’ cieco, strozzato, una lastra di acciaio e un sistema di chiuse lo rendono inaccessibile. E’ un moncherino ormai, però mi fa sentire in qualche modo meno colpevole. Immagino che conduca proprio nella stanza di mio padre, è un po’ come dormire nella stessa camera da letto.
Lo trattano bene, ogni giorno radunano i pazienti nel piazzale e li portano a fare una passeggiata. Sembrano mosconi che hanno perso l’orientamento. Sbattono contro gli oggetti, ci si incagliano. Fuori è difficile essere autonomi, tutto si modifica, fermenta. Mio padre dice che è come ritrovarsi tra le dita un’escrescenza, un pezzo che non ci appartiene. Per questo, all’inizio, molti si rifiutano di uscire. Si aggrappano all’infermiera con tutta la forza che hanno in corpo. Sono come chi sta per annegare, pesano il doppio.
Mi siedo sulla panchina di pietra, lo guardo mettere un piede dopo l’altro, affondare il viso nell’aria di burro, violarla, e penso che non esiste più una distanza di sicurezza come noi la intendiamo. E’ misurata a onde sonore, a ombre. E’ solida, è terra di conquista.
Mi chiedo se senta le porte, le pareti; se distingua davvero una siepe da un muro, un muro da un cancello come sostiene quel giornale a cui è abbonato il mio dentista. Uno di quelli che ti spiega tutto, tipo che non abbiamo solo cinque sensi o che il blackout più lungo del mondo è durato sessantasei giorni.
Io vorrei che il tizio che ha scritto quell’articolo venisse qui e osservasse mio padre, anche per pochi istanti. In piedi accanto a me, oscilla avanti e indietro impercettibilmente. Si dondola, poi si blocca, come se qualcuno lo avesse afferrato per la giacca e lo stesse insultando furiosamente. Se salissi in macchina, sfondassi la siepe e gli inchiodassi proprio davanti, non muoverebbe un muscolo.
All’inizio mi infastidiva, ora so che questa ostinazione si chiama resistenza: alla forza di gravità, alla pressione sanguigna, e a quei piccoli scatti involontari che sono un terremoto di decimo grado Mercalli.
Abbiamo tutto un codice, noi, tutto un sistema di segni che nessuno conosce. Ci intendiamo al volo, non abbiamo bisogno di parole ingombranti, troppo lucide, patinate. E’ sempre stato così. Non ero certo il figlio prediletto, quello di cui ci si ricorda la prima parola, che si è guardato più a lungo nelle notti insonni. Questa differenza mi dà un vantaggio enorme. Il suo senso di colpa è un’assicurazione per la vita, mi assolve, per questo posso permettermi di amare questo posto, perfino di parlarne.
Dicevo che un tempo era un convento di clausura. Il muro di cinta è ricoperto quasi interamente da ex-voto: targhe in ferro, marmo, o semplici iniziali incise con un temperino nel cemento. C’è un’ala, una specie di piccolo museo, che aprono al pubblico solo l’ultima domenica del mese. Ci sono stato già parecchie volte. E’ il parlatorio dove le monache incontravano padre, madre, fratelli. Il volto coperto dal velo nero, le mani nascoste nella tonaca, erano ombre che si allontanavano e si avvicinavano alle grate fittissime. Dei manichini di cera simulano le clarisse. Gli occhi non si abituano mai al buio, colpa dei lumini elettrici difettosi che si accendono a intermittenza. Inserisci la moneta e parte la luce, ma dura troppo poco, ti acceca. Ti vedi a fatica le mani. Devi essere nello stato d’animo giusto, però, o non reggi. Persino la guida resta quasi sempre sulla porta. Parla sottovoce, con un misto di rispetto e orgoglio, delle monache che vivevano qui – pare che fosse una di loro, una volta, ma forse è solo una trovata, tanto per attirare più gente.
E’ una litania la sua, non cambia mai registro, monocorde, le frasi sono grani di un rosario, ti stordisce. Senti odore di incenso e fruscio di tonache e veli per il corridoio – dieci pater noster e dieci ave maria, più gloria patri e sicut erat. segue esame di coscienza. vespro. compieta. la preghiera è quasi un dolore fisico. lodi. ritiro in cella, segue esame di coscienza…
Dice che le suore potevano avere contatti col mondo solo attraverso questa cancellata: “Con la benedizione della Correttrice, accompagnate, brevemente e in modo tale che non fosse assolutamente concesso di vederle”.
E’ una frase che non riesco a togliermi dalla testa. Mi ci alzo la mattina, ci convivo, la spezzetto e la ricompongo durante il giorno. Deve essere una roba a effetto che la guida ripete a tutti. Sfilata dal contesto, è inoffensiva, ma è corrosiva, un’ulcera, quando sei lì a fissare quella grata spessa.
Guardo il buio oltre le inferriate, mi ci consumo gli occhi, e penso che forse è quella la felicità perfetta. Deve essere come la prima volta che ti metti gli occhiali e vedi tutto talmente nitido che ti gira la testa. Provo quasi invidia. Persino le vocazioni fasulle e le monacazioni forzate mi sembrano un sollievo rispetto a questo male che ti tiene qui, nessuno escluso, visitatori e pazienti.
