Occhi tristi in discoteca
di Mauro Baldrati
Alla fine il sabato sera naufraghiamo sempre nelle sale da ballo schifiltose della bassa ferrarese. Ma che fare in questo lunghissimo inverno a Mezzaluna, il paese più infelice e pidocchioso del mondo? Che fare nel Nulla Nebbioso, congelati sulle panchine del viale dei platani? Così quando arriva Il Ciuffo, il capo della banda dei Selvaggi, a raccattarci, lui che ha la patente e anche la macchina, io e il mio amico Rambò, presi per fame e per malinconia, saltiamo subito a bordo della Giulietta sprint col motore truccato. L’auto parte con un ringhio e, dopo una corsa folle nella nebbia delle valli di Comacchio, sbuchiamo sulla Statale Romea.
Entriamo nella sala di Codighoro nella formazione classica dei Selvaggi: Il Ciuffo come apripista, io e Rambò, che siamo gli ospiti d’onore, ai lati, leggermente arretrati, poi il drappello dei Selvaggi, che camminano nel loro stile lento, dinoccolato, disgustato, come se dormissero in piedi.
Il Ciuffo individua subito i tavolini dei capi comacchiesi e punta verso di loro fendendo la gente che balla sulla pista come se arrivasse in ritardo a un appuntamento.
Uno dei comacchiesi, il più anziano, un tipo alto con una giacca blu sbottonata sulla pancia prominente, si alza e gli tende la mano. Il Ciuffo gliela stringe e inizia subito a parlare come se dovesse riferirgli un messaggio importante. Il comacchiese ride, fa segno di sedersi con una manona carica di anelli e bracciali d’oro. Mi arrivano delle frasi in comacchiese, una lingua durissima che riesco a stento a capire: “Muo guardua chi è vuenutuo stuasuera qua dua nuoi” dice il capo dei comacchiesi salutandoci con cenni del capo. Noi rispondiamo con fare cerimonioso, poi i Selvaggi si accasciano su alcuni divanetti e immediatamente si addormentano, mentre Il Ciuffo si siede con dignità al tavolo dei capi.
Io e Rambò diamo un’occhiata in giro. Ci sono delle ragazze carine, come sempre del resto in queste discoteche della bassa ferrarese. E’ risaputo, qua le ragazze sono particolarmente carine. E poi sono tante, se ne stanno in gruppo ai bordi della pista a parlare tra loro o a guardare la gente che balla. Per questo i ragazzi di Mezzaluna vengono spesso da queste parti il sabato sera. Tra l’altro la nostra targa, RA, è particolarmente prestigiosa in questa brughiera dove tutte le auto sono targate FE o RO, che sono considerate inferiori. Le ragazze ci vedono come tipi distinti, più raffinati, vestiti con più cura dei loro uomini. Sicché i ragazzi della nostra provincia prima di entrare vanno su e giù davanti alla discoteca per farsi vedere con la targa RA dal maggior numero di ragazze possibile. Poi, una volta dentro, cercano di attaccare discorso e iniziano a snocciolare la sequenza di bugie che si sono preparati: tutti sono figli di primari di ospedale, di industriali, tutti sono laureandi o fanno dei lavori ultrainteressanti come disegnatori pubblicitari o venditori di auto di lusso o direttori artistici di locali.
C’è un problema però. I comacchiesi sono stufi di vedersi portare via le ragazze dai signorini targati RA. Se un ragazzo targato RA corteggia una ragazza deve fare molta attenzione a non pestare i piedi a un comacchiese. E quasi sicuramente glielo pesterà, perché i discendenti degli antichi pirati – così narra la leggenda sull’origine di Comacchio – faranno il possibile per inserire un piede sotto il suo. Il rischio è di ritrovarsi scaraventati fuori dal locale da un gruppo di colossi con mani grandi come mazze che gridano, nella loro temibile lingua: “Anduatuevi a cuasa vuostra cue vi fuacciuamo un culo cuosì”.
Raggiungiamo il bar e ordiniamo un Martini. Rambò ha già iniziato il suo gioco coi capelli, li sposta con le mani, rovescia indietro la testa, saetta facciate citrullesche in tutte le direzioni. Dice “vacca miseria che mucchio di fighe che c’è stasera”. Noi due siamo gli unici vestiti alla moda hip, capelli lunghi, camicie sgargianti, e sentiamo molti sguardi su di noi. Sguardi incuriositi di ragazze, e occhiate ostili di comacchiesi anche. Sappiamo di essere protetti però: se non ci hanno già individuato tra poco sapranno che siamo della banda dei Selvaggi. Il Ciuffo e i suoi amici godono di un grande rispetto tra i comacchiesi. Sono un gruppo compatto, tipi che non hanno paura di nessuno, che non si tirano indietro se c’è da menare le mani. Possiamo muoverci liberamente, possiamo chiedere alle ragazze di ballare senza temere provocazioni. Godiamo di un privilegio di extraterritorialità, siamo intoccabili.
