Torre Gaia e l’ossessione della sicurezza
di Christian Raimo
Avendo vissuto la mia infanzia, pubertà, adolescenza, postadolescenza, sempre negli stessi sessantatré metri quadri ma sempre sul punto – io e tutta la mia famiglia – di traslocare da un momento all’altro, di cambiare casa e quartiere, tra riviste di arredamento e giornali di annunci affitti & vendite che si accatastavano sui divani del nostro sempiterno salotto, ho maturato per contrasto una anomala e randomica apprensione per lo sviluppo urbanistico di questa città, grazie soprattutto a mia madre, inventrice e praticante assidua di quello che si potrebbe definire turismo immobiliare.
Mia madre, invece di portarci in vacanza, al lago, a fare le passeggiate nei boschi o anche banalmente le visite ai parenti, ci portava a vedere le case. I pomeriggi dopo la scuola, i sabati, le domeniche, intere settimane estive erano deputate agli appuntamenti con gli agenti di Gabetti e Piperno (archeologia dell’immobiliarismo), a un vero e proprio escursionismo nei quartieri nuovi. Visitavamo i terreni recintati dove ancora non era stato edificato nulla, le zone dai nomi pastorali come Colle Verde, Fonte Nuova, Prato Rotondo…, diventando esperti, a otto, dieci, dodici anni, delle trasformazioni intestine dell’agglomerato urbano; come se in fondo quest’esercizio di dover reimmaginare di continuo il nostro futuro domestico o la nostra virtuale vita di quartiere, ci formasse alla socialità, ci insegnasse ad amare Roma, riconoscendo in chiunque un possibile vicino di casa, un compagno di scuola in potenza.
Per questo motivo, credo, mi trovo spiazzato di fronte a quartieri come Torre Gaia. Prima di tutto perché non ci sono mai capitato finora – per quale ragione mia madre non ha mai ipotizzato di trasferirci qui? cos’ha questo posto che non va? – , in secondo luogo perché reagisco con una certa resistenza rispetto all’idea di un gruppo di persone – leggi: proprietari di case (secondo la deformazione epistemologica famigliare) – che decidono di consorziarsi e creare una piccola città nella città. Torre Gaia è questo: un’isola. Immersa in quella che nell’immaginario condiviso è La Periferia Romana per antonomasia, tra Tor Bella Monaca e Torre Maura per capirci, quest’area rigorosamente residenziale, si rivela in un pomeriggio qualsiasi del nostro inverno fasullo, un comprensorio di villette a due al massimo tre piani, sospeso e quieto come una città di mare fuori stagione. Una guardiola con passaggio a livello all’ingresso, siepi ben curate lungo i muri di cinta, stradine intervallate da dossi artificiali, cancelli in ferro battuto con ornamenti sulle punte delle sbarre, gazebo, balconi con poltrone in vimini disposte a triangolo e tendaggi avana, un odore leggero e piacevole di oleandro e di muschio. Niente negozi, niente banche, niente bar, nessun esercizio commerciale all’interno. E anche nessuno spazio pubblico, o quasi. Perché sì c’è un centro sportivo attrezzatissimo, sì c’è un albergo di proprietà di un vecchio consorziato utilizzato soprattutto per le convention, sì ci sono dei piccoli parchi, sì ci sono delle scuole, anche se ovviamente private, curate da istituti religiosi.
Forse meglio di un’isola, si potrebbe dire un’oasi. Un’oasi che accoglie circa millecinquecento abitazioni che a loro volta ospitano circa seimila persone (il primo nucleo nacque – così è registrato nella costituzione di Torre Gaia – nel 1932, ma la vera espansione è avvenuta tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, i muri esterni con i mattoni a vista lo testimoniano). Soprattutto si tratta di un’oasi protetta, decisamente protetta, come rivendica l’attuale presidente del consorzio, “anche se il tutto viene gestito con gran discrezione e buon senso”.
