Football
di Valter Binaghi
(Adattato dal romanzo: La porta degli innocenti, Dario Flaccovio Editore 2005)
In un villaggio dell’Africa nera un giorno arriva una jeep lucente come un drago dell’epoca degli antenati, e scende l’uomodelmonte, quello degli ananas.
È sicuramente vestito di lino e ha in testa un gran cappello, sicuramente bianco.
I capifamiglia lo assediano: «Il prezzo degli ananas è crollato e non abbiamo più di che impastare una focaccia. Vogliamo tornare a coltivare manioca».
L’uomodelmonte sorride con benignità: «Miei cari amici, questo non è possibile. Avete firmato un contratto per vent’anni, vedete?» E toglie di tasca il pezzo di carta dove i contadini avevano messo la loro croce: «Se non lo rispettate perderete il vostro campo. È scritto qui, in piccolo».
Non fa in tempo a finire che qualcosa fischia sulle teste dei presenti e il gran cappello bianco schizza lontano: è George, con un tiro fantastico dei suoi.
Fin da piccolo George è stato un prodigio della natura: batteva in corsa qualunque altro uomo o animale del villaggio, e perfino qualche gazzella nella savana. Come regalo per il suo sesto compleanno ha ricevuto un pallone da calcio e da quel momento non se n’è più separato. Discorre palleggiando (piede – ginocchio – testa – tacco e di nuovo piede) e ubriaca anche il più paziente degli interlocutori. Fa tunnel a tutti quelli che incontra, passa con un pallonetto il tetto delle capanne e si precipita a raccogliere la sfera dall’altra parte, prima che cada a terra. Ha imparato a calciare forte e preciso, e siccome al villaggio non c’è un campo da calcio con le porte, si allena a colpire qualsiasi cosa gli vada a genio con la precisione di un arciere: stacca le noci di cocco dal ramo, stende un coniglio a cinquanta passi, manda in bestia lo stregone facendogli saltare dalla testa il cappello piumato. È geniale e pericoloso, come tutti gli artisti.
«Prendete quel monello e dategli una bella sculacciata!» dice l’uomodelmonte.
Molti dei presenti si avventano su George, ma il ragazzino recupera in un batter d’occhio la palla e comincia a dribblare a destra e a manca, girando intorno agli inseguitori fino a farli crollare col mal di testa. Poi sale sul tetto della capanna dello stregone e, con un tiro straordinario, centra il lunotto della jeep mandandolo in frantumi.
«Non ho mai visto una cosa del genere!» dice l’uomodelmonte, e sul suo volto la rabbia lascia il posto a uno strano sorriso: «Chi è?».
«È mio figlio George, signore», dice un contadino.
«Bene bene», fa l’altro, «qui hai un piccolo tesoro, lo sai? Questo vale più degli ananas», e prende sottobraccio il padre di George, spiegandogli il nuovo progetto per filo e per segno.
A George l’idea di prendere l’aereo non va molto a genio, ma la prospettiva di giocare in veri campi di calcio, con una casacca variopinta addosso e migliaia di spettatori che urlano il suo nome è più forte di ogni resistenza.
Dopo un mese arrivano tre proposte di contratto dall’Italia. È George a scegliere la squadra: ha la casacca dei colori delle zebre, gli ricorderà il suo paese. La famiglia di George riceve un assegno che basta a comprare un nuovo campo, e la promessa di somme ben più cospicue negli anni a venire quando George, dopo l’addestramento nel settore giovanile, calcherà il palcoscenico della Serie A.
George saluta uno a uno tutti i coetanei del villaggio, tira un’ultima pallonata al copricapo dello stregone che bestemmia gli spiriti ma poi, anche lui commosso, gli regala una zampa di coniglio dai poteri miracolosi:
«Se qualcuno ti darà fastidio», dice, «strofinala tre volte a terra. Il demone che vi dimora getterà un potente maleficio sui tuoi nemici».
Poi George abbraccia la madre, che lo soffoca tra le poppe grandi come dirigibili e piange sul suo capo ricciuto, mentre il padre rimane tutto il tempo in silenzio. Sale sulla jeep che parte ringhiando nuvole di fumo, proprio come un drago dei tempi antichi.
Quando l’aereo atterra nella grande città italiana, George si trova in uno strano luogo, dove ombre frettolose si muovono nella nebbia: per un po’ gli pare di essere nel paese dei morti. Ficca la mano in tasca e stringe la sua zampa di coniglio: si sente subito meglio. Al deposito bagagli, un inserviente africano gli strizza l’occhio. Porta al collo un amuleto kikuyu: tribù ben conosciuta, praticamente vicini di casa. È tutto a posto: George inizia a cuor leggero la sua avventura di immigrato di lusso.