Andiamo sotto il palco e osserviamo un po’ il complessino. Il solito quartetto di sfigati in giacchetta bianca e farfallino che suona “sia-amo i Watu-ussi, gli altissimi negri” e schifilteria varia. Facciamo il giro della pista da ballo e puntiamo le ragazze. Io però non cammino tanto sciolto, stasera sono uscito in fretta perché come al solito ho litigato coi miei, non ho cenato e il Martini mi lancia in gola spruzzi di nausea. Torniamo al tavolo dei capi e bivacchiamo in attesa che finiscano i ridicoli shake e inizino i lenti.
Il Ciuffo è tutto preso dalla discussione col capo dei comacchiesi. Sembra che Il Ciuffo venga in queste discoteche unicamente per parlamentare coi capi. Non balla, non guarda le ragazze, passa tutto il tempo in atteggiamento solenne a parlare coi baffuti giganti delle valli.
Rambò va a fare un giretto per conto suo, io mi siedo accanto a un comacchiese con la faccia feroce. Ho lo stomaco a pezzi, solo il calore del Martini mi impedisce di accasciarmi sulla sedia.
A questo punto la vedo. E’ una ragazza coi capelli corti e l’espressione seria, quasi triste. Siede con un’amica a un tavolo con altre persone, ma è chiaramente senza fidanzato. Mi colpisce come si stacca dalle altre, quasi che i suoi contorni fossero delimitati più nettamente, e la sua faccia illuminata da una luce più vivida. Non ride come le altre, galleggia in un oceano di pensieri misteriosi. I suoi occhi hanno una profondità e una dominante di malinconia che catturano immediatamente la mia attenzione. La guardo, la contemplo con una tale intensità che quasi riesco a sentire la consistenza del suo corpo. Incrocio i suoi occhi una sola volta, e per un attimo lei sostiene il mio sguardo. Ma subito lo distoglie, dice una cosa all’amica e torna da sola con se stessa. E’ proprio la sua tristezza che mi fa impazzire di desiderio. E’ la mia ragazza, io suono la Stratocaster di Jimi Hendrix sul palco di un concerto davanti a una platea entusiasta e lei è dietro le quinte ad aspettarmi. Formiamo una coppia fantastica, siamo avvolti da un’aura speciale e tutti ci ammirano, tutti vorrebbero essere nostri amici. Io non vivo che per lei, e lei per me.
Vorrei avvicinarmi, parlarle, ma come fare? E’ circondata da persone, è al centro di uno schieramento difensivo. Aspetterò i lenti e le chiederò di ballare, anche se questa prospettiva mi coglie impreparato. Cosa le dirò? Quando si ballano i lenti si dicono sempre le stesse cose, dove abiti, vieni spesso qui, come ti chiami, ma io non riesco mai a dirle bene. E poi sono totalmente incapace di raccontare le solite bugie. Vorrei avvicinarla senza avere l’obbligo di formulare le parole vuote di sempre. Vorrei parlarle solo attraverso gli sguardi, vorrei che fosse già mia. Eppure non c’è altra possibilità al di fuori di un invito a ballare. Lo farò non appena finiranno questi stupidi shake.
Arriva il riposino e si accendono le luci. Rambò transita accanto alla mia postazione, cammina molleggiato coi pollici infilati sotto il cinturone alto quattro dita. Io faccio roteare lo sguardo sulla pista vuota, ma dopo un attimo torno su di lei. Ne sono ipnotizzato, non posso guardare altro che lei. Le parlerò, le dirò quanto vorrei andarmene via con lei, quanto vorrei bere il nettare della sua tristezza. Ma d’un tratto sento una presenza accanto a me e distolgo bruscamente lo sguardo. C’è una ragazza accovacciata alla mia destra che mi sta parlando. Punta un paio di occhi vivaci, curiosi, su di me. Dice “da dove venite, tu e tuoi amici?”. Per un attimo provo un senso di sbandamento, ma sento subito il piacere che si diffonde rapidamente in tutte le ramificazioni del mio essere. Questa ragazza mi ha notato, vuole conoscermi, e lo fa davanti a tutti, senza esitazioni; soprattutto lo fa davanti a lei.
