E non c’è trucco! Mario Perniola
La battaglia per la bellezza
di
MARIO PERNIOLA
Quella del bello è oggi una categoria più popolare della verità e della virtù e il narcisismo e diventato una patologia sociale. Ecco perché lottare per una estetica e non per la cosmetica.
La bellezza pare a prima vista il concetto più adatto per gettare un ponte tra l’atmosfera cosmetico-ricreativa in cui sono immerse le moltitudini dei paesi ricchi e la tradizione culturale. In altre parole, la bellezza sembra più «popolare», più connessa con il sentire delle masse di quanto non sia la verità o la virtù. Infatti ben pochi si curano della coerenza dei loro pensieri e ancor meno della purezza delle loro azioni, ma tantissimi si interrogano sulla avvenenza del loro volto e del loro corpo, affollano palestre, comprano cosmetici, intraprendono diete, ricorrono addirittura alla chirurgia plastica per diventare più belli ed attraenti. La bellezza sembra in grado di fornire, per così dire, un aggancio tra le masse e il sapere.
Tuttavia, che cosa ha che vedere tutta questa infatuazione collettiva con la filosofia? e più specificamente con la plurimillenaria riflessione filosofica intorno alla nozione di bellezza? Mi piacerebbe poter affermare che il libro di Santayana Il senso della bellezza va a ruba (mentre in realtà non è acquistato nemmeno dalle biblioteche di filosofia), oppure che Benedetto Croce sta al vertice delle classifiche degli autori più venduti (mentre la riedizione delle sue opere incontra tante difficoltà). Ma come tutti sanno al culto della bellezza personale non corrisponde affatto non dico un interrogativo, ma nemmeno una curiosità intorno a che cos’è il bello: le moltitudini estetizzanti ritengono di saper benissimo come devono fare per diventare più belle e di non aver veramente niente da imparare di utile dai filosofi su questo argomento. Dal loro punto di vista, non si può dire che abbiano torto.
Fatto sta che il rapporto tra la nozione di bellezza e le moltitudini estetizzanti non è così diretto ed immediato come vorremmo. Esso passa attraverso una patologia sociale, ben nota e studiata da decenni, che si chiama narcisismo. Questa malattia psichica ha per l’affettività contemporanea un’importanza paragonabile a quella dell’isteria e delle nevrosi al tempo di Freud. Il suo aspetto caratteristico è il primato dell’immagine sulla realtà in tutte le pratiche della comunicazione privata e pubblica: è chiaro che a partire dal momento in cui l’elaborazione dell’immagine e il suo controllo diventa la preoccupazione fondamentale, cade ogni possibilità di astrazione e di pensiero critico. Infatti il narcisismo non è affatto amore di sé: lo spostamento verso la propria immagine si effettua al prezzo di un totale annullamento della vita individuale e della sua realtà. Come ha mostrato Christopher Lasch nel suo libro La cultura del narcisismo (Bompiani, Milano, 2001), che riprende da un punto di vista sociologico le tesi di psicoanalisti come Heinz Kohut e Alexander Lowen, il narcisismo contemporaneo implica una completa negazione della propria identità affettiva. L’individuo narcisistico è incapace di provare emozioni intense e personali.
La sua vita affettiva è vuota. L’unica possibilità di trovare un vero interesse alla vita – impossibilità che caratterizza il modo di essere narcisistico – è proprio l’opposto dell’impegno personale che caratterizza l’individualismo moderno. L’amplificazione iperbolica dell’immagine dell’io a detrimento della sua realtà conduce così ad un totale appiattimento sui modelli proposti dalla pubblicità, dalla televisione e dalla moda, che ha assunto nel corso degli ultimi tempi l’aspetto di una catastrofe culturale, politica e sociale, in cui sono coinvolte l’arte e la scienza, non meno della filosofia e della religione. Nei confronti delle patologia psico-sociali di stampo oscurantistico l’estetica marxista ha fornito due differente diagnosi, rispettivamente rappresentate dal filosofo ungherese Gyorgy Lukacs e da Antonio Gramsci. Il primo fu decisamente più ottimista del secondo nel valutare l’effetto della propaganda, della pubblicità e in genere dell’intrattenimento edonistico-ricreativo. Infatti secondo Lukacs, solo l’arte costituisce la massima potenza culturale, l’unica capace di esercitare un’influenza profonda e duratura: essa rivolge al pubblico un’ingiunzione che lo riguarda direttamente e lo invita perentoriamente a rendere la sua vita più ricca e significante, mentre la comunicazione di massa si distingue per la limitatezza e la provvisorietà del suo influsso.