Mentre torno in camera di mio padre, mi ripeto che ho fatto la cosa più giusta, che non potevo scegliere posto migliore. Prima del ricovero ci ho pure dormito un paio di notti, tanto per provarlo. Volevo essere sicuro. Ho detto al direttore di trattarmi come gli altri, di servirmi lo stesso cibo, senza fare preferenze. Ho passeggiato nel parco, usato sia il bagno in camera che quello in comune, sul pianerottolo, quello per le urgenze. Ho voluto il nome sulla porta, l’infermiera che mi assistesse ogni momento, il bastone bianco.
In realtà, il bastone qui non serve poi così tanto. E’ un trucchetto per attirare l’attenzione di amici e parenti. E’ la prima cosa che ho imparato. Ci si può muovere per i corridoi con disinvoltura, ci sono segnali acustici dappertutto. Ma non c’è chiasso. Li usano solo le “matricole”, quelli appena arrivati, gli altri conoscono a memoria ogni angolo.
L’unico che non si è ancora abituato è mio padre, ma lui non fa testo, è stato sempre una mosca bianca, anche prima. Non si è mai adattato a niente, a casa, al lavoro. Non ci voleva venire qui, diceva che poteva cavarsela benissimo da solo.
Avevo fatto ristrutturare il suo appartamento, fissare i mobili al pavimento. Il medico era stato perentorio, mai spostare le cose, cambiare troppe abitudini, la ripetitività era essenziale, come per le clarisse – la guida lo ripeteva sempre, forse perché nemmeno quella le era bastata per restarsene chiusa in convento.
Avevo speso una fortuna in elettrodomestici e sistemi sofisticatissimi, ma lui non li usava, aveva strappato via le spine, diceva che non era mica una femminuccia, che non ne aveva bisogno. Versava il vino nel bicchiere senza controllare mai il livello, aveva macchiato tavoli, divani, credenze. Nonostante il rivelatore di luci sonoro, lasciava tutto acceso, giorno e notte. La donna delle pulizie se ne era andata via dopo ventidue anni di servizio.
“Mosche volanti, vedo delle mosche volanti”, aveva detto una sera.
Eravamo a cena, nessuno gli aveva dato retta, ma io no. Era dall’incidente che lo vedevo strano – un banale cortocircuito, il pulsante dell’ascensore di servizio, quello per i domestici, mai revisionato, che fa contatto, mio padre che resta intrappolato tra le fiamme. La fune che si allenta, un volo di tre piani, quel tonfo attutito da una strettoia, i suoi vestiti che sanno ancora di fumo.
Non andavo a trovarlo tanto spesso, ma le volte che passavo, era come se si inceppasse. Metti su un cd e salta il ritornello o ripete all’infinito lo stesso passaggio; così faceva lui: a un tratto si bloccava scendendo dal letto, o al volante dell’auto, a un incrocio, proprio in mezzo. Era andato a sbattere un’altra volta. Niente di grave, un tamponamento, ma era già il terzo nell’ultimo mese.
Si sedeva a capotavola, prendeva forchetta e coltello e si incantava. Ma con rabbia, milioni di scariche elettriche partivano dalle dita, dalla bocca: friggeva.
Un paio di settimane dopo le mosche erano diventate uno sciame. Se mi fissava a lungo potevo sentirle in faccia. Mi prudeva tutto e più mi grattavo, più aumentava, si ramificava lungo i polsi, le gambe, mi teneva sveglio la notte. Ormai avevo le braccia piene di graffi, striature rosso violacee, non sopportavo neanche il contatto coi vestiti. Mi ricordava quando ero stato operato da piccolo e per togliermi il cerotto mi avevano strofinato a sangue il torace con la benzina.
S. mi portò dal dermatologo che mi diede una terapia. La sua voce era un’eco, non riuscivo a memorizzare niente. E’ sempre stato così, ho una specie di blocco, tutto quello che dicono i medici si cancella automaticamente nell’attimo stesso in cui lo dicono. Il più delle volte esco dal loro studio che non so nemmeno perché ci sono andato. Per questo preferisco farmi accompagnare da qualcuno.
Capii solo che il prurito era una roba psicosomatica. Non avevo niente, era una questione di ansia. Presi le pillole, seguii scrupolosamente la cura, ma mi riempii di macchie, sul palmo della mani, sulle palpebre. Sembrava un violento eritema, una malattia esantematica.
“Sai quello che devi fare”, disse S., spalmandomi la pomata di arnica sulle braccia ustionate.
Smisi di andare a cena da mio padre. Odiavo sedermi a tavola con lui. Mi mandava in bestia sentirlo bere. Era rumoroso, ingordo, mi si chiudeva lo stomaco. E odiavo quel suo modo di parlarti addosso. La voce si sentiva dalla stanza accanto, così ferma, sicura. Per lui il mondo si divideva in vincenti e falliti. Quando andavo al liceo, la domanda di rito era:
“Facciamo una classifica… tra i tuoi compagni, tu a che posto sei? Al primo, vero?”
Anche all’università, non c’era una gran differenza tra un diciotto e un ventinove. Lui si era laureato con due anni di anticipo, aveva vinto una borsa di studio, io ero indietro con gli esami e facevo Lettere e Filosofia.
