Se la critica muore
di Gabriele Pedullà
Le premesse sono note. Lo strapotere della distribuzione nel determinare l’offerta culturale; il riorientarsi delle librerie Feltrinelli verso il mass market, con un taglio del 30% dei titoli prima normalmente disponibili così da ridurre i costi di gestione (meglio vendere dieci copie del solito, ecumenico Ammanniti che quindici di altrettanti autori diversi); la sempre più rapida senescenza dei nuovi libri che ormai hanno una vita sugli scaffali di meno di tre mesi; insomma la crisi, forse irreversibile, della “bibliodiversità”… E ancora (questa volta dal punto di vista delle case editrici): l’imperativo di guadagnare su ogni singolo libro, rinunciando a compensare le perdite o anche solo i modesti profitti dei titoli più difficili con i titoli di maggior successo commerciale; le costrizioni dei bilanci preventivi, che obbligano i management delle imprese a replicare risultati eccezionalmente buoni, trasformando l’eccezione in norma, con conseguente riduzione dei margini di manovra e degli spazi per i volumi meno accessibili al grande pubblico… In fondo non è nemmeno il caso di scandalizzarsi: non essendo associazioni di beneficenza ma imprese private, le case editrici si sono preoccupate sempre dei propri bilanci, sebbene la massimizzazione dei margini di profitto perseguita negli ultimi anni abbia incrinato un equilibrio già di per sé molto precario tra qualità e quantità. Se l’effetto del cambiamento sembra così dirompente è perché è mutato il sistema attorno ad esse, dall’università delle mille lauree honoris causa ai giornali dei mille gadget. Un sistema sano in cui tutti fanno il proprio dovere si regge sul libero confronto tra poli diversi: c’è l’autore, che scrive; c’è l’editore, che seleziona le opere; ci sono i critici, che esprimono un parere su quanto pubblicato; c’è infine l’università, dove i valori si assestano lentamente e per ipotesi successive. Il tutto secondo un principio di equilibrio e separazione dei poteri non troppo diverso da quello teorizzato da Montesquieu per i sistemi politici e in base al quale non dovrebbe mai essere la stessa persona a fare le leggi, ad applicarle e a sanzionare l’operato dei cittadini.
Per lungo tempo tale indispensabile funzione di sorveglianza è stata demandata soprattutto alle pagine culturali dei quotidiani; oggi, al principio del XXI secolo, si può dire che questa fase storica sia sostanzialmente finita. Una lenta agonia è stata accelerata da tre fenomeni più recenti: il diluvio di anticipazioni, le promozioni dei libri in vendita con i giornali, il diffondersi delle recensioni in subappalto. I primi due sono troppo evidenti perché sia necessario soffermarvisi: basterà notare che da un certo momento in poi le pagine culturali hanno rinunciato a esercitare il proprio diritto/dovere di critica preferendo ospitare stralci dei libri in uscita (dei veri e propri “trailer”, presentati senza alcun commento) e che questa tendenza si è ulteriormente accentuata da quando i quotidiani si sono fatti editori in proprio, dedicando una parte consistente delle proprie terze pagine alla promozione dei volumi in vendita. Più interessante, perché più subdolo, il terzo fenomeno, che consiste nel pubblicare recensioni dei grandi nomi della letteratura contemporanea (da De Lillo a Wallace, da Auster a Franzen) ai quindici o venti presunti esordienti di genio che ogni anno sforna la macchina editoriale USA – recensioni scrupolosamente acquistate, tradotte e poi fornite a titolo gratuito dagli uffici stampa della casa editrice che si appresta a pubblicare il romanzo in Italia. Alla fine, verosimilmente, saranno tutti contenti: l’editore, che si garantisce un lancio esclamativo; il redattore, che non deve nemmeno correggere le bozze; il direttore, che si può fare bello esibendo una firma apprezzata ai quattro angoli del globo; e persino il lettore, che ha l’opportunità di leggere uno dei suoi beniamini senza fare la fatica di cercarsi il pezzo su Internet. Tutti contenti, a parte il fatto che per questa via i giornali rinunciano a esprimere una voce autonoma e si trasformano nel megafono delle case editrici o del proprio ufficio marketing. Quando cade la separazione dei poteri, nessuna vera critica è più possibile e anche la democrazia (delle lettere) entra in pericolo. In economia si potrebbe parlare di trust verticale.