Ieri mattina, come ogni mattina, ha fatto una colazione abbondante nel centro sportivo che lo ospita insieme ad altri ragazzi italiani, slavi e turchi, tutti giovani promesse che il vivaio cova come una chioccia in attesa del gran decollo. Ma la vera stella è lui, George: una volta scesi nel campo e lasciate le tute sulla panchina, il prato verde si trasforma in una pista dove George slalomeggia a suo piacere con la palla al piede, scartando chiunque gli si para davanti.
Ora ha ricevuto palla a centrocampo: sfreccia tra due mediani e salta via lo stopper lasciandosi alle spalle gli avversari immobili come birilli e schiumanti di rabbia, irride il gigantesco terzino croato, poi scarta anche il portiere e deposita graziosamente il pallone in rete come un mazzo di fiori tra le braccia di una dama.
A bordo campo, il tecnico si sbraccia pretendendo maggior concentrazione dai difensori. In tribuna due dirigenti in giacca blu e cravatta coi colori sociali applaudono con discrezione, ma le labbra si muovono veloci, al ritmo di una conversazione tutt’altro che lieta.
«Sei sicuro?», dice il più alto.
«Vuoi vedere il referto?» ribatte l’altro.
«Maledizione. Un talento così. Solo col cartellino ci avremmo fatto un sacco di soldi».
«La risonanza magnetica parla chiaro. Quel ginocchio è di vetro. Al primo contrasto duro va in pezzi».
«E ci abbiamo messo tre mesi per accorgercene?».
«Si vede che finora nessuno ci è mai riuscito, a fargli un fallo. Ma se continua, è solo questione di tempo».
«Ma non si può operare?».
«Non se ne parla nemmeno. Un miliardo tra intervento e rieducazione. Chi la investe una cifra così per un ragazzino sconosciuto, senza garanzie di recupero? Mica si chiama Ronaldo!».
«E allora? Cosa dice il capo?».
«Il solito. Una manciata di dollari ai genitori, un biglietto d’aereo e tanti saluti alle giraffe».
L’uomo alto accende una lunga sigaretta al mentolo. Tira due boccate in silenzio e sbuffa il fumo davanti a sé.
«Glielo dici tu?».
«Sempre a me il lavoro sporco», dice l’uomo tarchiato ma senza rabbia, come ricordando a se stesso il suo ruolo subalterno.
I ragazzi sono da un pezzo sotto la doccia, ma l’africano è ancora lì a bordo campo, a fissare il prato di un verde smagliante. È stato visto parlare a bassa voce con l’uomo tarchiato, appena qualche minuto, e alla fine ha fatto sì con la testa, e lo ha lasciato andar via sollevato dall’aver assolto il compito penoso, mentre lui, George, si è seduto sull’erba, aspettando che i compagni infilassero uno dopo l’altro la via degli spogliatoi: agli uomini della sua tribù non è permesso piangere in pubblico.
Guarda il pallone abbandonato sull’erba: chissà perché oggi somiglia tanto a un ananas.
Si sfila dal collo una cordicella cui è attaccato qualcosa: una zampa di coniglio. Stringe l’amuleto con la destra e lo sfrega tre volte per terra. Ha in mente un malocchio multimediale che in una settimana li metterà in ginocchio.
Dopo George si avvia alle docce. Lui non può saperlo ma forse, in quel preciso momento, l’uomo tarchiato in ufficio si è chinato a raccogliere una penna e si ritrova piegato in due dal classico colpo della strega, e l’elegantone viene colto da un improvviso attacco di diarrea proprio mentre si reca a un incontro galante.
Ma in fondo, anche se lo sapesse, tutto questo gl’importerebbe poco.
Mentre il getto d’acqua calda ristora i suoi muscoli, George decide che non tornerà in Africa. Non così, da sconfitto. Ripensa all’inserviente incontrato in aeroporto: c’è n’è della sua gente che tenta la fortuna, e gli spiriti della sua terra sono ancora con lui, nella zampa di coniglio che porta al collo.
George esce dalla doccia e si asciuga lentamente nello spogliatoio vuoto. Poi si avvicina alla parete e schiaccia il bottone rosso sul pannello. Il getto d’aria calda sui capelli ricciuti, solo qualche istante. Si guarda nello specchio, e vede un ragazzo bello e forte. Sorride, mostrando all’altro George la dentatura smagliante.
