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Il brusio della lingua

premessa di a. s.

Non di sola complementarità vive il fisico. Parecchi lustri fa mi sono nutrito per vari lustri di fantascienza che chiamerei ‘classica’, oggi mi pare scarsamente amata. In uno dei romanzi del ciclo della Fondazione di Asimov, forse “L’altra faccia della spirale”, o forse quello successivo, nel quale comunque si parlava della Seconda Fondazione, si descrive il funzionamento del Consiglio di questa Seconda Fondazione. Citando a memoria ormai lontana, direi che Asimov descrive il funzionamento di quel Consiglio come una specie di brusio apparentemente incomprensibile. Occorre sapere che tutti i Consiglieri avevano ‘poteri mentali’
Molti anni dopo, cioè di recente, ho letto, e riletto, Il brusio della lingua, un saggio di Roland Barthes, che mi ha irresistibilmente fatto riaffiorare il lontano ricordo. Ma a parte l’occasione, questo breve saggio – che dà il nome alla raccolta con lo stesso nome, pubblicata da Einaudi nel 1988 – mi piace talmente che non resisto all’idea di condividerlo con i frequentatori di Nazione Indiana. Mi scuso con quelli che l’avranno già letto e riletto. Eccolo qua:

““La parola è irreversibile, questa è la sua fatalità. Ciò che è stato detto non può più essere modificato, se non aumentandolo: correggere vuoI dire qui, stranamente, aggiungere. Parlando non posso mai cancellare, sopprimere, annullare; tutto quel che posso fare è dire «annullo, cancello, rettifico» – insomma, ancora parlare. Chiamerò «balbettio» tale singolarissimo annullamento per via di aggiunte.

Il balbettio è un messaggio due volte mancato: da una parte lo si capisce male, ma dall’ altra, con un certo sforzo, lo si capisce comunque; non è veramente né nella lingua né al di fuori di essa: è un rumore del linguaggio paragonabile a quella serie di crepitii con i quali un motore ci segnala di non essere a punto; è proprio questo il senso del perdere colpi, segno sonoro di un tracollo che si profila nel funzionamento dell’oggetto. Il balbettio (del motore o del soggetto) è, in sostanza, una paura: ho paura di dovermi fermare strada facendo.

La morte della macchina: può essere dolorosa per l’uomo, se la descrive come quella di una bestia (si pensi al romanzo di Zola). Insomma, per quanto la macchina sia poco simpatica (perché costituisce, nella figura del robot, la peggiore delle minacce: la perdita del corpo), esiste tuttavia in essa la possibilità di un tema euforico: il suo buon funzionamento; temiamo la macchina perché funziona da sola, ne traiamo piacere perché funziona bene. Ora, come le disfunzioni del linguaggio sono in un certo senso riassunte in un segno sonoro, il balbettio, cosi il buon funzionamento della macchina si manifesta in un essere musicale: il brusio.

Il brusio è il rumore di ciò che funziona bene. Ne deriva il seguente paradosso: i1 brusio denota un rumore limite, impossibile, il rumore di ciò che, funzionando alla perfezione, non fa rumore; il brusio è l’evaporazione stessa del rumore: il tenue, il confuso, il tremulo sono percepiti come i segni di un annullamento sonoro.

Il brusio viene dunque dalle macchine felici. Quando la macchina erotica, immaginata e descritta mille vo1te da Sade, agglomerato «pensato» di corpi i cui luoghi d’amore sono accuratamente accordati gli uni agli altri, si mette in moto, per i movimenti convulsi dei partecipanti, palpita ed emette un leggero brusio: insomma, funziona, e funziona bene. Altrove, quando i giapponesi di oggi si dedicano in massa, in grandi sale, alle slot-machines (che chiamano Pachinko), gli ambienti in questione sono pieni dell’ enorme brusio delle palline, e tale brusio significa che qualcosa, collettivamente, funziona: il piacere (per altri versi enigmatico) di giocare, di muovere il corpo con precisione. Il brusio infatti (come si vede dall’esempio sadiano e da quello giapponese) implica una comunità di corpi: nei rumori del piacere che «funziona» nessuna voce si leva al di sopra delle altre o si spegne, nessuna si presenta per sé; il brusio è appunto il rumore del godimento plurale – ma non certo di massa (la massa ha una sola voce, e terribilmente forte).