Questa tendenza inarrestabile del nostro tempo viene presentata spesso come un inveramento dei valori egualitari della nostra società: “Non facciamo pedagogia”, “Noi vogliamo solo dare ai lettori quello che ci chiedono”, “Non siamo mica in Unione Sovietica”. Ma davvero la logica dei grandi numeri è più democratica soltanto perché offre a tutti quello che vogliono o credono di volere? In effetti ci sarebbero parecchi argomenti da opporre a questa ricostruzione, a cominciare dal fatto che non è sufficiente il consenso a caratterizzare una democrazia, altrimenti (tanto per rifarsi ancora ai classici della filosofia politica) avrebbero ragione i teorici novecenteschi della leadership carismatica che legittimavano la fine della mediazione parlamentare in nome dell’adesione spontanea delle masse alla volontà del capo. La democrazia è fatta invece soprattutto di procedure e proprio la possibilità di dissentire, la ricchezza del dibattito e l’apertura degli spazi di discussione sono i suoi principali indicatori. Da questo punto di vista la critica (letteraria e non) è importante non tanto o non solo perché aiuta a separare il grano dal loglio, né perché consente di comprendere meglio il senso e il valore di un’opera, ma perché, proponendo delle ipotesi di lettura, sollecita la discussione, invita a verificare di persona, costringe a prendere consapevolezza dei propri gusti motivando adesioni e ripulse.
Il parallelo con la politica non è casuale. Il sistema delle lettere come quello della rappresentanza politica sono sottoposti a una trasformazione rapidissima per effetto delle medesime cause, prima tra tutti il dominio della comunicazione televisiva con i suoi miraggi di immediatezza e di contatto diretto. Nell’epoca delle infinite affabulazioni, in cui nessun ragionamento possiede la forza di persuasione di un testimone in lacrime, è la stessa nozione di critica a risultare scomoda e obsoleta, tanto in letteratura quanto altrove (con quali pericoli per la democrazia è inutile dire). In fondo le case editrici continuano a fare quello che hanno fatto sempre: cercare di vendere i propri libri. A parte la rinuncia dei giornali alla propria funzione di controllo, la vera novità di questi anni è la posizione assunta dai giovani scrittori, che, implicitamente o esplicitamente, manifestano sempre più spesso insofferenza o sufficienza per qualsiasi forma di mediazione culturale, con un atteggiamento che ricorda l’avversione dei politici per i giornalisti che con le proprie obiezioni e domande scomode osano frapporsi tra loro e gli elettori (due fenomeni che forse bisognerebbe leggere alla luce delle acutissime pagine di Toqueville su democrazia e bonapartismo).
Se si volesse indicare la data d’inizio di questo processo, si potrebbe risalire alla metà degli anni Novanta e alla durissima polemica che sulle pagine del “Corriere della Sera” vide contrapposti Michele Mari e Sandro Veronesi (i due narratori italiani più dotati di quegli anni) a proposito dell’affermazione di quest’ultimo che soltanto i coetanei avrebbero dovuto recensire i nuovi romanzieri. Dopo dieci anni, nei fatti, la linea Veronesi ha trionfato e anzi la boutade di allora appare oggi non più che un’avvisaglia e un timido accenno di quello che sarebbe successo in seguito. Avvalendosi dei loro nomi di maggior richiamo, è sempre più frequente che i romanzieri italiani “facciano tutto da soli”, così che spesso a recensire in termini entusiastici il giovane scrittore X è il giovane scrittore Y – in attesa, verosimilmente, di ricevere indietro il favore.
Non è escluso che questa tendenza autarchica un giorno travolgerà le stesse case editrici. La novità rivoluzionaria (per ora solo sulla carta) di un progetto come quello della Fandango risiede precisamente nel tentativo di mettere in piedi una “United Artist” che federando una serie di narratori di successo cancelli anche l’ultimo intermediario tra chi scrive e chi legge – un po’ come è avvenuto nella New Hollywood, dove gli agenti e le star hanno preso il posto una volta occupato dagli studios. Gli autori certo, per crescere e imporsi, hanno bisogno di interpreti, ma non è detto che questa funzione essenziale, un tempo demandata ai critici, debba essere anche in futuro affidata a essi. L’affermarsi di figure come quelle dell’editor e dell’agente sembra indicare esattamente il contrario. Si direbbe che la società letteraria si stia conformando in ritardo al modello che da alcuni decenni domina nel mondo dell’arte, con l’eclissi del critico come figura chiave nella ricezione di un’opera, sempre più rimpiazzato dal curatore, un professionista ben retribuito che allestisce la mostra e produce dietro compenso una serie di ragionamenti finalizzati a valorizzare il lavoro dell’artista – a metà strada tra il pubblicitario di alto livello, l’esperto di marketing, il compagno di strada e il critico vecchio stampo. La preparazione e l’intelligenza dei curatori non sono in discussione: quello che però occorre sottolineare è la differenza essenziale della loro posizione rispetto a quella di chi trae altrove le proprie fonti di sostentamento. E che per questo rimane un uomo libero.