Gramsci invece, più pessimisticamente, ritenne che la degradazione culturale e l’oscurantismo che l’accompagna, non debbano essere sottovalutati: per esempio il romanzo d’appendice, il gusto melodrammatico, l’oppiomania fantasiosa (insomma gli equivalenti nel suo tempo del narcisismo mass-mediatico odierno) esercitino un’influenza molto maggiore dei prodotti culturali in qualche modo connessi con le istituzioni. Perciò il grande insegnamento di Gramsci è consistito nell’invito a cercare sempre un aggancio tra il sentire per quanto degradato, distorto e alterato delle moltitudini da un lato e la teoria critica della società dall’altro. Da questa posizione gramsciana è derivata quell’attenzione ai fenomeni culturali di massa che ha caratterizzato il marxismo italiano.
La grande questione oggi è: esiste ancora la possibilità di questo aggancio? a partire da quale momento lo studio e la sollecitudine verso le espressioni popolari si trasforma nell’apologia dell’ultima scemenza comparsa sulla scena dei media? perché l’impegno democratico si trasforma tanto spesso in oscurantismo populistico? in quale punto dell’organizzazione culturale cessa il riscatto teorico e comincia la resa agli indici di ascolto e al mercato? Certamente non si può imputare a Gramsci l’incongruenza e la sconclusionatezza di tanti sedicenti operatori culturali di oggi. Gramsci non ha mai pensato che l’intellettuale «organico» debba favorire la vanità o essere agganciato alle idiozie.
La difficoltà di trovare oggi un aggancio credibile consiste probabilmente nel fatto che non è più negli interessi del capitalismo coinvolgere tutti in un processo di miglioramento e di promozione intellettuale e materiale. Nel quadro della new economy è dubbio che sia ancora necessario o opportuno garantire all’intera società un medio livello di istruzione e di sapere critico. La decadenza della qualità dell’insegnamento fornita dal sistema scolastico ed universitario quasi in ogni parte del mondo, unita al trionfo della credulità e della superstizione, mostra che il movimento di diffusione del sapere messo in moto dall’illuminismo nel XVII secolo conosce una battuta d’arresto. Il fatto è che per l’industria dell’intrattenimento, la trasmissione su larga scala del patrimonio culturale dell’Occidente, che ha le sue massime realizzazioni nell’arte, nella scienza e nella filosofia, è qualcosa di troppo dispendioso,perché presuppone appunto la formazione (nel senso classico dì Bildung) di un pubblico capace di comprenderlo e di apprezzarlo. Si procede perciò in modo molto più spedito e redditizio trasformando le mostre d’arte in luna park, le conquiste della conoscenza in fantascienza, il pensiero critico in edificazione new age, le scuole e le università in burocrazie senza energia emozionale, per non parlare del resto. In altre parole, la possibilità dell’aggancio derivava dal fatto che il mantenimento e lo sviluppo della cultura e dell’educazione era un aspetto essenziale dei progetto capitalistico.
Tendo perciò a credere che una politica culturale progressista passi oggi non attraverso la ricerca di un aggancio che si regge irrimediabilmente sull’equivoco e sul fraintendimento, bensì attraverso operazioni di sganciamento dall’atmosfera cosmetico-ricreativa e oscurantista in cui siamo immersi. In altre parole se vogliamo parlare di bellezza, deve essere chiaro che impieghiamo questa parola in un senso che non ha niente a che fare con le palestre, con le diete, con i concorsi di Miss Italia, con tutta la sdolcinatezza e la leziosità su cui si regge oggi la ricerca di un consenso plebiscitario.
Esiste oggi una strana convergenza tra l’approccio essenzialistico e l’approccio ingenuo alle parole del sapere, convergenza che si regge sull’equivoco. Dato che sulla bellezza si pensa e si scrive da duemila e cinquecento anni, solo un ignorante può credere che alla domanda sulla sua essenza sì possa rispondere con una definizione o con una formula. Dietro l’approccio essenzialistico si cela un’ultima degenerazione del gramscismo, che spera di trovare l’aggancio con le masse attraverso un’estrema semplificazione essenzialistica.
Se vogliamo continuare la grande impresa pedagogica iniziata da Gramsci, occorre invece adottare un approccio connessionistico, cioè porre la questione della bellezza all’interno dell’orizzonte estetico. L’esistenza di questo dipende dall’esistenza simultanea di quattro
elementi: il bello, l’arte, la filosofia e lo stile di vita esemplare. Ognuno di questi è in sé molto problematico e può essere declinato in molti modi. Per esempio, come variazioni del bello sono da considerarsi il sublime, il grazioso, il sottile, l’interessante, il raffinato e altre nozioni prossime. Anche gli stili di vita esemplari sono stati estremamente vari: dall’eroe al santo, dal martire al dandy, dal filosofo alla «femme fatale», dal poeta alla «sexual persona» combinandosi in moltissimi modi.