Mi sposto per farle spazio. Lei si siede e i nostri fianchi e le nostre gambe entrano in contatto. Dice che non mi ha mai visto qua, dice che lei invece viene quasi ogni sabato. Mi chiede dove vado di solito, dice che conosce alcune sale da ballo della zona e mi chiede se anch’io le conosco. Parla in fretta, sembra avere una grande quantità di cose da dire, muove le mani, mi guarda le labbra mentre parla. Le dico che non vado tanto spesso in sala da ballo, che io e i miei amici seguiamo alcuni gruppi – Jimi Hendrix, i Jefferson Airplane, i Greateful Dead – che trasmettono certi messaggi. Dico “messaggi di liberazione, sentimenti di lotta”. Anch’io mi animo, muovo le mani, accorcio la distanza che separa le nostre bocche. Lei sorride, fa sì-sì con la testa, ma sento anche perplessità in lei; lo vedo nei suoi occhi che a tratti si perdono, cercano appigli. Le sto dicendo cose che non è abituata a sentirsi dire, sta cercando di decidere se può venirmi dietro oppure no. Sta anche cercando di stabilire se io sono disposto ad andarle dietro, perché ci sono delle dissonanze, delle stonature. Parlo con lei ma il mio non è altro che parlare, uno schermo solo in parte ricettivo e poco comunicativo. Mi distraggo, sento un richiamo irresistibile che proviene dalla mia sinistra, ogni tanto devo girarmi per lanciare occhiate alla ragazza dai capelli corti.
Arriva Rambò. Tra i suoi ciuffi di capelli intuisco un’occhiata di intesa. Torna a scorrere l’orgoglio, Rambò e Il Ciuffo e i Selvaggi vedono che mi sto dando da fare con le ragazze, che tengo alto il prestigio della targa RA. Mi rianimo, accelero la cadenza delle parole, dico “sì, eh, be’ sai” con contrappunti di sorrisi, gesti, le chiedo un sacco di informazioni che non scalfiscono lo smalto di disinteresse che ho alzato tra me e lei. Eppure sono eccitato, quello che conta è solo l’apparenza, attingo dal pozzo di parole che tengo in serbo dentro di me.
Il complesso attacca coi lenti ed io lancio un’occhiata ansiosa alla ragazza coi capelli corti. Voglio chiederle di ballare, ma come faccio, questa ragazza mi sta parlando. Eppure non posso lasciarmi sfuggire questa occasione.
Ma non ho tempo di riflettere oltre. La ragazza mi prende per mano e dice: “Andiamo a ballare dai”. Mi lascio catturare, la seguo sfilando in passerella davanti a tutti, mi inebrio del gusto dolce dell’attenzione che ci avvolge. Anche la ragazza ne sta godendo, ci unisce questo esibizionismo che per un attimo spazza via tutte le dissonanze.
Per due balli parliamo e parliamo. Nel terzo e nel quarto siamo abbracciati, ma per quanto cerchi di sfiorarle le labbra con le mie non riesco a desiderare la sua lingua. La mia mano le accarezza la schiena ma è guidata dalla mente, non aderisce al suo corpo per prendere e per dare piacere.
Il quinto ballo mi vede tormentato dalla voglia di guardare la ragazza coi capelli corti. Oriento il nostro asse in modo da poterla guardare senza girare la testa, vedo che sta parlando con un ragazzo; gli sta parlando con naturalezza! Ride di gusto, lo guarda dritto negli occhi, le loro facce sono vicine. Poi il ragazzo se ne va, ed è una fortuna perché un vuoto allo stomaco mi toglie le forze. Adesso è tornata sola, ma quel sorriso vero, quell’espressione serena hanno aperto in me una ferita. Come può stare così bene se io sono qua avvinghiato con un’altra? Per fortuna il ballo finisce, e il complesso chiama un altro riposino.
Torniamo alla nostra postazione mano nella mano, ma cammino come se le gambe fossero di legno. Il posto sul divano è occupato, stiamo un po’ in piedi poi ci sediamo su due sedie vicine. Parlo con la ragazza, dico sempre “eh? Ah sì?”, ma non riesco più a controllare gli occhi che roteano dal viso della mia amica a quello della ragazza coi capelli corti. E distante adesso, ci separano strati di persone sedute.
Il riposino è di breve durata e attaccano un’altra serie di lenti. Le luci si abbassano, la gente si muove, la pista torna a riempirsi. Non vedo quasi più la ragazza coi capelli corti, mi assale la paura di averla perduta per sempre. Devo assolutamente rientrare in contatto con lei o tra poco sarà tutto finito.
La ragazza accanto a me mi guarda, dice “vuoi che andiamo a ballare ancora?” Alzo una barriera tra noi, dico “scusa un attimo” con voce piatta; mi alzo, cammino con passi incerti fino al tavolo della ragazza coi capelli corti, mi abbasso e chiedo: “Balli?”.