In un mondo in cui la nozione di classico s’identifica sempre di più con quella di long seller, anche i narratori sembrano essersi piegati completamente alla logica dei grandi numeri; che oggi anche loro, sulla scia degli artisti, possano essere alla ricerca di curatori e che non sappiano che farsene dei critici può forse dispiacere ma non sorprende. Se nel Novecento gli scrittori da 3000 copie erano orgogliosi di sé e non pensavano che la mancanza di successo di vendite li privasse di qualcosa, oggi si sentono anch’essi, al pari di tutti gli altri, autori di best-seller mancati. Così la speranza di essere il nuovo Piperno o il nuovo Saviano alimenta il conformismo verso la macchina editoriale e l’insofferenza per chiunque non contribuisca a oliare l’ingranaggio. Poiché, come insegna Brecht, non è alle “buone vecchie cose” ma alle “cattive cose nuove” che bisogna rivolgere lo sguardo, dei tanti esempi possibili le risposte di alcuni romanzieri a una recente inchiesta di “Tutto Libri” sui recensori italiani rimangono forse il più istruttivo. Le dichiarazioni di stima per Antonio D’Orrico, che come critico nessuno calcola ma che grazie alle copertine del “Magazine” del “Corriere della Sera” riesce a muovere alcune migliaia di copie, indicano che cosa i nostri giovani narratori si aspettano dai giornali (in quel consesso con le significative eccezioni di Silvia Ballestra e Antonio Scurati). Il populismo – magari ribattezzato anti-paternalismo – si presenta così come la vera cifra della giovane narrativa nostrana. Quando Marco Belpoliti lamenta l’assenza di scrittori criticamente impegnati come quelli della leggendaria generazione degli anni Venti è in fondo anche di questo che parla. È cambiata la realtà ma è cambiata anche la retorica, e se qualche decennio fa era ancora comune la figura dello scrittore istintivo che cercava di tenersi aggiornato e magari faceva finta di conoscere Benjamin e Foucault, adesso è più verosimile immaginare il gesto contrario, con il narratore di grido che occulta le proprie letture e predilige un approccio anti-intellettuale e scanzonato, mimando gli atteggiamenti divistici delle rockstar.
Muore la critica e sulle sue ceneri prosperano i mediocri che non desiderano essere giudicati. In pochi anni il mondo è cambiato e tutti si sono riposizionati: gli editori, i redattori dei grandi quotidiani, i romanzieri e persino quei recensori che hanno rinunciato al proprio ruolo di interpreti per recitare la parte dell’imbonitore e del persuasore occulto. Solo coloro che praticano la critica nell’accezione più tradizionale del termine (pochi, sempre di meno, sempre più marginalizzati) continuano a esercitare l’arte di dire anche di no. Sono loro il granello di sabbia nell’ingranaggio perfetto del mercato editoriale, gli uomini Bartleby del nostro tempo, coloro dai quali dipende la possibilità che ci sia ancora posto per una letteratura non condannata all’eterno ritorno dell’uguale. Vengono tollerati di mala voglia. Ma senza di loro i grandi libri del futuro potrebbero non trovare più nessuno che sappia riconoscerli e valorizzarli.
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[precedentemente pubblicato su “Alias” del manifesto il 20 gennaio 2007]
L’avevo letto.
Adesso voglio vedere chi avrà il coraggio di dire che sbaglia. E soprattutto con quali argomenti.
Appena si vuole insinuare il processo di democrazia in letteratura adios alla letteratura. La cultura non può essere democratica
Ho letto diversi buoni romanzi nel 2006, e per lo più ne ho scoperta l’esistenza su blog come N.I, Vibrisse, Carmilla, da recensioni critiche e dibattiti che spesso non erano encomiastici. Parlo di Siti, Genna, Scurati, Saviano e altri.
Altri imput importanti li trovo su TuttoLibri o Stilos.
E’ in questo modo che l’autore o il libro trovano il loro lettore. In ambienti dove una domanda e una risposta parlano lo stesso linguaggio. E che per gli autori che ho citato non possono più essere i grandi quotidiani, che vincoli editoriali spingono a recensire il libro più commerciale, promosso in grande stile, il libro destinato ai grandi numeri perchè concepito per quello.
E’ inevitabile che Dan Brown venda più di Siti, mi stupirei del contrario: l’importante per me è che Siti trovi i suoi lettori, attraverso un media che i suoi lettori possono frequentrare e che non sarà lo stesso in cui campeggia il Codice da Vinci. Non c’è niente di male in una cultura democratica (dove tutti leggono e scrivono anzichè pochi) a meno che il gusto della maggioranza non fagociti una minoranza dal palato più raffinato. Oggi più che mai il lettore deve strappare alla logica di mercato uno spazio critico che non si identifichi con la promozione commerciale, e il blog lo è.
Ecco perchè, anche se ogni tanto ci lascio un po’ di bile, viva N.I. e simili
Secondo me sulla prima frase “Le premesse sono note” bisognerebbe tenere presente Gomorra di Saviano: a volte le cose sono sotto gli occhi di tutti ma questo non significa che tutti se le rappresentino e percepiscano l’estensione della cosa.
Da “consumatore” di libri questo cambiamento della distribuzione l’ho sentito benissimo, e sento che leggere le recensioni giornalistiche è spessissimo tempo buttato, e la qualità delle pubblicazioni (soprattutto dei grandi blasonati editori) è in picchiata. Però facendo notare queste cose sul web ho SEMPRE trovato qualcuno che mi attaccava, anche sul piano personale. Per esempio, sull’argomento distribuzione tagliata – quando andava bene – mi rimproveravano di non conoscere gli strumenti della rete (dopo qualche scambio di post si capiva che li conoscevo meglio dei difensori di questo mercato, ma vabe’…).