Mi presentai con S. al cenone di Natale e non fui più invitato. Iniziai a vedere mio padre sempre meno e per meno tempo, ma non miglioravo. Al prurito si era aggiunto un tremolio. Non riuscivo a concentrarmi, era come avere negli occhi un riverbero, gli abbaglianti di un’auto lanciata a duecento all’ora contro di me. Disertare i pranzi non mi aiutava, anzi, provocava una reazione a catena. Avevo troppa rabbia, ed era un rumore di fondo che si attutiva ma non spariva mai completamente. Avevo cominciato a vederle anche io quelle mosche volanti, a imbambolarmi mentre mi radevo.
Era come bere acqua dopo aver svuotato un barattolo intero di peperoncino. Dovevo affrontarlo, sfogarmi, ma su un terreno neutro. Casa sua era contaminata, cominciavo a sentirmi male svoltato l’angolo.
Lo invitai a mangiare fuori. Da me, era escluso, per via di S.. Ero andato ad abitare per conto mio da una decina di anni, ormai, ma non sapeva ancora dove stavo, non lo voleva sapere. Era come se vivessimo in due città diverse, io e lui: Roma e Roma.
Avevo scelto il ristorante dove io e S. eravamo andati a cena la prima volta, ordinato le stesse cose, prenotato lo stesso tavolo. Naturalmente non gli piaceva, come speravo. Il cibo era scadente, il servizio idem, aveva fatto chiamare due volte il cuoco, lasciava tutto nel piatto. Mi ero preparato con cura il discorso, immaginato il momento preciso in cui cominciare; sapevo quando mi avrebbe interrotto e cosa gli avrei risposto.
Avevo scritto su un foglio i punti salienti. Era una specie di elenco, poi mi sarei alzato e sarei andato via, così, di colpo. Mi ero esercitato per tutta la settimana, in bagno, al cinema (ogni volta che partiva la musica), in coda al supermercato. Lo sapevo a memoria.
“Che c’è che non ha funzionato? Non hai avuto il coraggio?”
“No, mi sono distratto”.
S. era rimasto zitto, la bottiglia del porto in una mano, il tappo nell’altra. Avevamo fatto le cose per bene, ricreato la location, buttato giù una specie di canovaccio, ci eravamo persino scambiati le parti. S. mi aveva messo alla prova, era stato feroce: ero troppo gobbo, troppo defilato, troppo aggressivo. Facevo troppe pause, la voce era troppo bassa, troppo trattenuta in gola, troppo mia.
Non sapevo cosa mettermi e avevamo passato il pomeriggio a scegliere il vestito. Per S. dovevamo comprarci qualcosa di nuovo. Aveva svuotato l’armadio e messo i nostri vestiti nei sacchi di nylon. Mi aveva trascinato in centro e aveva dato fondo alla carta di credito. Era anche una necessità, nell’ultimo mese ero aumentato di due taglie. Avevo fatto una cura massiccia di cortisone, per via delle macchie, ma era come se il mio corpo trattenesse tutto, lo conservava per le emergenze – i polmoni avevano una riserva in più, centellinavo pure l’aria che respiravo. Galleggiavo, accovacciato sulla superficie, rattrappito. Restavo immobile, il più piccolo movimento provocava un maremoto.
S. mi aveva dato un passaggio fino al ristorante. Ero pronto, non dovevo preoccuparmi di niente. Avevamo calcolato tutto, tutto, tranne quello.
Sì, mi ero distratto. Cos’è una distrazione? La tessera mancante, una specie di colpo di scena. Terzo atto. Amleto è nascosto dietro le quinte. Tocca a lui. Ogni sera, quando attacca l’essere o non essere, il pubblico è nelle sue mani, può tenerlo in apnea quanto vuole, ne regola il polso, il respiro. Ma quando entra in scena qualcosa va storto. Polonio gli porge male la battuta, ed è questione di poco, di un paio di consonanti al massimo, ma tutto si congela. La platea è un pozzo nero, una bocca spalancata: Amleto è nel ventre del mostro.
Lo stesso era successo a me. Mi ero seduto, avevo scelto il vino che detestava. Di solito mio padre ordinava, poi metteva giù il menu e partiva col solito terzo grado. Era il mio momento, ero in posizione, pronto a scattare, ma lui si era girato e aveva richiamato il cameriere. Il filetto al pepe verde lo voleva tagliato a pezzetti non troppo piccoli, né troppo grandi: il giusto. Quello aveva alzato lo sguardo dal blocchetto e ci aveva fissato senza espressione; indeciso se farselo ripetere o passare la patata bollente al cuoco.
Aveva mangiato avidamente come sempre, ma c’era qualcosa che stonava. Infilzava la forchetta nella carne con furia, la avvicinava alla bocca e poi esitava, come se quel gesto fosse in anticipo o in ritardo, fuori sinc.
Urtava tutto. Il tovagliolo gli era caduto a terra e non l’aveva raccolto. Quando ci avevano portato la lista dei dolci, mi aveva chiesto di ordinare anche per lui.
S. non ci aveva voluto credere.
“E’ una cazzata, dai, lui che si fida… Te la sei fatta sotto, confessa”.
Avevo detto più o meno la stessa cosa a mio padre quando mi aveva passato il menu. Aveva spento la sigaretta infastidito, si era alzato e si era chiuso in bagno per una ventina di minuti.
Al tavolo di fianco, un ragazzino di dodici anni si tormentava le pellicine delle unghie, del pollice, per esattezza. E più la madre glielo strappava via di bocca, più lui insisteva, ma con calma, soprappensiero. Aveva smesso solo quando la donna aveva chiuso gli occhi, arresa. Non l’aveva fatto apertamente, ma io che gli ero proprio accanto avevo intravisto i denti serrati, le labbra distese in un sorriso di trionfo.