L’ampiezza dell’orizzonte estetico non implica tuttavia che esso possa contenere tutto: si tratta infatti di un orizzonte. Come dice l’etimologia della parola (dal greco orízo, limitare, segnare i confini), esso si determina sulla base di ciò che esclude. Innanzi tutto non mi sembra che si possa parlaredi orizzonte estetico se manca l’idea di uno degli elementi indicati. Un mondo in cui si sia completamente ignari delle coppie antinomiche bello-brutto e arte-non arte, è estraneo all’orizzonte estetico. Con ciò non voglio dire che ci si debba pronunciare a favore del bello o a favore dell’arte, ma soltanto che è necessario essere consapevoli di ciò che queste nozioni hanno significato nel corso della storia: l’attacco che l’arte contemporanea ha portato alla nozione di bellezza fa parte a pieno titolo dell’orizzonte estetico; la stessa cosa si deve dire a proposito delle teorie della fine o della morte dell’arte o dell’anti-arte del Novecento. Parimenti un mondo in cui il posto della filosofia è stato preso interamente dalla tecnica o dal fanatismo, ha soppresso l’orizzonte estetico: fanno invece parte di questo le critiche che gli artisti e i poeti hanno spesso rivolto alla filosofia. Infine la mancanza di modelli di vita esemplare impedisce il sorgere dell’ammirazione, la quale costituisce la più potente leva del coinvolgimento estetico: non a caso l’educazione è stata riconosciuta come un elemento essenziale dell’orizzonte estetico. Tuttavia le tendenze contro-culturali, che si sono manifestate per esempio durante la contestazione della seconda metà del Novecento, fanno parte dell’orizzonte estetico.
Raramente è accaduto che i quattro elementi che fanno parte dell’orizzonte estetico siano
andati d’accordo fra loro: questa situazione si è verificata nel Settecento ed è in stretto rapporto col movimento neo-classico e con la costituzione dell’estetica come disciplina autonoma. E’ allora che la bella natura, l’arte bella, il bel pensare e l’educazione estetica hanno stabilito tra loro un patto vincolante. Tuttavia limitare l’orizzonte estetico a quel particolare momento storico, considerando come preistoria dell’estetica tutto ciò che precede e decomposizione dell’estetica tutto quello che segue, è troppo restrittivo e anche troppo noioso. Del resto anche in piena età neoclassica si sono levate voci contrarie a questo accordo, che ha avuto peraltro una durata molto breve.
Per queste ragioni ritengo molto più proficuo considerare l’orizzonte estetico come un campo, in cui quattro contendenti (il bello, l’arte, la filosofia e lo stile di vita esemplare) si fronteggiano, confrontano e sì affrontano tra loro dando luogo alle più varie situazioni strategiche. L’orizzonte estetico perciò non è affatto un luogo simbolico di pace e dì armonia; esso è caratterizzato da un dinamismo permanente che dì tanto in tanto si manifesta in aperti conflitti, ma che è sempre attraversato da tensioni ed attriti.
articolo pubblicato su L’Unità del 15 settembre 2002, e presente sul sito http://www.swif.uniba.it/lei/index.html
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qualche giorno fa le mie studentesse avevano come compito a casa la descrizione del “bello” (tutto era nato da una discussione sull’esistenza di un’estetica femminile oggettiva e costante nel tempo). da un lato c’è chi ha scritto che il bello oggettivo sono belle gambe (?!), dall’altro chi ha provato a fare una cronostoria dell’estetica. entrambi le tipologie di testo nonostante cospicue differenze qualitative mi sono apparse banali. sono io che trovo spesso banale il discorso sul bello. o meglio trovo il bello banalizzato (credo che il brutto sia più facile da descrivere o percepire).
eppure poi riesco a commuovermi quando Lo Cascio interpreta Peppino Impastato e spiega che per fare politica non bisogna dimenticarsi della bellezza (riferendosi alle colline della Sicilia o ai testi di Majakowski?).
come d’altro canto non riesco a non ridere quando il mio amico C mi racconta della sua ragazza idealista classicheggiante, in estasi al Louvre e lui annoiatissimo che non ce la fa più della pittura fiamminga nel XVI secolo e cita Frassica fuggendo via: non è bello ciò che bello, ma che bello che bello che bello.