Insomma, di queste cose si discuteva quasi due anni fa e mi pare corretto dire che l’epicentro della discussione era la prima Nazione Indiana. Ma sono ancora discorsi che molti preferiscono non fare per non mettersi “di traverso”. Anche un semplice consumatore come me che non aspira a pubblicare nulla, proponendoli viene visto come un poveraccio, uno che non è sveglio, uno che reclama idiozie.
Ma questo non vale solo per il semplice lettore. Recentemente un autore che faceva un discorso molto semplice sul best seller Gomorra (cioè: questa volta le cose hanno funzionato perché abbiamo fatto tutti la nostra parte, in barba alle regole del best seller, per portare un libro di qualità al pubblico, facciamolo sempre) è stato attaccato con forza dai suoi colleghi.
Quindi questo senso della verità pacifica, dell’evidenza, non mi sembra così scontato. Tutti hanno questo processo sotto gli occhi, ma non tutti ne parlano perché non riescono a rappresentarselo o perché sono in malafede. Invece occorrerebbe che fosse noto in tutte le sue sfaccettature e condiviso. Questa sarebbe la base per diventare tutti -proprio tutti- “operativi” su questo ignobile fenomeno.
Il “discorso” di “un autore” che Andrea Barbieri cita nella seconda metà del suo intervento è di Tiziano Scarpa e si può leggere qui:
http://www.ilprimoamore.com/testo_183.html
Una guida alla discussione che ne è seguita è nel primo capoverso di questo mio articoletto:
http://www.vibrissebollettino.net/archives/2006/06/io_contro_tutti.html
Sì, non l’ho scritto perché qui quello che conta per me non sono i protagonisti, è dire quanto può essere piccina la scena intellettuale che frequentiamo e come da un pensiero civile, evidente – perché sgorga da quel “le premesse sono note” – può crescere una polemica sconcertante contro l’autore di quel pensiero. Quindi mi riferisco proprio alla lite, non al discorso critico di Mozzi, approfondito e attento, condivisibile o no, ma comunque altrettanto civile e operativo.
Insomma: dieri che le premesse NON sono ancora note.
Mi sembra che quanto scrive Pedullà sia in buona parte incontestabile. Un discorso che non voglia essere solamente di celebrazione dell’esistente sistema editoriale e letterario, dovrebbe partire da qui. Eventualmente approfondendo l’uno o l’altro aspetto, ecc. Quanto alla specifica categoria dei critici: essa è importante in quanto la loro attività è connaturata con lo statuto stesso del fatto letterario. Ma neppure il critico (nel senso nobile del termine) è oggi, in Italia, del tutto innocente. Quale è la sua posizione all’interno delle istituzioni letterarie? Quale linguaggio usa? Che rapporti ha con le agenzie editoriali camuffate che sono le pagine culturali? Come si pone di fronte alla circolazione di sapere in rete?
segnalo tre pezzi apparsi su NI su questo argomento:
di Jacopo Guerriero
http://www.nazioneindiana.com/2006/04/03/grandi-colossi-e-best-seller-leditoria-e-morta/
mio
http://www.nazioneindiana.com/2005/10/11/piccola-utopia-di-rete-uno-spunto-da-lavagetto/
di Giacomo Sartori
…. di Giacomo Sartori
http://www.nazioneindiana.com/2006/01/09/che-cosa-chiedo-ai-critici-dei-critici/
Non c’entra una mazza ma se il passaparola ha un senso (tantopiù in posti come questo), dal momento che è fuori dai giri che contano ed è sublime, ecco il mio modesto contributo:
Grizzly Man, di W. Herzog.
Andatevelo a vedere.
Quell’uomo è ancora in grado di esprimere una grandezza, una intensità, una forza che deve darci speranza.
Andrea tu non sei uno che non si nasconde dietro a un dito, quindi bisogna anche vedere da vicino i link.
Il tuo pezzo e quello di Guerriero sono stati disertati dagli altri membri di NI, e questo è grave per la centralità dell’argomento (Guerriero addirittura parlava dell’ultimo libro di Schiffrin).
Il pezzo di Sartori è apparso su vibrisse in risposta a un pezzo di Mozzi sempre su Vibrisse.
Su NI il dibattito è stato quasi nullo rispetto al peso della cosa. E poi lo sai anche tu, questa è una cosa dove ci si dovrebbe muovere tutti uniti, anche con altri che facevano prima questo discorso sull’editoria. Non credi che sia il momento buono per fare qualcosa insieme?
@Humbert Goombert
Passaparola-per-passaparola… dato che ti è piaciuto il film, ti consiglio di leggere il bel post di Tashtego di qualche tempo fa ‘Thimoty Treadwell has gone’ (8 Gennaio).
Non propriamente una recensione cinematografica, ma una riflessione sulla vita di quest’uomo.
