Da Sud n°8 Paola Malavasi

atlantide.jpg
ATLANTIDE
di
Paola Malavasi
(seguono altri versi suggeriti nei commenti e presenti sul sito:
http://www.chiaradeluca.com)

Se un poeta inizia un racconto sulla strada
l’ultimo verso viene pronunciato in cima al monte.
Dal porto parte una domanda e con la nave salpa la risposta.
Il vento fruga tra le donne e l’uomo riconosce la sua
dall’odore che manca nell’orto, che poi è il profumo di Atlantide.

La bellezza si affaccia dalla porta di casa
nei capelli crespi pieni di conchiglie,
negli occhi rapiti della notte,
nel seno di donna, gonfio d’onde e di promesse.
La bellezza cerchia le case lucide,
le tinge di tramonti spessi, entra ovunque
perché nessuna casa possa dirsi perseguitata.
Non c’è altro, oltre la città senza tempo.
Ma il filosofo ambizioso immagina Atlantide nel giorno.
Pensa alla luce incerta del tramonto, a città moltiplicate.
Così in fila vengono le ore.
È festa di sorpresa, prima.
Desiderio e passione passano i corpi ad uno ad uno
e si cerca un uomo introvabile, una donna perduta,
una casa più alta, una distesa di verde e una torre.
Sorgono paesi di pietra, campane e fatica per ritrovarsi,
raddoppia l’urgenza di canti e rattoppi.
Eterni lavori di costruzione, riparazione e una certa malinconia
hanno ispirato tra l’altro questo canto.


IN TRE GIORNI

1

Nessuno seppe cosa successe in quel momento

perché nemmeno un passero restò sul davanzale

non ci furono previsioni del tempo e mancarono le stagioni.

La famiglia perse le campane della messa.

Il sole, se ci fu sole, picchiava sulle loro teste fino al colpo di calore.

L’aria si fece pesante, era un boxeur scatenato,

colpiva al diaframma e l’orologio sgambettava

segnando i minuti con baldanza inadeguata.

Il calendario registrò in quel punto un cedimento.

Ma per il resto tutto era tranquillo.

Lui, i chiodi della flebo,

occhi altrove e il corpo abbandonato,

un respiro così lieve (tempi sottili,

esagerata discrezione).

Gli altri ascoltavano soffi di fiato

pronti a inseguirli, quando fossero cessati

nelle giunture dei secondi, dove il futuro è incerto,

nelle pause millenarie del vuoto.

2

Dopo gli ultimi lamenti

il suo profilo è fermo

le braccia di acciaio

i piedi dritti e innaturali.

Senza calore il braccio.

Senza emozioni il petto.

Un tempo straniero lo attraversa.

Brucia gelo nelle vene ferme

e gli occhi riposano distratti.

Il suo corpo è pietra di un giorno.

Manda messaggi che non arrugginiscono.

Domani lo nasconderanno,

oggi lo compongono

per la memoria e la paura

nel silenzio che non appartiene.

Come certe statue nei giardini

che parlano solo agli uccelli

e agli alberi freddi.

3

La moglie gli dormì accanto anche la notte della veglia.

Nessuno riuscì a dirle che ormai lui era fermo, come una data.

Anche lei restò immobile fino all’alba.

Poi tirò su le serrande e, senza essere ascoltata,

da quel giorno per tutti i suoi mattini, disse

Angelo, oggi c’è il sole, c’è nebbia, piove.

4

Intanto lui forse gira tra le stanze,

d’un tratto universale.

Ha in mano un catino di lega siderea,

là si raccoglie il pianto che non lascia tracce

in un silenzio di stelle rapite.

A questo servono le lacrime: l’acqua cancella

la vita davanti a un giudice sentimentale.

Bagno lustrale, fiume.

Dopo i due giorni del lutto lo navigherà,

saluterà come se andasse a lavoro

con la sua debole mano storica, ancora,

e il solito antico cipiglio.

LA CITTÁ DI LEGNO

Dimmi che è stato uno scherzo.

Dio Padre invisibile, tu per statuto,

li rimanderai presto a casa, i nostri cari?

Tu che raccogli a sera, in mazzo, tutti i padri

in quale prato hai messo il mio?