“lottare per una estetica e non per la cosmetica” l’ho trascritto nella mia agenda tascabile.
Rigoroso e interessante.
un bel giorno, un artticolo importante del Comunismo Dandy sarà dedicato ad un’altra disciplina, Etica del Cosmo o Cosmo Etica, ma darò indicazioni sull’argomento prossimamente. E mi chiedo cosa ci fa dire di una storia che è stata bella? …
effeffe
Davvero bello questo articolo di Perniola, e un grazie sincero a chi l’ha postato: mi sa che lo userò a scuola. Quello che nel testo rimane implicito è la difficoltà di distinguere tra arte e non-arte nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera (vedi Benjamin), che togliendola all’unicità rituale dell’evento la rende disponibile per una manipolazione politica o pubblicitaria.
L’educazione estetica, in effetti, se poteva restare implicita nel passato, oggi è più che necessaria, imprescindibile.
l'”aggancio gramsciano con le masse” lo trovi nel fatto che le masse si innamorano (ma si innamorano sinceramente) mettendosi i vestiti dei tronisti e pettinandosi come quelli del GF… che in sè non c’è niente di male, per carità: le masse hano superato gramsci senza bisogno di gramsci stesso.
Chissà perché Michelangiolo Merisi non ci aveva uno stile di vita esemplare, anzi una volta ha tagliato la pancia a uno,
e Benvenuto il Cellini ad un altro ci sparò un’archibusiata?
Mah.
Io non ho mica capito bene,
ho dei dubbi su tutto quanto detto sopra anche perchè prolisso, e pure su un libretto di Perniola che era sull’ombra, anni fa, che mi ha fatto venire una barba incredibile e l’ho sbattuto là.
Tuttavia son assai contento perché di sopra vidi un commento di Vins Gallico che era dugento anni che io non vedevo quassù sue righe, ecco.
MarioB.
ciao, mario, (grazie per il bentornato)
chi non muore si rivede… più o meno.
due cose:
1) se riesci, procurati le combat ordinaire 2 di manu lancenet che forse c’è la risposta al tuo dubbio su michelangelo e cellini….
2) pago pegno perché la citazione da frassica (minchia, mi sono ridotto a citare frassica, spargo cenere sulla mia fronte) era: non è bello ciò che È bello, ma che bello che bello che bello.
in questo pezzo sono presenti molti (troppi) temi.
vengono fatte molte (troppe) asserzioni.
vengono date per scontate molte (troppe) categorie estetiche che dovrebbero invece costituire (spero) il grosso del dibattito.
viene speso il nome di Gramsci in una situazione storica del tutto diversa da quella rispetto alla quale Gramsci scriveva le sua note.
viene usato il termine “bellezza” dandone per scontato il senso (idealistico?).
eccetera.
viene inoltre affermato che la bellezza “non ha niente a che fare che fare con le palestre, con le diete, con i concorsi di Miss Italia, con tutta la sdolcinatezza e la leziosità su cui si regge oggi la ricerca di un consenso plebiscitario”: dove sta scritto?
Walter Siti ha scritto un romanzo, per certi versi straziante, tutto interno all’universo estetico che Pernioli rigetta, si direbbe con sdegno.
Pernioli afferma che:
“Un mondo in cui si sia completamente ignari delle coppie antinomiche bello-brutto e arte-non arte, è estraneo all’orizzonte estetico.”
e se invece queste “antinomie” fosero tutte interne ad un universo filosofico fiacco, isolato, leggermente inacidito, e perciò incapace di comprendere quello che *dovrebbe* comprendere per statuto e cioè di cosa sono fatti i molteplici universi estetici contemporanei?
e se Pernioli toppasse, nel tirare in ballo la qualità della scuola contemporanea (a quandosi può far risalire una scuola non degradata?) e il “progetto capitalistico”?
e se il capitalismo (locale) contemporaneo non avesse più un progetto?
di fatto il sistema di addestramento scolastico e universitario è tuttora funzionale all’aspetto produttivo della società del capitale, ma non lo è per l’aspetto del consumo: un produttore aggiornato e intelligente e colto e un consumatore imbecille: peccato che finiscano per coincidere, peccato che sia la seconda figura a prevalere sulla prima, peccato che sul suo universo estetico la Filosofia Estetica non voglia perdere tempo.
peccato.
chiedo scusa a Perniola per averlo chiamato “Pernioli”.
mi spiace.
Un articolo di Mario Perniola è sicuramente interessante. Il motivo dell’insoddisfazione che coglie anche me leggendo questo è che Perniola non va molto addietro nella sua analisi.