Provo a dire una cosa un po’ provocatoria. Se il mercato è refrattario a promuovere la letteratura di qualità, non è anche perchè buona parte di essa (in Italia, diversamente che altrove) fa di tutto per essere altezzosamente illeggibile, lontana da quel nazional popolare che terrorizza da noi il letterato?
@ Valter Binaghi
E quale sarebbe questa letteratura altezzosamente illeggibile? Se è altezzosa non è di qualità.
Su cosa sia illeggibile poi non entro perché ognuno ha le sue categorie.
Grazie Barbara. Very much…
Mi sono espresso male. Volevo dire che l’Italia pullula di autori, cioè scrittori che si esaltano nella ricerca del letterario in quanto tale, e ha pochi veri narratori, cioè scrittori che provano a situarsi nella forma del romanzo anzichè trascenderla a tutti i costi. Così finisce che il lettore medio è obbligato a scegliere tra la letterarietà che non lo entusiasma e gli stereotipi del romanzo di genere. In America le due cose non divergono, e lo dimostra uno come Stephen King, in Italia oggi abbiamo i Siti, i Genna, gli Scurati (scrittori che personalmente amo molto, ma che per scelta si autocollocano in una nicchia) e dall’altra parte il puro e semplice intrattenimento. Poi ci sono le fortunate eccezioni, come il mio amico Avoledo, in cui trovo un equilibrio raro tra letteratura e alta leggibilità.
Quello che dico non è certo una scoperta: anzi, è purtroppo una costante nella storia delle patrie lettere, ma la cosa si è aggravata ultimamente, mentre, per esempio, negli anni Sessanta e Settanta c’erano scrittori come Calvino, Levi, Pratolini, che coniugavano una ricerca umanistica e letteraria ad una comunicazione più largamente coinvolgente. Ad esempio a sedici anni, leggendo Metello al liceo, ho scoperto in un romanzo più che avvincente la politica, e leggendo Marcovaldo l’ecologia. Va meglio così?
A parte l’aver messo vicino Siti e Scurati, che mi fa venire il mal di pancia, direi di sì, è più chiaro.
Poi oltre al mal di pancia per Siti-Scurati ho qualche crampetto qua e là, ma sopportabile, direi, anche perchè la farei lunga.
Mi sa che i crampi (l’hai detto prima) ti arrivano dalla “leggibilità”, nel senso che questa espressione, come del resto quella di “popolare” associato a letteratura, è carica di ambiguità e diatribe del passato.
Eppure è la cosa più importante: provo a definire meglio anche questa. Non è l’uso più o meno sfacciato di gerghi e stereotipi della cultura televisiva, nè il ricorso a forme del romanzo popolare ottocentesco (il mass media di allora), o il riferimento a una poetica neo o post marxista, la semplicemente la larga possibilità di accesso, determinata dal fatto che non servono troppi presupposti per accedervi. Non è un concetto assoluto, ma anzi molto pragmatico: può riguardare anche opere del passato. Alla fine del Trecento la Divina Commedia era un’opera popolare, se il Boccaccio poteva darne pubblica lettura in Duomo. Oggi per uno studente medio una pagina di Dante è irta di difficoltà. In fondo è questo il livello del problema che m’interessa di più: far leggere i ragazzi, e mi chiedo spesso cosa li tiene lontani da un libro che magari io trovo fondamentale. Se non voglio trasformarmi in uno di quelli che lamentano la deriva generazionale, bisogna che mi ponga il problema di come dovrebbe essere scritta una storia perchè arrivi a loro.
Io ho, a proposito dei ragazzi, una mia idea banalissima, i ragazzi seguono l’esempio delle persone o dei personaggi che li affascinano, e le abitudini famigliari.
Se vuoi farli leggere e vengono da famiglie in cui non si legge, affascinali, perchè a parte pochi dotati e già predisposti, gli altri risponderanno solo così.
Non è la minore o maggiore difficoltà dei libri, ma il potere del maestro, quello che conta.
Certo, anche la leggibilità dei libri, in una certa misura, ha il suo peso, ma per emulazione e per amore si supera ogni difficoltà.
Questa almeno è la mia esperienza.
Anche se poi, devo dire, questo sistema produce i suoi guasti, perchè se all’emulazione non segue la riflessione personale, ci saranno solo tante papere che diranno ho letto questo e quello, e tu ti chiederai sempre perchè diavolo lo hanno fatto, se ne hanno ricavato così poco.
In ogni caso l’autorevolezza e la fascinazione di chi ti propone un libro è fondamentale come dici, e in effetti questo era il vero centro del post, da cui ho un po’ deviato. Un tempo la critica aveva l’autorevolezza che oggi non ha, perchè contaminata dalle pressioni dell’industria culturale. Forse dobbiamo rassegnarci alla scomparsa del suo ruolo storico. Però, qualche settimana fa ho letto su un blog amatoriale la recensione di un libro, scritta in modo un po’ pedestre ma appassionata, e abbastanza onesta da farti capire che libro è. L’ho comprato, era davvero buono. Che sia questa l’unica autorevolezza rimasta in un mondo di mercanti, cioè quella della passione autentica?