Quando mio padre era tornato, lo avevo pregato di versarmi il vino. Avevo dovuto chiedere al comis di cambiarci la tovaglia e portarmi uno smacchiatore per i pantaloni – li conservo ancora. Non li mai ho portati in tintoria, li ho piegati con cura e messi nell’armadio. Erano il futuro.
La mattina dopo, avevo notato che la fasciatura sul braccio c’era ancora. Non l’avevo grattata via come facevo ogni notte. La pelle era meno arrossata, i graffi si stavano già rimarginando.
Allora capii. Non era il tempo di esposizione allo stress che mandava in corto circuito i miei nervi e il mio sistema immunitario, ma la qualità dell’esposizione.
Decisi di farlo ricoverare.
E’ un posto famoso, questo, può ospitare solo una ventina di degenti, contro le migliaia di richieste l’anno. Sono stato fortunato, uno dei tanti amici di mio padre è il fratello del direttore. Gli hanno fatto una visita accurata, però, perché qui ci si occupa quasi esclusivamente dei pazienti più gravi, compromessi, senza eccezioni o favoritismi.
L’hanno fatto spogliare, sedere sul lettino, gli hanno fatto ogni genere di analisi. Non era saltato fuori niente, a parte la malattia, s’intende. Il medico era entusiasta, era sano come un pesce, a parte la malattia, s’intende. La verità è che non volevano grane, non volevano ritrovarsi con un degente che in più aveva anche il diabete, o l’ipertensione. Non erano pagati per questo. Non era mica un ospedale, qui il paziente doveva contrarsi su due obiettivi: l’accettazione della malattia e il recupero. Il direttore continuava a ripetere che il novantanove per cento dei dimessi ora aveva una vita normale, forse persino migliore di quella di prima. Sicuramente più serena e autonoma.
“E’ anche colpa dei familiari”, aveva aggiunto, “Che finiscono per compatirli. E questo è un male, il male peggiore. A parte la malattia, si intende”.
Mentre tornavo a casa pensavo a tutti quegli a parte. A quell’un per cento che non ce l’aveva fatta. E se mio padre fosse stato uno dei quelli? In fondo era possibile, no? Le statistiche si reggono su questo, sulle probabilità di successo e insuccesso. S. sosteneva che non era un’eventualità, ma una certezza. Era un uomo abituato a comandare, tanto più adesso, conciato così. Non si sarebbe mai fatto curare.
Gli avevo risposto che non me ne importava niente, che avevo scelto quel posto così fuori mano solo per andarlo a guardare, mio padre, ogni santa domenica; guardarlo e basta, come si guarda un insetto intrappolato in un bicchiere.
“Se vuoi qualche volta ti accompagno”, aveva sussurrato S. portandosi la tazzina di caffè alle labbra.
Lo ricoverarono una paio di settimane dopo la visita di controllo. S. mi aiutò a farlo salire in macchina, da solo non ce l’avrei mai fatta. Non perché si divincolasse o si lamentasse, anzi, se ne restava immobile, a peso morto. Durante il tragitto lo sentivo respirare dietro di me, seduto sul sedile posteriore, e non riuscivo a capire se dormiva o no. Non lo capivo quasi mai, provavo sempre un misto di frustrazione e sollievo.
Una volta l’avevo osservato a lungo, mi ci ero messo d’impegno. Le pupille si dilatavano e si contraevano continuamente, come se tutto il sistema fosse andato in tilt. Ma mi avevano colpito le ciglia. Non le sbatteva mai. Avrei voluto sfiorarle, però avevo paura che se ne rendesse conto e mi ero limitato a guardarlo da molto vicino. In realtà, erano tutt’altro che immobili, anzi, vibravano impercettibilmente. Erano vive, dei radar: intercettavano il nemico ed elaboravano istantaneamente strategie di attacco e difesa.
Scesi dall’auto e pregai gli inservienti di mostrare la stanza a mio padre. Erano in due, quello giovane si era voltato a guardarmi, era quasi inciampato.
Era la camera più lussuosa, sembrava di stare in un acquario, tutta a vetri. Avevo dovuto aspettare parecchio e pagare un sovrapprezzo, ma ne valeva la pena. Mi spiegarono che faceva parte del chiostro che avevano chiuso e inglobato nella struttura ricavando una decina di stanze. Da lì, la sera, la città era un’aureola, una brace che ardeva tutt’intorno all’ex-convento.
Ero tornato da S. a notte fonda, mi ero infilato a letto e l’avevo scopato come facevo all’inizio, cogliendolo nel sonno, indifeso, premendogli la testa contro il cuscino. Una macchia di saliva si allargava sul lenzuolo, le dita si contraevano, col corpo gli impedivo di liberarsi. Sapevo cosa lo faceva godere, lo spingevo fino al limite, e poi mi fermavo. Così per ore, avevo crampi dappertutto.
S. mi aveva preso in braccio, messo nella vasca, lavato, poi mi aveva avvolto nell’accappatoio e asciugato. Si prendeva cura di me, mi imboccava, mi dava da bere, placava l’arsura insopportabile che avevo in gola.