Lo ritroverò con un cestino di fragole in mano?

Vorrei sapere dove hai portato lui

e quelli delle città di legno e terra

che ingombrano sogni e dipinti.

E se stanno bene. E staremo bene? E poi

anche mio figlio starà bene? Gli lascerai

quel bel sorriso? Mi bacerà oltre la morte?

Era uno scherzo, di’?

***

Cosa c’è lì di così forte che ti tiene,

quali spettacoli, quale tivù e fiumi

di sogni realizzati,

droghe che placano i sogni?

Cosa c’è lì? E non dirmi terra.

Ti prego, padre, non dirmi che sei

terra.

***

Non c’entra quanto si era furbi,

i soldi, la fortuna

dopo quel bordo si sta come barboni

a ridere intorno all’albero della conoscenza

a contare le stelle

coperti di rocce, col delta dei fiumi nelle mani

e ponti nelle costole.

NOTTE

Si alza la nebbia di carbone sulle foglie viola del pruno.

Scende una larga confusione sulla mente chiara.

Si chiude una finestra sul modesto campanile della chiesa

come sulla vigna che vende ad uno ad uno i chicchi

d’uva al mercato della notte.

Il mare veste sacchi della spazzatura.

Le cortine hanno succhiato la luna, falce a falce.

La strada finisce qui. Dopo l’ombra della luce.

Qui si ferma una ragazza. Posa i bagagli. Toglie i vestiti.

Perché la notte ci prende solo nudi.

Spento lo stereo, gocciano voci.

Sono cerchi vuoti i seni tondi, al tatto di lui,

che è stato abbandonato.

Lei piange il marito perso e il tempo.

Se chiudo gli occhi, posso salvare i colori fino all’alba.

Se chiudo gli occhi, un altro li riapre.


IL NOSTRO VERO NOME

Al vincitore darò la manna nascosta, e
un ciottolo bianco sul quale è scritto un
nome non conosciuto da nessuno fuorché
da chi l’ha avuto.

(Apocalisse)

Ascoltiamo il silenzio come se fosse il nostro vero nome.

Nelle sue lettere ampie stanno le valli, i piccoli merli scandiscono

cori e le onde che spalmano il mare su briciole

senza memoria – un tempo, monti, un tempo, ma ora cosa importa? –

Il nome scorre lento, mentre ere e fiumi tagliano paesi.

Rimanda a nuove mete, più lontane, alla bocca del barbone

che copre con il mantello di cartone la notte bagnata

fin nella barba, alla pioggia di capelli accatastati

dalla scopa del barbiere, corpi della città gelata.

Il vero nome ci schiva come fossimo scintille.

Ma le parole ci abitano e confidiamo nella rivelazione.

Nominano il viale segnato di passi, l’area dei destini.

Perché il nome non è nascosto, è largo, disteso

nel corpo rotondo del vento, nel suggerimento

di una corolla mentre apre i petali.

Vacilla sui picchi come bandiera e segue

i passi tra le montagne, lo tratteggiano rondini come pennini,

a partire dal cielo di mari lontani fino al nostro balcone:

così ci rendono segni parziali.

Il gatto ci fissa stupiti, ignaro di musiche e tivù

con la saggezza di un interprete.

Possiede la furbizia del silenzio e la pigrizia del suo spreco.

Il nostro nome si alza all’alba prima del risveglio

quando a leggerlo intero riesce l’allodola.

IN PISTA

Quanti i minuti della storia, quanti i sassi della terra,

tanti uomini avevano ballato davanti all’orchestra

di alberi e fiumi, accesi fuochi e battaglie, palazzi

alti regnavano nell’aria come ponti, però mai fino al cielo.

Quando sono salita in pista io,

affondava il piede un uomo sulla luna,

c’era la guerra fredda mentre eravamo così vivi.

Mi sono stretta in un lento a un giovane di allora

e si scioglieva un confine di cemento nel recinto d’Europa.

In una notte lunga arrivò mio figlio, fu un raddoppio improvviso.

Ho visto tempi che spezzano il sorriso. Torri crollavano, separazioni,

ma chi li costruì sull’acqua per portarli al cielo?