Ah sì?… il sistema dell’emulazione produce dei guasti?… ma va?, chi l’avrebbe mai detto…
Aggiungo anche un sinonimo di “nazional popolare”: “jrkhjklfjkgh”, dato che il termine viene usato qui come un talismano, e si sa, i talismani sono sempre misteriosi.
Mica tanto. Per esempio per me Gomorra è nazional popolare. Nel senso che si può litigare su quale sia la portata di quel libro, ma non sul fatto di leggerlo o no, e ha una destinazione vastissima, nel senso che quasi tutti possono leggerlo, se vogliono. Non un talismano, un esempio.
O.T.
“Alla fine del Trecento la Divina Commedia era un’opera popolare, se il Boccaccio poteva darne pubblica lettura in Duomo. Oggi per uno studente medio una pagina di Dante è irta di difficoltà.”
è difficile anche per me.
nel trecento la commedia era scritta nel dialetto fiorentino del trecento.
forse per questo era maggiormente compresa e apprezzata di adesso.
Binaghi, se mi permette il termine tecnico Gomorra non è “nazional popolare” un cazzo. E’ un libro scritto da un ragazzo che legge tutto e fa tesoro di tutto. Tutto vuol dire anche la migliore letteratura, poesia compresa, e filosofia, quindi cose non destinate a un grande pubblico. Da qui e dalla vita, dallo scontrarsi con la vita, viene la sua formazione. E se ancora mi permette anche questo desiderio di “spolpare l’osso della verità” è ben poco nazional popolare. Qui non si sta trattando di favole belle o brutte, si tratta – come ha detto recentemente un giudice che segue quel ramo di indagini ponendo fine alle grottesche polemiche di alcuni in rete – di VERITA’. Verità esposta con le migliori armi della grande letteratura. Questa è stata una delle sfide che Saviano a vinto: non scrivere programmaticamente adattandosi al gusto “nazional popolare” profilato dalle case editrici, ma costruirsi una lingua che nonostante la giovanissima età è già straordinaria, ricca, profonda, e usarla per un libro che dimostra IL PIU’ ALTO IMPEGNO CIVILE, non se lo scordi Binaghi. Certo, lei può sempre dire che tutto ciò è “nazional popolare”, ma allora credo di avere ragione: “nazional popolare” è un talismano che può significare di tutto, nobilitare tutte le scemenze accostando libri importanti alle finzioni più becere.
“Uno dei temi centrali attorno a cui ruotano le riflessioni dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci è il concetto di “nazional-popolare”, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra arte e pubblico. Appartenendo alla categoria degli intellettuali, lo scrittore dovrebbe farsi interprete non solo dei gusti estetici di una ristretta élite di lettori, ma anche delle aspettative diffuse tra i ceti subalterni e, in generale, nell’intera collettività. In tal modo il letterato dà vita a una letteratura nazional-popolare che allarga l’area di consenso e partecipazione democratica dei cittadini. Questo fenomeno, presente ad esempio nelle tradizioni letterarie francese e russa, è invece estraneo alla tradizione culturale italiana, su cui Gramsci proietta il proprio modello teorico, stigmatizzando i due vizi capitali, antitetici e complementari insieme, della nostra letteratura: il provincialismo e il cosmopolitismo.”
a.b. capisci perchè fai venire i nervi, a volte? parti all’attacco senza riflettere e difendi senza riflettere, vai almeno prima su google, se devi attaccare Binaghi o chiunque altro su qualcosa che dicono.
Alcor svegliati, ripigliati, Gramsci e il suo nazional popolare è passato da un pezzo. Oggi il nazional popolare è -come dici tu altrove- UN PRODOTTO INDUSTRIALE.
Se tu vuoi fare il discorso gramsciano ti tocca usare altre parole, anzi: altri CONCETTI. A me è capitato quando parlavo di fumetto -e tu dormivi. Ancora: Nori che a quella tradizione russa si rifà, non è assolutamente nazional-popolare, anzi, gli tocca essere il contrario per essere semplice, popolare. Dài Alcor, punta la sveglia.
Ma io mi pento di aver ricominciato a parlarti, a.b. e da oggi torno a ignorarti.
Tu non sai quello che dici e il vero guaio è che non te ne accorgi.
Non fossi tanto presuntuoso e non dessi tante lezioncine a tutti la cosa passerebbe inosservata.
Alcor, la lezioncina hai cercato di darla tu a me ingiungendomi di non parlare di certe cose per non turbare il tuo shopping. Se c’è qualcuno che per misericordia parla credo di essere io.
Nonostante questo, passando sopra a questo tuo modo di fare strano, cominciato con una grottesca contabilità nel pezzo di Buffoni, ti offro alcune cose nate come linguaggio universale destinate ad alcuni milioni di persone (era la tiratura Kodansha):
http://www.erlangen.de/de/Portaldata/1/Resources/010_bildpool/kultur_erleben/bildergalerie/internationaler_comic_salon/Igort_Yuri1.jpg
http://www.igort.com/immagini/yuri-0.gif
http://www.avant-verlag.de/img/innen_34_1_g.jpg
http://www.erlangen.de/de/Portaldata/1/Resources/010_bildpool/kultur_erleben/bildergalerie/internationaler_comic_salon/Igort_Yuri2.jpg
poi ti consiglio di leggere le cose di Eisenstein, in particolare quelle su Disney, ti daresti una bella ammodernata.