“Mi ha ricordato l’incendio”, dissi, “La città così luminosa tutto intorno al convento, mi ha ricordato l’incendio…”
“Lo so”, aveva risposto S., accarezzandomi con una specie di sorriso.
Non era andato al lavoro per tutta la settimana, mi aveva tenuto stretto dentro di sé, incollato, ogni volta che avevo voluto.
Quando ero tornato in clinica mi avevano detto che l’infermiera a cui l’avevano affidato aveva avuto un malore e l’avevano dovuta imbottire di calmanti.
E’ capitato anche l’altro giorno, l’ultima che lo assisteva, la più anziana, quella con più esperienza di tutte, ha presentato le dimissioni.
Non prende mai le medicine, si rifiuta di uscire, si veste da solo, guai solo a sfiorarlo, non si rassegna a indossare quella specie di vestaglia che hanno tutti qui dentro. Mette le maglie al rovescio, è imbarazzante. Lo riconosco subito, dal parcheggio. Ha preteso che gli portassero i suoi vestiti, non ha mai disdetto l’abbonamento al quotidiano. Non vuole che lo prenda sottobraccio. Mi cammina accanto. Infila la mano in tasca e a intervalli regolari, mi sfiora la gamba.
Pensa che non me ne accorga, si scusa, finge di avermi urtato. Io lo lascio fare. Non sempre, a volte mi allontano apposta e lo guardo. Mi fa impressione come muove la testa. E’ inclinata quasi impercettibilmente indietro, fissa. Mi ricorda mia sorella che aveva la fobia delle falene. Diceva che la cosa peggiore per lei, era sentirsele in faccia, aveva paura che si impigliassero tra i capelli, le entrassero in bocca.
Così fa lui, chiude tutto e manda avanti il busto. Questo lo fa sembrare più vecchio. E’ la rigidità, l’imprecisione con cui afferra le cose, con cui mangia, beve, si sistema i capelli. Ogni gesto familiare, scontato, è come sbiadito, è solo il riverbero, una copia abbozzata dell’originale. Ed è affamato, raschia il fondo. C’è un gran tintinnare di forchette, di bicchieri sbattuti sui tavoli, sul comodino, conficcati. Il rasoio è una mannaia, un bottone che entra nell’asola è una palla da bowling allo strike. Io sono solo di mezzo.
Quando ho tempo porto con me un po’ di carta intestata. Gli dico che quei biglietti sono dei colleghi, che lo salutano tanto. Lui li chiama vigliacchi. Non si sono dimenticati di lui, è che hanno paura, per questo non vengono mai a trovarlo. Lo temono e così preferiscono scrivergli due righe. Io glieli passo, lui finge di non aver voglia, di non avere con sé gli occhiali e me li fa leggere. Invento, dico la prima cosa che mi viene in mente, resto sempre sul vago. Non lo faccio per sentirmi più buono, per tirarlo su, non mi prendo cura di lui, anzi, gli rammento che ha un debito con me e lo metto nero su bianco. Gli ricordo che è sparito di colpo, che è in quell’attimo preciso in cui automaticamente sbattiamo le palpebre e, senza accorgercene, tutto intorno a noi svanisce per una frazione di millesimo di secondo.
S. sostiene che a volte mi comporto da ragazzino, che esagero e che prima o poi la smetterà di accompagnarmi. Ma prima o poi significa mai, lo so. Lo conosco. Sale in macchina quasi infastidito, armeggia col volume della radio, la cintura di sicurezza, mi racconta dettagli davvero poco interessanti, gli spiccioli della sua giornata. Io lo provoco. Resto zitto e questo lo fa impazzire. Se mi chiedessero un parere su come torturarlo risponderei: “Fissatelo in silenzio, non rispondete mai alle sue domande, mai, fate finta che non esista”.
Così faccio io, ma solo fino al cancello, poi inchiodo, gli metto una mano tra le gambe e gli dico di non rompere, che se vuole scendere è ancora in tempo. Funziona sempre. E’ questo che gli serve, una scusa per sentirsi in salvo: una giustificazione qualunque. Se vuoi andartene di qui, devi proprio volerlo, deve essere una fuga. Mentre attraversiamo il parcheggio, S. mi cammina davanti, poi rallenta, allunga le dita dietro di sé e mi stringe.
Mio padre non chiede mai di lui, non lo saluta neanche, ma sa benissimo che è vicino a me, proprio di fianco, che siamo in tre a sfinire questi corridoi – una matassa di vene sfiancate, livide. Io lo assecondo, resto zitto, ma quando gli racconto qualcosa, dico noi anche se non c’entra niente.
S. mi guarda e basta. Prima, invece, tutto questo gli faceva male, aveva usato proprio questa parola: “fa male”. Passavamo giornate intere a consolarci, a urlarci addosso, a fare l’amore ingoiandoci. Lo tenevo dentro di me, mi riempiva. Adesso si addormenta pure, ogni tanto. Mi piace pensare che lo fa per me, in qualche modo, senza dirlo, gratuitamente. Fai la spesa, ti avanza del resto e lo lasci al primo disperato che ti lava il parabrezza. Ecco, deve essere andata proprio così. So cosa prova, fa male anche a me, ed è un dolore a lunga conservazione, che non passa: un riflesso condizionato. E’ un credito con mio padre e non voglio sperperarlo. Metto tutto sottovuoto, in un sacchetto di plastica trasparente perché sia visibile a chiunque.