E la lingua, può produrre brusio? In quanto parola, sembrerebbe condannata al balbettio; come scrittura, al silenzio e alla distinzione dei segni: in ogni caso, rimane sempre troppo senso perché il linguaggio giunga a un godimento proprio alla sua materia. Ma quel che è impossibile non è inconcepibile: il brusio della lingua forma un’utopia. Quale utopia? Quella di una musica del senso; con questo voglio dire che nel suo stato utopico la lingua sarebbe allargata, o addirittura snaturata, sino a formare un immenso tessuto sonoro nel quale l’apparato semantico si troverebbe irrealizzato; il significante fonico, metrico, vocale, si dispiegherebbe in tutta la sua sontuosità, senza che mai un segno se ne distacchi (venga a naturalizzare questa pura distesa di godimento), ma anche – ed è qui il difficile – senza che il senso sia brutalmente espulso, dogmaticamente precluso, insomma castrato. Nel suo brusio, affidata al significante da un moto inaudito, ignoto ai nostri discorsi razionali, la lingua non perderebbe tuttavia di vista un orizzonte di senso: il senso, indiviso, impenetrabile, innominabile, sarebbe comunque posto in lontananza come un miraggio, farebbe dell’esercizio vocale un duplice paesaggio, dotato di uno «sfondo»; ma, per evitare che la musica dei fonemi sia lo «sfondo» dei nostri messaggi (come avviene nella nostra Poesia), il senso sarebbe qui il punto di fuga del godimento. E come, nel caso della macchina, il brusio non è altro che il rumore di un’assenza di rumore, cosi, riferito alla lingua, sarebbe quel senso che fa intendere, un’assenza di senso, oppure – ed è lo stesso – quel non-senso che farebbe intendere in lontananza un senso ormai liberato da tutte le aggressioni di cui il segno, formatosi nella «triste e selvaggia storia umana», è il vaso di Pandora.

Si tratta senza dubbio di un’utopia; ma l’utopia è spesso ciò che guida le ricerche di avanguardia. Talora, dunque, incontriamo qua e là quelli che potremmo definire esperimenti di brusio: come certe produzioni della musica post-seriale (è molto significativo che questa musica attribuisca un’estrema importanza alla voce, che manipola, cercando di snaturare in essa il senso, ma non il volume sonoro), certe ricerche radiofoniche, o ancora gli ultimi testi di Pierre Guyotat o di PhiIippe Sollers.

Fatto ben più importante, noi stessi possiamo condurre questa ricerca intorno al brusio, e possiamo farlo nella vita, nelle avventure della vita; in ciò che la vita ci offre in maniera inattesa. L’altra sera, vedendo il film di Antonioni sulla Cina, ho avvertito improvvisamente, all’apparire di una nuova sequenza, il brusio della lingua: nella strada di un villaggio alcuni bambini, appoggiati a un muro, leggèvano a voce alta, ciascuno per sé, tutti insieme, un libro diverso; era un brusio ben riuscito, come una macchina che va bene; il senso era per me doppiamènte impenetrabile, sia perché non conosco il cinese sia per la confusione di quelle letture simultanee; eppure sentivo, in una specie di percezione allucinata tanto riceveva intensamente tutta la finezza della scena, la musica, il respiro, la tensione, l’applicazione, insomma qualcosa di simile a uno scopo. Come! Basta forse parlare tutti insieme per ottenere che la lingua produca il suo brusio nel modo raro, impregnato di godimento che ho appena descritto? Evidentemente non è cosi; alla scena sonora è necessario un erotismo (nel senso più lato del termine) lo slancio o la scoperta o ancora il semplice accompagnamento di un’emozione: questo dava appunto il viso dei bambini cinesi.

Mi immagino oggi un po’ alla maniera dei Greci antichi, cosi come li descrisse Hegel: interrogavano, sosteneva, con passione e senza stancarsi il brusio delle fronde, delle sorgenti, dei venti, insomma il fremito della Natura, per trovarvi il disegno di un’intelligenza. Ed io interrogo il fremito del senso ascoltando il brusio del linguaggio – di quel 1mguaggio che è la mia Natura peculiare di uomo moderno.””

[Roland Barthes, Il brusio della lingua, Einaudi 1988, pp. 79-81; l’originale Le bruissement de la langue, è del 1984.]

27 COMMENTS

  1. ciao Antonio!
    Quanta bella roba da leggere questa sera!
    Viva NI!
    au revoire
    carla

  2. notevole, e davvero bello.
    anche io ho “mangiato” un po’ di classica fantascienza, ma ho saltato milioni di altri “classici”.

  3. Per non parlare del brusio del silenzio.
    Come sarei curiosa di leggerlo in lingua originale questo bruissement…
    Bruire e bruit che evaporano l’uno nell’ altro.
    Bellissimo.

  4. Questa “musica del senso” di cui parli
    somiglia a un’intuizione!
    se poi si riesce a materializzare…

    Tutto ciò è molto intrigante!

