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Eva Smith

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di Betta Magni

Eva Smith non poteva dirsi giovane, aveva trent’anni. La ragione di questo precoce invecchiamento si spiega col fatto che all’epoca in cui cominciai a pensare a lei ne avevo diciassette e avevo un’ idea del tempo assai diversa da quella che ho ora: un anno mi pareva interminabile e faticavo a proiettarmi altrove, nel tempo e nello spazio. Forse, ancora meglio, l’altrove era così lontano e distante da me da non appartenermi, da assumere i tratti di un sogno confuso che non ha parentele con ciò che sei ora, l’adesso che brucia.


La sua storia si dipanava a Londra, a cavallo delle due guerre mondiali, assommando via via i luoghi comuni più triti che l’ingenuità di allora rendeva luccicanti e nuovi. Tutto sommato è ciò che ancora faccio, solo che ho più pudore ed è per malafede che ho smesso di arrossire. Ne sono consapevole, così come del fatto che la coscienza non sempre implichi salvezza.
Tant’è, la mia Eva era una ballerina asessuata, la ricordo pallida e magra e pure luminosa, quasi che fossi incapace di metterla a fuoco e riuscissi a intravedere solo una massa rossiccia di capelli ricciuti. Credo mi avesse ispirato l’Isadora Duncan di Vanessa Redgrave, di cui ora rammento poco, solo la morte: la sciarpa di seta sbattuta dal vento che si avvinghia al collo e si incastra sulle ruote veloci di una Bugatti fiammante. È una fine così metaforica e insieme così priva di legge da sembrare un suicidio.
Eva non è una professionista, danza per dimenticare la sua prematura vedovanza. Per questa ragione si iscrive a una scuola di ballo per signorine educate con le quali ha poco in comune – si capisce – ma è un nostalgico ritorno all’infanzia che lei, che molti, trova rassicurante e la cui ragione, ora, mi pare non regga.
Insomma è una bimba in un corpo di donna che non ha niente di carnale se non una passione confusa, più simile a uno stordimento che a una scelta matura – la passione non solo ci sceglie, si sceglie. Il fascino della sua danza è nella desituazione continua e improduttiva, nella trasgressione vuota e fine a se stessa, nell’oblio: non c’è conoscenza perché non c’è relazione, al limite non c’è trasgressione, neppure, solo ovvietà, nessuna conquista.
Questa era la seduzione di cui ero capace, l’ideale di donna che ero in grado di prefigurarmi allora e che non è così distante da una borsa Naj Oleari, da un orologio sul polsino, dal motorino nuovo di zecca. È un puro rovesciamento, è il suo negativo. Covavo un fiero disprezzo per i simboli vuoti dei primi anni Ottanta ma faticavo a trovare un modello davvero alternativo, fecondo. Avrei potuto abbuffarmi di hamburger oppure di eroina oppure, come ho fatto, contemplare strabica l’abisso e scivolare, come tanti, nella schizofrenia.
Così fu che Eva conobbe Stella. Solare, gaia, goffa, bruna: l’immagine come sempre si rovescia e l’una e l’altra si attraggono fatalmente senza mai davvero incontrarsi, come se gli impulsi vitali e l’istinto di morte appartenessero a mondi distanti, avessero due volti, due corpi e faticassero a riconoscersi, a specchiarsi l’un l’altro e a darsi un nome.
Il ponte, il termine medio, l’elemento che le mette in contatto è un uomo, è il fratello di Stella e fa il ritrattista, è qualcuno che sa leggere i volti e attraverso i volti le storie e attraverso le storie l’identità. È l’immagine dell’amore bambino che chiede all’altro un riconoscimento che non sa darsi da solo, che nell’altro trova conferme e nulla restituisce, nulla scambia perché il suo fine è saturare un orizzonte e riempire ogni spazio di sé.
Eva, bambina, si lascia guardare e racconta della morte del marito soldato che scrive dal fronte del proprio terrore, dello sguardo sgranato dei propri compagni caduti in battaglia, del senso che non riesce a trovare. Ciò che mi appare insensato ora sono le astrazioni, tutto ciò che si oppone solo in apparenza, i dualismi introdotti a forza, che non ti lasciano scelta e che costringono Eva a fuggire. L’amore maturo di lui, il richiamo alla vita, alla sua concretezza, che non esclude la morte, il male, il dolore e che invece ci sporca, ci spoglia di ogni vana illusione, quest’appello, dicevo, cade nel vuoto, in lei non germoglia, germoglia altrove.
Amavo Il ponte di Waterloo, un vecchio melò con Vivien Leigh, che ho certo ripreso. Solo che in quello, il segreto tormentoso da cui fugge la bella eroina è un passato da puttana che da brava scolaretta ho censurato. Censurare un melodramma di Mervin LeRoy è già indizio di follia, avrei dovuto inquietarmi, ma a ben vedere resta intatta l’idea di una purezza smarrita che è un’altra insensata astrazione, un’altra illusione: l’ennesima ingenuità di una Dalia Nera che ripete all’infinito le battute di Via col Vento.
Resta quel ponte, resta il mio eroe che, ingrigito dagli anni, rimpiange la sua Eva e a denti stretti sospira: maledetta guerra. C’è sempre qualche ponte da attraversare.

(Nella foto: Vivien Leigh in “Il ponte di Waterloo” di Mervyn LeRoy – 1940)

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