Ultima, solo perché devo chiudere il discorso, e poi lascio a Binaghi di precisare, se vuole, le cose che dice e che non sta a me difendere. E appena fatto questo ricomincio a saltare i tuoi commenti come ho utilmente fatto finora, a.b.
Binaghi parla di nazional popolare, a proposito di Saviano, in senso positivo, in senso gramsciano, tu lo aggredisci senza capire il suo campo di riferimento, e come spesso succede aggredisci a vanvera e dai lezioncine a vanvera. Il concetto di nazional popolare gramsciano non è passato da un pezzo, è ancora lì, come materia di riflessione, naturalmente per chi riflette e lega criticamente l’oggi al suo sfondo storico.
Per polemizzare con quelli che parlano bisogna anche capire che cosa dicono, e tu non lo fai, non ho ancora capito se per ignoranza o incapacità di mettere in ordine le idee o per ragioni caratteriali. Comunque non sono fatti miei, salvo il fastidio che mi prende e leggerti, ma avevo trovato un modo estremamente salutare di evitarlo e tornerò a praticarlo.
Non ti rendi neppure conto che dicendo “Gramsci e il suo nazional popolare è passato da un pezzo” a fare shopping sei tu, che tratti un sistema di pensiero come un paio di scarpe passato di moda. Potresti fare lo stesso con Kant o con Platone, pure loro sono passati da un pezzo.
Addio per sempre a.b.
Cara persona la cui identità si cela detro il nomignolo “Alcor”.
1. tu ti sei rivolta a me per prima con un commento molto molto sgradevole, probabilmente avendomi preso di mira da un pezzo. Ti ho risposto che non volevo incontrarti, non volevo avere nulla a che fare con te. Perché allora mi dici addio?, te l’ho già detto io da un pezzo!
2. In rete da quasi due anni si discute di popolare. Si è parlato anche di Gramsci naturalmente, e anche delle cose che citi tu, ma si è detto molto di più, perché da quando Gramsci scriveva quelle cose il tempo è andato avanti, la gente è cambiata, i prodotti culturali sono cambiati. Che Binaghi usi l’orizzonte gramsciano è un dato che tu estrai dalla sfera di cristallo con l’attitudine della maestrina, dato che qui non lo dice, e viene da pensare piuttosto che si muovo in quell’orizzonte di discussione più ampio (e confuso) che si è formato in rete e poi sulla stampa, a partire dalla polemica sulla restaurazione, infatti usa il termine come clava per liquidare una parte della produzione artistica di questi anni, proponendoci una suddivisione grossolana (quindi se è gramsciano lo è in modo parecchio discutibile).
3. Probabilmente per deformazione pensi che io possa sentire verso di te un qualche senso di emulazione e ti trovi spiazzata quando, dopo avermi bacchettato INGIUNGENDOMI di non parlare di tizio e caio, ti sei metaforicamente ritrovata la bacchetta spezzata e le mani inchiodate alla cattedra come il “Charlie don’t surf” di Cattelan. Mi spiace molto che la realtà -in forma di parola- abbia spalancato le tende di una stanza mentale in cui si proiettava quel bel film. Però, se ci pensi, questo bagno di luce è uno dei pregi della rete.
barbieri, alcor ti ha detto addio per sempre. è una donna, sa quel che significa, davvero, la parola addio. abbi la forza di voltarti, e riprendere il cammino…
Come sempre, caro shitting target, hai ragione.
“ti sei metaforicamente ritrovata la bacchetta spezzata e le mani inchiodate alla cattedra come il “Charlie don’t surf” di Cattelan.”
immagini alte.
riferimenti complessi.
sfoggio.
molto liceo, come sempre.
Tash, ciao, una volta eri uno alla mano, ora sali in cattedra e giudichi chi è liceale. Come mai ti sei bombato il petto, è cambiata qualcosa nella tua vita?
In più dici una fesseria “Charlie don’t surf” è pop, era una canzone prima di essere una scultura – non so ancora se bella o brutta. Una scultura pop, bassa, linguaggio basso, pubblicitario, che arriva a tutti, che tutti conoscono perché Cattelan è iperiprodotto. Che costa un sacco di soldi grazie alla saldatura pop-élite.