Se è vero che c’è scadimento dall’estetica alla cosmetica, bisogna dire che c’è scadimento anche dall’arte all’estetica. L’estetica ha fatto oggetto di un giudizio disinteressato l’arte, che era carne viva di artista e società insieme.
Sono daccordo in parte con Tashtego, e in quel senso citavo Benjamin, perchè non si può prescindere dall’arte che esce dai musei e diventa costume, mito di massa, anche se questo per me significa allargare l’orizzonte dell’educazione estetica, non abolirlo, come sembra suggerire lui. Certo che non ha senso opporre a una estetica plurale e massificata una delle tante versioni più o meno consunte di classicismo, ma semmai cercare le condizioni trascendentali cioè ineludibili della bellezza, che ci fa scegliere non tra pre o post tecnologico ma tra ciò che è espressione e ciò che è pura e semplice replicazione.
Amo il romanzo di Siti, ma lì ci vedo non tanto il recupero all’estetica di un taricone televisivo, ma l’ingenua mitologia di un Ercole telegenico, e lo straziante calvario narcisistico di cui è causa scatenante. In un orizzonte non dissimile, le pagine dedicate a Moana Pozzi nel Dies Irae di Genna
Mi vien di dare ragione in tutto a Tashtego.
Ho da dire soltanto che a troppi teorici italiani, vuoi di estetica che di storia dell’Arte manca in modo evidente la capacità espostiva,
ovvia un modo di scrivere e comunicare chiaro,
anche con uso di esempi, una capacità didattica che permetta a tanti di capire a fondo le proprie affermazioni.
Non ci starebbe male qui una semplice articolazione del testo per punti chiave, invece di questa nebula o giringiro che a mio modo di vedere denuncia anche una sorta di supponenza.
Nei paesi anglosassoni o in Germania un testo di questo genere non sarebbe certo ben accetto.
E’ un brutto italico vizio accademico.
MarioB.
“Il bello è il simbolo del bene morale” diceva Kant, la dice lunga su l’idea di quello che oggi la socità “vorrebbe rappresentare” in questo binomio bellezza-moralità.
La bellezza come “essenza” sembra essere trasparenza ai più.
La bellezza come “assenza” senbra avere più successo.
la bellezza viene anche da un modo di porsi,
la bellezza di un gesto supera ogni modello di bellezza!
così io vedo la bellezza, per dirla semplice semplice, come piace a me
saper far uscire da un “grezzo” flauto, magari di bambù, un suono raffinato…
forse sulla bellezza bisognerebbe guardare che cos’hanno da dire le neuroscienze cognitive? Certo si può sempre dare la solita risposta: cosa c’entra con la filosofia? Ma è una domanda fatta in malafede, è evidente che la filosofia si confronta con ogni forma di conoscenza, dunque anche quella neuroscientifica. In ogni caso su questi temi segnalo un colloquio virtuale del sito francese Interdisciplines
http://www.interdisciplines.org/artcog/papers/5
Oppure si guardi in Ramachandran, Che cosa sappiamo della mente (costa 9 euro…), il capitolo Il cervello artista
Ma lo avete letto davvero bene?
Non credo proprio che Perniola e Siti siano in contrapposizione.
Soprattutto con tash non sono d’accordo.
“Walter Siti ha scritto un romanzo, per certi versi straziante, tutto interno all’universo estetico che Pernioli rigetta, si direbbe con sdegno.”
A parte il fatto che non vedo sdegno, ma descrizione di una situazione, Perniola dice, con una certa divulgativa chiarezza, una frase molto chiara in questo senso:
“L’orizzonte estetico perciò non è affatto un luogo simbolico di pace e dì armonia; esso è caratterizzato da un dinamismo permanente che dì tanto in tanto si manifesta in aperti conflitti, ma che è sempre attraversato da tensioni ed attriti”
E il fatto che Siti abbia scritto un romanzo “tutto interno all’universo estetico che Perniola rigetta” non vuol dire che lo assuma acriticamente. L’importanza del libro di Siti sta anche nella lettura critica e drammatica proprio di quell’universo estetico, e non solo estetico, ma etico.
Non confondiamo l’autore con l’eroe. Siti oltre che Pasolini conosce bene anche Proust, che è stato uno dei primi a insegnarci a non fare certe confusioni.
E’ quasi l’una e ho sonno e adesso non ho voglia di riprendere paragrafo per paragrafo, ma non vedo davvero la contraddizione, solo una differenza retorica e narrativa.
Daccordo con Alcor
L’uccello dipinge con le proprie penne volando ,l’uomo con le penne dell’uccello cacando.