E bambini inghiottiti dal mattino.

I segni brillano, fotografie dell’alba che tocco con le dita

versate con le stagioni nel vento.

Il giorno in cui il mio viso accennò oscenità al tempo

non mi sembrò poco. E gli addii che spaccano i ricordi

i volti, così cari nella nuvola incerta della folla.

A volte non ballo, penso.

Penso alle ragazze con in serbo parole che ho già detto,

alle imprese che vogliono annerire il cielo e l’anima e i fiori.

Esco dalla pista e mi metto nell’aria delle piante placate, smosse

dalla pioggia, mentre lasciano messaggi nelle foglie.

L’albero mi dà occhi di legno, gli uccelli

insegnano il canto solitario di chi non vuole pubblico.

Lontani dalla pista guardiamo i bambini,

spuntati da squarci di donna, sputati dal buio.

I figli del nuovo millennio, dico, i figli dell’occidente.

Ma gli alberi, gonfiati dal vento, li sento,

ridono se dico millennio, se dico occidente

ridono perché sanno che in autunno, già in autunno…

A MIO FIGLIO

1

Nel sonno il rumore del respiro di mio figlio

è quello del cotone sulla ferita leggera.

Contiene le imprese di mostri colorati

dove lui è eroe protagonista.

Il suo odore viene da non so dove,

ma lo conosco.

Non so quale forma ha l’anima

che mi inganna con i tratti schietti del suo viso.

Lui respira forte di notte, a bocca aperta

scacciando i fantasmi dalla casa

che lo temono come un cane che ringhia.

Il suo respiro è una luce accesa

sul comodino traballante della lunga notte

di questa piccola famiglia.

2

Ti ho lasciato che dormivi su un fianco.

Lungo, accoccolato come il gatto, il muso buono del sonno.

La casa di pietra custodisce il tuo risveglio.

È alta, solida, un tempio, una fortezza.

In cima alla salita, tra mattoni e cemento,

al piano alto,

solo gli uccelli oggi hanno il diritto

di entrare nei tuoi sogni, fischiando.

3

In questo tuo essere figlio unico

c’è grandezza e solitudine.

Ma in una storia di fratricidi,

da Abele, la vittima, a Gesù, da ebrei e palestinesi,

c’è posto ormai solo per legami infrangibili.

Non avrei saputo darti fratelli

migliori di quelli dell’orto di Dio.

Fratelli scelti, per una vendemmia

che presto in terra sia festa

di famiglia.

da A cosa servono le lacrime, inedito

16 COMMENTS

  1. A me che me ne intendo poco piacciono molto gli ultimi due versi.

    Dove posso procurarmi una copia di “SUD” n° 8?

  2. ordinandola a Dante e Descartes
    la distribuzione partirà fra breve
    il numero è appena uscito
    effeffe

  3. Per effeffe,

    Il SUD sembra una rivista attraente. Vedo che la casa editrice si trova a Napoli.
    Ho iniziato Metro Morphoses. “Je me régale”; non so tradurre l’espressione in italiano.
    E’ un libro che mette di buon umore. Lo consiglio a tutti: pessimisti, nevrotici, sovreccitati, communisti o no, dandy o no, romantici, libertini, allegroni.

  4. Per effeffe,

    Purtroppo lavoro alla scuola media.
    La prossima volta fammi una lettera di assenza. Motivo: malattia fulminante, fobia scolastica, disfunzione della sveglia.
    Ciao, ciao.

  5. @un lettore
    Grazie per l’occasione che mi hai dato di riprendere il filo del “post”.
    Quando propongo delle poesie, in generale, non aggiungo nessun commento, o nota critica lasciando che il testo parli da solo e che almeno un altro lo intenda parlare allo stesso modo in cui l’avevo inteso io. Non vi rivelerò nulla della poetessa, che non ho avuto la fortuna di conoscere, se non che di lei non potremo avere più nulla. Tranne quello che non conosciamo ancora. E che spero di poter conoscere insieme a voi. Non tutti. Parlo di quelli che ascoltano.
    effeffe

  6. un lettore mi ha preceduta nella segnalazione.
    bene. e un grazie a francesco forlani per l’articolo.
    paola

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francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017