  5. carissimo Antonello
    ti propongo un’ ipotesi:
    e se alla fine della fiera uqel che resta ad Ulisse del Canto delle sirene fosse proprio un brusio?
    effeffe

  6. carissimo Antonello
    ti propongo un’ ipotesi:
    e se alla fine della fiera quel che resta ad Ulisse del Canto delle sirene fosse proprio un brusio?
    effeffe

  7. “Ed io interrogo il fremito del senso ascoltando il brusio del linguaggio – di quel linguaggio che è la mia Natura peculiare di uomo moderno.”

    Sei grandioso!!!

  8. “Nel patto originario non è previsto se chi passa ascolterà legato o non legato il canto. L’uso di legare appartiene solo a uno stadio dove il prigioniero non è piú ucciso immediatamente. Proprio in quanto – tecnicamente illuminato – si fa legare, Ulisse riconosce la strapotenza arcaica del canto. Egli si china al canto del piacere, e lo sventa, cosí come la morte. L’ascoltatore legato è attirato dalle Sirene come nessun altro. Solo ha disposto le cose in modo che, pur caduto, non cada in loro potere. Con tutta la violenza del suo desiderio, che riflette quella delle creature semidivine, egli non può raggiungerle, poiché i compagni che remano, con la cera nelle orecchie, non sono sordi solo alle Sirene, ma anche al grido disperato del loro capitano. Le Sirene hanno quel che loro spetta, ma già ridotto e neutralizzato – nella preistoria borghese – al rimpianto di chi prosegue. L’épos non dice che cosa accade alle cantatrici dopo che la nave di Ulisse è scomparsa. Ma nella tragedia sarebbe stata certo la loro ultima ora, come per la Sfinge quando Edipo risolve l’indovinello, eseguendo il suo ordine e cosí rovesciandola. Poiché il diritto delle figure mitiche, che è il diritto del piú forte, vive solo dell’ineseguibilità delle loro norme. Se esse vengono soddisfatte, i miti si dissolvono fino alla piú lontana posterità.”

    M. Horkheimer e Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo

  9. ““Alle Sirene prima verrai, che gli uomini
    stregano tutti, chi le avvicina.
    Chi ignaro approda e ascolta la voce
    delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli,
    tornato a casa, festosi l’attorniano,
    ma le Sirene col canto armonioso lo stregano,
    sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri
    umani marcenti; sull’ossa le carni si disfano.
    Ma fuggi e tura le orecchie ai compagni.
    cera sciogliendo profumo di miele, perché nessuno di loro
    le senta: tu, invece, se ti piacesse ascoltare,
    fatti legare nell’agile nave i piedi e le mani
    ritto sulla scarpa dell’albero, a questo le corde ti attacchino,
    sicché tu goda ascoltando le voce delle Sirene.
    Ma se pregassi i compagni, se imponessi di scioglierti,
    essi con nodi più numerosi ti stringano””

    (Odissea, canto XII, vv. 39-54)
    Ma te l’immagini ascoltare Omero che canta dei versi così, nella sua inimmaginabile lingua? Lui era ed è la vera Sirena.

  10. LES CHATS

    Les amoureux fervents et les savants austères
    Aiment également, dans leur mûre saison,
    Les chats puissants et doux, orgueil de la maison,
    Qui comme eux sont frileux et comme eux sédentaires.

    Amis de la science et de la volupté
    Ils cherchent le silence et l’horreur des ténèbres;
    L’Erèbe les eût pris pour ses coursiers funèbres,
    S’ils pouvaient au servage incliner leur fierté.

    Ils prennent en songeant les nobles attitudes
    Des grands sphinx allongés au fond des solitudes,
    Qui semblent s’endormir dans un rêve sans fin;

    Leurs reins féconds sont pleins d’étincelles magiques,
    Et des parcelles d’or, ainsi qu’un sable fin,
    Etoilent vaguement leurs prunelles mystiques.

    Charles Baudelaire

  11. Voilà!

    I GATTI

    I fervidi innamorati e gli austeri dotti
    amano ugualmente nella loro età matura,
    i gatti possenti e dolci, orgoglio della casa,
    come loro freddolosi e sedentari.

    Amici della scienza e della voluttà,
    ricercano il silenzio e l’orrore delle tenebre;
    l’Erebo li avrebbe presi per funebri corsieri
    se mai avesse potuto piegare al servaggio la loro fierezza.

    Prendono, meditando, i nobili atteggiamenti
    delle grandi sfingi allungate in fondo a solitudini,
    che sembrano addormirsi in un sogno senza fine;

    le loro reni feconde sono piene di magiche scintille
    e di frammenti aurei; come sabbia fine
    scintillano vagamente le loro pupille mistiche.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato anche due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia, pubblicato presso Mimesis. Ha curato anche il carteggio tra W. Pauli e Carl Gustav Jung, pubblicato da Moretti & Vitali nel 2016. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.