Non può reclamare al manager i suoi documenti, anzi bisogna sbrigarsi, altrimenti verranno a prenderlo per rimpatriarlo. George ha buone gambe: ha sentito dire che in campagna c’è sempre da lavorare, e non si fanno tante storie per le carte. Mucche, capre e raccolta, tutte cose che George conosce alla perfezione. Diventerà ricco, tornerà al villaggio e comprerà a suo padre uno anzi due campi.
Gli dicono che il Canavese è il massimo in questa stagione e lui si fionda.
Non conosce nessuno, comunque si può sempre chiedere una volta lì.
Ma deve aver chiesto a quello sbagliato.
L’hanno steso sulla provinciale, alle tre del mattino.
E la zampa di coniglio, dopotutto, non gli è servita un gran che.
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Forse dovremmo tutti tornare
a coltivare manioca!
Binaghi, presto il suo libro sarà tradotto e, se l’editore ci sa fare, diventerà un best seller internazionale. Non l’ho ancora finito ma se mantiene quella tensione per tutto il racconto allora è uno dei migliori romanzi italiani degli ultimi anni. Complimenti sinceri.
@esposito
Sa qualcosa che io non so?
Per ora risulto a me stesso solo uno scrittorucolo semisconosciuto e con le pezze al culo. Comunque, anche se è solo un augurio, la ringrazio assai.
Gran libro il Bonetti, un urlo per un mondo migliore, come in questo
George e tutti i George che non sono diventati Weah e neanche se stessi.
Binaghi, non fare il modesto, hai scritto un gran libro e lo sai bene. Ancora più grande se paragonato al ciarpame letterario che trovi ogni giorno il libreria.
Auguri.
Binaghi, so solo che in un mondo giusto il suo libro venderebbe le stesse copie, se non di più, di un Codice da Vinci qualunque. Ha tutte le carte in regola per diventare un successo internazionale. Certo, posso sbagliarmi, ma è quello che penso e che le auguro sinceramente.
Lo stesso pensiero nello stesso momento, Esposito. Qui c’è la mano di Bonetti.
Sono d’accordo. (Sono fk e non ho voglia di togliere il nick di cui sopra e rimettere le mie vere iniziali).
Certo che se dopo Saviano pure Binaghi ( e speriamo bene anche per Pecoraro ) diventa famoso dobbiamo cominciare a preoccuparci per le sorti di Nazione Indiana.
Bruno, io sono già preoccupato. E di brutto.
@ effekappa
Ma lo sai che stai proprio bene con quella mascherina? Ti dona mica da ridere!
p.s.
Non so se hai notato il “sublime” gioco retorico di quel “mica da ridere”. A proposito del quale: ma di cosa stai (sor)ridendo??? Sembri tashtego sulla copertina di un “certo” libro!
@grande ugolino conte.
grazie, ho cominciato a usare questa mascherina per farmi capire – indirettamente – dalla sciura georgia nel thread “ammazzapapi” di rovelli. vedi sotto:
:-) Says:
April 9th, 2007 at 13:17
sono veramente stufo di essere abusato sessualmente da questa signora georgia a ogni piè sospinto. chiedo l’intervento di amnesty international. cazzo.
Franz, mi sa che non stai bene.
Di solito gli abusi sessuali da parte di signore non ti dispiacciono.
Ma certo, solo che voleva essere l’emoticon a parlare… Vabbè, è riuscita male!
Mi è piaciuto assai.
cosa? il mio umorismo?
:-)
Ehm, Faccina-Che-Ride, veramente mi riferivo al racconto.
Per il resto, concorderei con quanto affermato qui sopra dal signor VB…:o)
quando sarà famoso io voglio binaghi da maurizio costanzo.
saprai resistere, valterone nostro?
Da Costanzo no, preferirei dal marito: Filippo Maria.
Un giornalista con le palle.
E che vai a fare, Valterone, il concorrente fuoriquota di Amici?
O il tronista etero a Uomini e donne?
Posso testimoniare: la De Filippi si fa la barba.
Altro che Vladimir.
altro che barbiere di Siviglia….
mo va la vè….
mochela!!!
se binaghi va da filippo maria, io lo fotografo e mando la polaroid a lele mora.
E io chiamo Woodcock!
chiama…chiama…
chiama?
allora provate a leggere l’ultimo del grande binaghi: I TRE GIORNI ALL’INFERNO, DI ENRICO BONETTI CRONISTA PADANO. è fantastico e commovente.
o meglio: enrico bonetti, cronico padano.