Oltretutto sarebbe bello che tu spiegassi al mondo, gonfiando per bene il petto e diaframmando la voce, in quale “liceo” italico si studia Cattelan, ovviamente esclusi quelli artistici – non penso infatti che tu ti riferissi a quelli.
vedi a.b. il mio petto è incavato dall’età e nemmeno i tuoi post riescono più a bombarlo.
aggiungo di non essere mai stato un “tipo alla mano”.
non è a Cattelan che mi riferisco quando parlo di atteggiamento liceale, ma a te e a molti altri, qui.
lo dico senza nessuna intenzione di offendere.
lo dico e lo ripeto unicamente come spunto di auto-riflessione.
indico la condizione di “liceale attardato” (è il liceo che ci forma, non l’università, come ben sanno i francesi che i licei li evidenziano sulle cartine turistiche) come uno dei problemi più grossi che affliggono i giovani (letterati?) scriventi, assieme all’assoluta mancanza, all’assoluta incapacità, di una visione politica del mondo. quindi – tout court – di una visione.
quando la discussione si trasforma in sfoggio di riferimenti e “cultura” allo scopo di intimidire, allo scopo di affermare la nota proposizione “io sono ok, tu non sei ok”, allora si sente sapore di liceo, di primo della classe.
si percepisce un “uso” della cultura a scopo di auto-implementazione, invece che di piacere et eventualmente conoscenza.
così come ne resta negato il piacere della discussione, che pure qui aveva dei buoni spunti nel bel pezzo di Pedullà.
naturalmente non è una difesa di Alcor, che non ha certo bisogno di un mio intervento in suo favore.
e non è nemmno un intervento nella discussione, che per quanto mi riguarda avrebbe bisogno almeno di un paio di cartelle, avendoci le idee chiare, certo.
barbieri, c’è un refuso. shitting…
Mio Dio, non volevo essere la causa (o forse solo il pretesto) per tante randellate. Alcor ha capito bene quello che intendevo dire, facendomi l’onore di un accostamento gramsciano. In realtà, molto semplicemente, “nazional popolare” riferito a Saviano per me era un complimento. Colto o non colto, il vero artista è colui che fa dimenticare i propri studi restituendo freschezza allo sguardo del lettore, anzichè ammantarsi di un gergo autoreferenziale e selettivo, come ad esempio le scritture contemporanee di filosofia o presunta tale. Industriale o non industriale, il linguaggio largamente condiviso è innanzitutto libertà di leggere e di comprendere, e diritto di replica.
Non è un articolo: è una radiografia.
Nulla da aggiungere, davvero perfetto.
Una lenta agonia è stata accelerata da tre fenomeni più recenti: il diluvio di anticipazioni, le promozioni dei libri in vendita con i giornali, il diffondersi delle recensioni in subappalto. I primi due sono troppo evidenti perché sia necessario soffermarvisi: basterà notare che da un certo momento in poi le pagine culturali hanno rinunciato a esercitare il proprio diritto/dovere di critica preferendo ospitare stralci dei libri in uscita (dei veri e propri “trailer”, presentati senza alcun commento) e che questa tendenza si è ulteriormente accentuata da quando i quotidiani si sono fatti editori in proprio, dedicando una parte consistente delle proprie terze pagine alla promozione dei volumi in vendita. Più interessante, perché più subdolo, il terzo fenomeno, che consiste nel pubblicare recensioni dei grandi nomi della letteratura contemporanea (da De Lillo a Wallace, da Auster a Franzen) ai quindici o venti presunti esordienti di genio che ogni anno sforna la macchina editoriale USA – recensioni scrupolosamente acquistate, tradotte e poi fornite a titolo gratuito dagli uffici stampa della casa editrice che si appresta a pubblicare il romanzo in Italia
Tash, ti comunico che, insieme all’ottimo pezzo di Pedullà, mi sono stampato anche il tuo ultimo commento. Un ritorno ai vecchi tempi, molto gradito.
Anche se per ragioni diversissime, non so proprio quale mi è piaciuto di più. Li tengo pronti alla bisogna. Sento che prima o poi torneranno utili entrambi.
p.s.
Nel caso ti dovessi qualcosa, mi raccomando: non essere troppo esoso.
Il tuo nobile preferito: Lazzaro Visconti Pera.
Tash, a me viene in mente la condizione di “trombone attardato” nel ruolo di savio con le spalle coperte d’anni.
Per TargetS, effettivante sopra c’è un refuso, mi ero dimenticato la “s” finale…
Per tutti, l’unico di NI2.0 intervenuto qui è andrea Inglese. Mettiamoci dentro anche Raimo che ha postato.
Perché su un argomento tanto importante così poca partecipazione?
lazzaro visconti pera: il signore sì che se ne intende…
barbieri, mi hai fatto ridere. come correttore di bozze mi surclassi. come comico pure.
Grazie, egregio.
Noblesse oblige.
Ho scritto un pezzo un po’ lungo, rispondendo a questo di G. Pedullà, in vibrisse:
http://www.vibrissebollettino.net/archives/2007/01/le_premesse_non.html
una facezia:
C’era un dantista pieno di cultura
che un giorno volle correr l’avventura
a letto con un pittore – si accorse dell’errore
ahi! quant’a dire qual é cosa dura!
E.F.
Rinnovo la domanda. L’unico di NI2.0 intervenuto qui è andrea Inglese. Mettiamoci dentro anche Raimo che ha postato. Perché su un argomento tanto importante così poca partecipazione?