S. pensa che sono crudele, più crudele di lui. Ha ragione, ma ogni cosa qui dentro è crudele, basta guardarsi un po’ intorno: questi interruttori, i finestroni che sfondano i soffitti, il muro di cinta che costringe una manciata di vecchi in quarantena, filtra i suoni, ti narcotizza. Capita anche a me, perdo tempo e non me ne rendo conto. Ristagno, appoggiato a uno stipite, alla ringhiera del letto, davanti alle foto che adornano l’ingresso: primi piani, gruppi di pazienti, visitatori, persino una scolaresca – è educativo, pare, mostrare la sofferenza.
Mi piace l’odore di questo posto, che trasuda dagli armadi, dalle lenzuola, e mi piace pensare che lascio anche io un po’ di umore, che lo ritrovo addosso a mio padre quando torno. Mi fa sentire a pieno, lo respiro fino in fondo, il piacere e dolore della perdita, delle cose che finiscono. Un panorama che sbiadisce, lentamente, un grado dopo l’altro, il divano che si sdoppia, si allontana fino a diventare un puntino, una macchia da grattare via insieme a tutto quanto il resto. Il resto di tutto. Dovrebbe arrivare un avviso di sospensione, con tanto di numero utente, intestazione, ed elenco delle fatture insolute, e invece una mattina qualunque ti ritrovi qui, tra le siepi perfettamente squadrate, sottobraccio a una tizia che continua a ripeterti quanto sono lieti di ospitarti e come ti troverai bene. Ad elencarti una serie di attività sempre comprese nel prezzo.
C’è pure un percorso interattivo per amici e parenti, una specie di viaggio ai confini del mondo. Entri in un corridoio molto stretto, le pareti e la moquette nera, i fari sparatissimi. Le luci si affievoliscono lentamente, poi giri l’angolo ed è il nulla.
A un certo punto, ti fanno anche indossare una mascherina e ti portano a spasso nel parco, ti servono il pranzo. Sono molto severi, però, devi compilare un questionario, incontrare uno psicologo, fare dei test.
Mi piace questo rigore, mi fa sentire protetto. E’ come se si sciogliesse un nodo, si ammorbidisse, sto subito meglio. C’è una cura dei dettagli che fuori di qui sarebbe maniacale: dai tovaglioli con le iniziali stampate sopra (ogni paziente ne ha uno diverso e di diverso colore), ai piatti e bicchieri decorati a mano, agli specchi imponenti che abbelliscono ogni stanza.
Mio padre non lo sopporta, dice che si sente sotto naftalina. E’ una reazione normale, poi ci si abitua, anzi, non si può più fare a meno di questo posto. E’ come una seconda pelle, un altro paio di polmoni, braccia e gambe. Si prova dolore, dolore fisico quando si è costretti, per qualunque motivo, ad andar via.
Forse è di questo che ha paura, più che della sua malattia, forse è per questo non ha ancora legato con nessuno. E’ qui da sei mesi e non sa neppure come si chiama il paziente della stanza accanto. Esce solo per la passeggiata pomeridiana. Si fa portare pranzo e cena in camera. Questo lo fa sentire potente, crede di avere più controllo. Ha ricreato quasi alla perfezione la sua camera da letto, il suo studio. Gli stessi mobili, persino la carta da parati.
A casa c’è un buco. Se cerco di visualizzare l’appartamento dei miei, non c’è più un pezzo. Ci vado solo lo stretto indispensabile, per prendere la posta e dare una pulita, ma ogni volta mi fa effetto. Guardo le camere che si affacciano sul corridoio, ed è come se ne mancasse una. E’ un sogno ricorrente. Sento un rumore, cerco di entrare nella stanza ma la maniglia si sbriciola. Oppure precipito giù perché non c’è più il pavimento.
Mi fa pensare a quando fai il trasloco e ti smantellano la casa intorno. O quando non trovi una cosa. Ti sforzi di ricordare dove l’hai messa, vai a ritroso. Fai esattamente quello che fai ogni giorno, ma manca un tassello, qualcosa che è sfuggito al controllo, che hai fatto soprapensiero.
Forse è questo che si prova, che hanno provato tutti qui dentro e che provano ogni santo giorno. Ecco perché consentono ai pazienti di portare solo poche cose, l’essenziale. Anche le camere, le ex-celle, sono molto piccole. A parte quella di mio padre. E’ che io ho oliato le persone giuste, quelle che gli dovevano un favore, che ormai si credevano al sicuro.
E allora quando vengo a trovarlo porto via qualcosa, smonto la stanza pezzo per pezzo. E’ come giocare a Shangai. Lo faccio piano, con cautela, da mesi, ma non sono poi così sicuro che funzioni. Fa finta di niente, si ostina a restarsene rinchiuso, isolato. Mi manda in bestia vederlo così. Mio padre non è per niente una vittima come pensa, mai stato, e invece mi chiama con quel tono lamentoso, che si sfilaccia alla fine, si assottiglia, così falso. Detesto tutte quelle pause che fa quando ti racconta qualcosa. Non lo sopporto. Gli parlo sopra, basta che apra bocca e mi offende, gli parlo sopra, alzo il volume della tele al massimo. Lo facevo anche da piccolo o mi masturbavo da strapparmelo via, seduto sul sedile posteriore dell’auto, proprio al centro, per farmi vedere nello specchietto retrovisore.