Ma cosa vuol dire garantire questa sicurezza? Il compito di sorveglianza è affidato a otto vigilantes: tre alla guardiola che controllano gli accessi; tre di ronda permanente, ventiquattro ore su ventiquattro, nei vari spazi comuni del consorzio più qualche volta – in caso di necessità – nei giardini privati; due di rinforzo che associano all’attività di manutenzione ordinaria (strade, illuminazione, giardini) quella di controllo del territorio. E poi ci sono venti telecamere piazzate tra le piazzole di snodo e quelli che vengono chiamati “i punti critici”. E poi esistono altri ingressi al consorzio (a parte quello principale col passaggio al livello) dai quali si può accedere soltanto con un badge elettronico. E poi alcuni condomìni più grandi hanno un servizio di portierato. E poi all’interno di questi supercondomìni ci sono condomìni più piccoli anch’essi con un portiere. E poi ci sono le recinzioni allarmate. E poi molti appartamenti hanno un sistema di antifurto collegato alla guardiola, e da lì direttamente al posto di polizia. E poi, in molti, possiedono dei cani da guardia.
Per tutte queste ragioni qui si vive abbastanza bene. I furti negli appartamenti hanno percentuali bassissime, progressivamente in declino. E qualche spacciatore che si valeva delle improvvisate possibilità di imboscamento tra questi villini è stato identificato e tenuto alla larga. I problemi che riguardano l’esterno, i quartieri limitrofi, le borgate urbanizzate, come la microdelinquenza, la prostituzione, il degrado urbano, qui sono come dire evaporati.
Forse anche – prova a analizzare sempre il presidente – per la presenza esigua, se non inesistente, di stranieri (soltanto qualche cinese può permettersi un alloggio dove il valore degli immobili è del 30 o 40 % più alto che aldilà del perimetro esterno). Stranieri che a dire il vero entrano a Torre Gaia, anzi sono gli unici che a parte i vigilantes che a Torre Gaia lavorano invece di abitarci: badanti, colf, operai edili. Ma devono munirsi di un permesso d’accesso provvisorio da mostrare all’ingresso, che verrà rinnovato secondo i termini del lavoro (e quest’idea non mi pare nuova…).
Il disagio sociale come la bruttezza sembrano appunto sparire tra Piazza Pupinia e via dei Papazzurri. Casa fatiscenti? Macchine ammaccate? Neanche l’ombra, e quando intravedo una di queste villette che non ha l’aspetto di essere stata appena ristrutturata, il cancello leggermente arrugginito, una bandiera americana sdrucita esposta sul balcone, mi viene da applicare tutta la curiosità che mi deriva dall’eredità famigliare.
L’unica attività esistente all’interno del consorzio – a parte uno studio dentistico e l’albergo del consorziato – è questa casa famiglia per minori borderline. Dove la sindrome borderline è una diagnosi che sta tra la devianza sociale e la malattia psichica. “Sono violenti, spesso autolesionisti, hanno bisogno di essere seguiti durante tutta la giornata”. La struttura è una delle tre – già, solo tre – esistenti a Roma, è della Caritas, e i ragazzi ospitati sono quattro. Pochi di più gli operatori, che fanno di tutto, gestiscono la casa, cucinano, e appunto seguono i ragazzi scolasticamente, professionalmente, psicologicamente. “La questione dei minori a Roma è centrale”, mi spiega Eraldo, ma il vero problema per questi quattro non è adesso, quanto: che cosa faranno dopo i diciott’anni? Dove andranno nel caso che non riescano a tornare in famiglia, visto che non esistono strutture destinate ad accoglierli,? E per tutti gli altri minori borderline – “soltanto nell’ottavo municipio ce ne sono 136, ed è una sottostima”? E poi, fuori dai denti, mi parla del burn-out, dei contratti di lavoro, della difficoltà del terzo settore. Capita così che all’improvviso il mondo ritorni a essermi più familiare. Eccolo: il solito vecchio, un po’ fetido, contraddittorio spazio pubblico dove è difficile allontanare il male, la sofferenza, il disagio, l’insicurezza dalle nostre vite.
A casa mia si diceva citando Jung: “Datemi una persona sana e ve la guarirò”. Fa sempre un po’ fatica dar ragione ai propri vecchi.