Ma qui è impossibile masturbarsi, è impossibile alzare la voce, sbattere la porta. Non mi viene. Ogni volta mi riprometto di farlo, sul serio, ma me ne dimentico. Osservo mio padre, lo osservo bene, a lungo, e penso che è tutto concentrato negli occhi, ingoiato, tutto nello sguardo – la pietà, l’orrore, il piacere, la vergogna. Penso che i bambini appena nati sono ciechi e allora forse è una rinascita, mi chiedo, forse questo è l’inizio di tutto il dolore del mondo.
E’ un pensiero che scaccio in fretta, insieme ai moscerini attirati dall’uva che marcisce sul tavolo – tavolo che marcisce sulla moquette, moquette che marcisce sul pavimento, pavimento che marcisce sotto i miei piedi, i suoi, insieme alla finestra, alle pareti, il soffitto. Sono una miriade, passano attraverso la zanzariera, la sfondano. Si chiama istinto di sopravvivenza, questa forza che strappa il libero arbitrio di dosso, lo fa a brandelli, ti riduce al grado zero, proprio come questo posto.
Gli spalmo la crema da barba sul viso e lo osservo riflesso nello specchio, la camicia aperta sul torace bianchissimo, glabro, le mani aggrappate al lavandino. Sembra un oggetto, un soprammobile d’avorio. Io lo spolvero con cura, come se fossi pagato per farlo.
Intingo il rasoio nell’acqua tiepida, guardo il sapone che si raggruma, resta a galla e piano piano mi tornano in mente i pezzi del sogno. Mio padre è in sala d’aspetto, sul divanetto. Sono in ritardo, non mi sento in colpa, eppure invento una scusa ridicola. Mentre la dico, mi chiedo perché la dico, perché ho le mani tutte sporche di pennarello, le gambe leggere. Guardo giù e mi accorgo che per toccare il tappeto devo allungare le punte. Vorrei urlare, invece farfuglio qualcosa che rimbomba nella mia testa così a lungo che fa quasi male.
Lui fa solo: “Scandisci le parole”, solo questo, e l’aria si congela di colpo. E’ ghiaccio secco che ti stacca la pelle dalle dita.
“E poi?”, S. me lo chiede steso sul letto, a pancia in sotto. Scrive sempre i sogni che fa, ha un quaderno apposta, “… Poi che succede? Te lo ricordi?”
Gli faccio segno di sì, e mi rannicchio in mezzo ai suoi gomiti, contro lo sterno. Si china, con le labbra mi sfiora i capelli, lo sento respirare. Ho i brividi fino a metà coscia.
E poi. E poi con uno sforzo immane, uno strappo, scendo giù dal divanetto. Vorrei afferrarlo per la giacca e sbatterlo al muro, ma non ci riesco, mi sfugge. Solo allora mi accorgo che la tappezzeria ha rivestito il lampadario, le maniglie, le piante stinte; che gli si è incollata addosso in modo così aderente che intravedo le narici, le rughe intorno agli occhi, sulla fronte.
Lo racconto a mio padre, non tralascio nessun dettaglio. Lui fa una smorfia, accartoccia le labbra, come se stesse buttando giù un boccone troppo grosso. Quando ho finito, mi siedo sulla poltrona che ha fatto portare da casa e mi addormento. Sogno ancora, non sogno, ne ho una sensazione vaga dietro la testa, all’attaccatura dei capelli. Apro gli occhi. Tutto cede, si disfa, e c’è odore di minestra. Lui sta mangiando, ed è una cosa rivoltante come lascia che il brodo gli coli sul mento. Vuole farmi sentire in colpa, invece lo saluto senza toccarlo e imbocco la porta.
Dò la mancia al guardiano perché mi tenga sempre libero il posto sotto i pini fossili e scaldo la macchina – i fari squagliano il viale d’accesso, il cancello. Di solito, vado via col buio. Mi ci immergo, lo sento addosso. E’ umido, sa di dopobarba.
S. dice che è pericoloso. A me, invece, dà sicurezza. Mi è sempre piaciuto, fin da ragazzino. Portavo fuori il cane infilandomi in strade secondarie, vicoletti. Sembra irreale, stonato, ma il buio in città, quando è buio davvero, è buio pesto. Non mi fa paura, nemmeno dopo l’incidente. Eppure mi sono preso il peggio: quel tizio che spingeva, mi tappava la bocca e che un paio di giorni dopo mi ha telefonato perché sentiva la mia mancanza.
Insomma, dovevano punirci, lui e i suoi amici, darci una bella lezione, e invece alla fine sembrava averci preso pure gusto. Per un po’ mi ha anche seguito. Stavo andando proprio da mio padre. Ha parcheggiato l’auto nel piazzale e mi ha aspettato. Non ha resistito mezz’ora. Quei vecchi devono averlo spaventato. Sono un branco, te li ritrovi addosso senza nemmeno accorgertene. Ti scambiano per qualcun altro, e non tutti lo sopportano, parenti compresi, anzi, soprattutto i parenti stretti.
I primi giorni del ricovero vengono in massa, è una processione. Schiamazzano, cercano di tirargli su il morale a quel marito, padre, madre, fratello a cui, all’improvviso o nel giro di anni, è sparita la casa intorno. Ma non reggono a lungo, durano poco, come una sbornia leggera che passa in fretta. Forse si sentono ridicoli, o forse è come avere tra le mani qualcosa che non si aggiusta. Lo prendi, lo incolli, lo mostri soddisfatto, ma c’è sempre quella crepa, quella frattura, come una ferita che non si rimargina. Appena lo sposti ti rimane in mano un pezzo e sei punto e a capo.
Gli orari di visita sono un sollievo, così ridotti, in mezzo alla settimana, proprio all’ora di pranzo, nel primo pomeriggio. Se vieni a trovare qualcuno, magari dorme, e se non lo vieni a trovare è perché proprio non puoi, perché il lavoro o i bambini da andare a prendere a scuola te lo impediscono. Non è colpa tua, sono gli orari balordi, che non tengono assolutamente conto né delle tue esigenze, né di quelle del paziente. Ma la verità, quella che non si dice, è che quegli occhi chiusi fanno a pezzi tutto, lo sbriciolano, e quando vai via di qui hai in mano quei frammenti piccolissimi, farinosi, che ti restano sotto le unghie, ti entrano nei bronchi e non hai più fiato.
Naturalmente questo non vale per me, non sgarro mai una domenica, che sia Natale, Pasqua, ferragosto. Io vengo qui per riscuotere. Ecco perché mi fermo così a lungo – ore, minuti, millesimi di secondi, apnee, crampi – ; da quando aprono i cancelli a quando chiudono a chiave le camere. E’ per precauzione, dicono, per il bene dei pazienti. Sono loro stessi a chiederlo. Non subito, dopo qualche mese, quando capiscono di respirare al rallenti, fuori della loro stanza.
Esco. Attraverso il piazzale. La cancellata disegna delle ombre nette, squadrate sul cemento – io sono un’imperfezione, uno scarabocchio.
Salgo in macchina, allaccio la cintura di sicurezza. In genere resto ben oltre l’orario di visita, ma ormai nessuno fa più caso a me, addetti, infermieri, degenti. Mi lasciano fare un po’ quello che voglio, perché mio padre è un grosso ematoma, proprio sotto lo sterno, e io mi sto curando.
Bel pezzo, niente da dire. Emoziona senza ricercarlo, scava nella carne senza esibirla.
Scelta interessante Christian.
Si. Una volta guarito ridiventa solo un povero vecchio.
i miei complimenti all’autrice Flavia Ganzenua per il suo bellissimo testo credo, d’esordio su Nazione Indiana.
vorrei dire di più, spero di poterlo fare a breve.
per intanto noto una certa trascuratezza di commenti.
è davvero un peccato.
forse incanalare un po’ di energia per commentare testi come questo non sarebbe uno spreco.
un saluto
paola
che bello leggerti. ben trovata,
t.
un racconto questo che ti scortica la pelle, difficile dire, aggiungere qualcosa, per questo penso ci siano pochi commenti.
I miei complimenti all’autrice. Lucia
sarebbe molto gradita un’apparizione (anche fugace) dell’autrice.
io personalmente non sopporto molto commentare senza replica… voi penserete: ecchissenefrega. va beh. però una risposta – positiva o negativa – la trovo sempre una forma di rispetto in primis di chi pubblica verso se stesso e poi per i commentatori.
poi… fate vobis.
un saluto
paola
E per quale motivo? L’autore scrive, pubblica, cerca di fare un buon lavoro: è questa la fondamentale forma di rispetto per se stessi e per il pubblico (il tentativo di fare un buon lavoro).
Poi, di contro, la vera forma di rispetto che un lettore, un commentatore, deve nutrire nei confronti dell’autore è quello di accettare, per esempio, l’eventuale volontà, da parte dell’autore medesimo, di parlare solo attraverso la propria opera, il proprio intervento, il proprio racconto etc.
La pretesa di una replica mi sembra un po’ una cosa assurda (non me ne volere cara polvere).
E poi, anche nel caso, nel caso specifico di questi post, a cosa precisamente dovrebbe rispondere l’autrice? Uno scrive un racconto. Un lettore dice: “brava l’autrice, racconto riuscito, commovente”, oppure “racconto intenso”, oppure “racconto poco intenso”.
Insomma, un commento del genere, oltre a fare piacere all’autore (e sono d’accordo, il racconto è bello) quale reazione o replica dovrebbe scatenare?
@ Hoombert
intanto, no, certo che non è una pretesa.
intendeva essere una semplice esortazione a prendersi un po’ più cura del lettore laddove lo scrittore se la può concedere.
un esordio su N.I. credo sia una misura importante, o no?
il riscontro favorevole o contrario dei lettori lo si dovrebbe onorare almeno qui, proprio per la posizione privilegiata che permette di sottoporre i propri testi a un largo pubblico.
è questa la cura che manca un po’ in giro, anche nei piccoli blog.
non è una presa di posizione personale verso l’autrice che magari per motivi suoi non può intervenire – cosa che è anche da prendere in considerazione – ma una piccola riflessione che ho allargato un po’ più generalmente.
poi… come non detto e sicuramente non te ne voglio.
paola
Un racconto davvero commovente.
Ho molto apprezzato questa sensibilità femminile: il vincolo tra figlia e padre è primordiale:vincolo di prossimità fisica, d’amore, di paura.
Sono contenta quando leggo una storia scritta con pudore e acutezza.
Condivido il punto di vista presentato da Humbert Goombert.
L’autrice dà luce alla storia, non c’entra con il “viaggio” che fa la storia nella mente dei lettori.