Aggiornamento del 12/12/2008: alcuni residenti di Torregaia commentano questo articolo qui sulla Voce di Torregaia – la redazione
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Voglio un pensiero supericiale che renda la pelle splendida…
Sempre bravo Christian !!!
scusa, cos’è la “deformazione epistemologica famigliare”?in che senso questa famiglia ha a che fare con la scienza (episteme)?
insomma anche torre gaia rispetta i dettami taoisti degli opposti, pur nell’accezione moderna con guardie giurate.
se passi a venezia ti faccio conoscere il posto dove lavoro, in cui sono ospitate ragazze neo maggiorenni che non avevano posti cui andare.
non sono border line, ma hanno storie che in questo bel quartiere sarebbero considerate indesiderabili.
sempre bello leggerti
Sei borghese arrenditi, gli architetti sono qua hanno in mano la città.
Speriamo che non vada a finire come nel condominio de L’ultimo Capodanno perché sennò prima o poi potrebbe saltare in aria tutto ciò che è all’apparenza. A volte una persona sana – in mano alle persone sbagliate – può ammalarsi ed è già successo. Conosco ragazzi definiti a torto border line da servizi sociali incompetenti che alla fine sono diventati quello che non erano.
Torre Gaia a suo tempo ha rappresentato una potenziale via di fuga per una concezione enclavizzata del sentimento urbano. E’ un esperimento minore, ma curioso. C’è gente che è pronta a scommettere che quello sarà il futuro dell’urbanesimo prossimo venturo (Rifkin ne “L’era dell’accesso” considera appunto i quartieri-enclave come la cartina di tornasole di una battaglia aperta; quartieri in cui, appunto, l’accesso è negato). La più grande fabbrica di allucinazioni del pianeta, la Disney, con la sua città-ideale – Celebration – ne ha fornito l’esempio più eclatante, dimostrando in questo di essere anche la più immaginifica macchina urbana della contemporaneità: d’altronde non c’è piano regolatore che tenga di fronte alla tentazione di trasformare la metropoli in tante Disneyworld a tema.
Capisco il tuo stupore nello scoprire un quartiere del genere sulla Casilina, nel pieno di quella che tu chiami “La periferia romana per antonomasia”. Il fatto è che quella periferia romana per antonomasia, non coincide più da tempo con l’immaginario che, abitualmente, se ne dà. Il quadrante Casilina è probabilmente il più pregno di contraddizioni dell’intera Roma, ed è un esempio topico anche su scala nazionale. Si va dalle vecchie borgate neoraliste alla nuova aristocrazia del divertimento, dai piani di zona distopici (Tor Bella Monaca) a quelli “di fascia medio-alta” (Casilino 23), dalle strade-rifugio della nuova immigrazione alle enclave come Torre Gaia. E poi ci sono i centri commerciali, la nuova architettura-spettacolo (Meier a Tor Tre Teste), il GRA che ci passa in mezzo come un grande corso iperurbano ecc ecc ecc… Il tutto a macchia di leopardo, in maniera non lineare. Ma vabbè, fermiamoci qui.
Mi ricorda molto la Wysteria Lane delle Casalinghe Disperate, i tranquilli sobborghi delle cittadine amerciane. Consorzi autoreferenziali con polizia e scuole private. Al di la’ di quello il nulla. E anche all’interno, spesso. Ma non sapevo che esistessero anche da noi strutture del genere…
Ho conosciuto un luogo nuovo, come se ci avessi passato giorni. Consonanze con altre realtà suburbane. Bravo. Divertentissimo l’inizio.
Qualcuno si ricorda di noi?
in che senso Tor Bella Monaca è “distopico”?
cioè in che senso è più “distopico” di un altro qualsiasi ensemble?
e in che modo sarebbe potuto invece essere “topico”?
tash, distopico sta per contrario di utopico. Tor Bella Monaca appartiene a quella generazione di insiediamenti pianificati (i piani di zona; a Roma altri esempi famosi sono Corviale, Laurentino 38 ecc) pensati su larga scala in chiave efficientista ed igienista; risultato: una specie di astronave schiantata a terra, o, come piace pensare a molti, un classico scenario da incubo fantascientifico. Ecco qua l’aggancio alla distopia.