Lei volge su di me la sua faccia che prima ho visto triste, misteriosa, mi mostra i suoi occhi limpidi e mi guarda come se mi vedesse per la prima volta. Frugo tra le sue ciglia, tra le pieghe delle labbra, alzo al massimo la potenza del magnete che cerca di attirare l’essenza dei suoi pensieri. Ma non riesco ad ottenere nulla, tutti i miei sensi al massimo stato di allerta scivolano su di lei come su una lastra di vetro. Sorride lievemente, dice “no”, e rafforza la negazione con un cenno del capo. Non è un no sofferto, è sereno. Rimango immobile trapassato da quel rifiuto. Dico “perché?” con voce incerta, forse i miei occhi bruciano di malessere; lei fa una pausa, un sorriso cauto, dice “non ne ho voglia”. Mi arriva questa nuova frase tagliente che mi fa schizzare via con un “vabbè” che lei probabilmente non sente neppure. Mi dirigo barcollando verso la ragazza di prima, intercetto qualche sguardo di persone che hanno avvertito una vibrazione strana. Raggiungo la ragazza, la ritrovo con una faccia dura, un’espressione allibita. Mi siedo accanto a lei e sfioro il suo corpo con la superficie legnosa del mio.
Restiamo in silenzio, lei si guarda intorno come se cercasse qualcuno. Credo che tra poco se ne andrà. Forse si è offesa, non riesce a decifrare la stranezza del mio comportamento. Io sono sfinito. Mi ha annientato la sua espressione tranquilla, la cortesia del suo rifiuto.
All’improvviso la situazione intorno a noi subisce un mutamento. C’è un riposino, ma le persone stanno guardando tutte verso la pista. Molti ridono, si danno di gomito. Anch’io guardo verso la pista e vedo Rambò seduto a gambe incrociate al centro esatto della pedana di legno. Si guarda intorno con grandi ondeggiamenti di capelli, facce da citrullo, mezzi sorrisi. Alcune ragazze lo indicano e gridano “uuuhhh!”, drappelli di comacchiesi fanno no-no con la testa. Anche la ragazza accanto a me ride e squittisce “ohhhh, ma guarda!”. Anch’io rido, saluto con la mano quel matto del mio amico. Poi lancio uno sguardo verso la ragazza coi capelli corti, vedo che si è alzata in piedi e ride e indica Rambò alla sua amica. Batte le mani, pesta i piedi, ride con la bocca spalancata.
Rambò si alza quando il complesso inizia la serie degli shake, ma non prima di avere creato un cerchio intorno a sé con la gente che gli balla intorno ridendo. Va al tavolo dei capi lanciando occhiate di trionfo, risponde a una battuta del Ciuffo, a una risata del capo dei comacchiesi. E la ragazza coi capelli corti, senza un attimo di esitazione, gli si avvicina e si mette a parlare e a ridere con lui fittamente. La vedo in piedi adesso, indossa un paio di pantaloni aderenti, le sue gambe sono lunghe e sode, il suo corpo è morbido e agile. Con occhi increduli la vedo protesa verso Rambò mentre cerca il suo sguardo, gli sfiora le mani con le sue. La sua faccia non è più triste, non vi è nessuna espressione malinconica, nessun mistero l’avvolge. E’ solo interessata a Rambò, lo vuole perché ha dato spettacolo, perché si è incoronato protagonista assoluto della serata.
Mi accorgo che sono solo, la mia ragazza se n’è andata. Riporto lo sguardo su Rambò e la ragazza coi capelli corti: su quella faccia che mi sembrava triste appaiono espressioni allegre che non avrei mai creduto di vedere. La sua immagine di semidea malinconica si sbriciola in mille schegge.
Poi Rambò si muove, va verso uno degli amici del Ciuffo e gli parla in un orecchio. Il ragazzo si fruga in tasca e gli porge un mazzo di chiavi. Rambò torna dalla ragazza coi capelli corti con le chiavi in mano, le cinge la vita con un braccio e si avviano insieme verso l’uscita.
Stanno uscendo dal locale, vanno nella macchina che Rambò ha avuto in prestito.
Sono in qualche punto della sala, cammino alla cieca tra la gente, urto sedie e tavolini, vado a sbattere contro una colonna.
Mi hanno appena piantato la lama di un kris nella pancia, sto tamponando la ferita con una mano. Sto perdendo sangue, forse morirò dissanguato in questo campo di battaglia. Mi alzo e cammino piegato verso la pista, sempre con la mano premuta sulla ferita.
Passo accanto alla ragazza di prima, mi accorgo che ha delle belle mani. Mi scocca un’occhiata fredda, ondeggio, noto che ha una bella bocca morbida, un naso grazioso. Era simpatica, e carina anche. Ma ormai è tardi, è irraggiungibile adesso, l’ho abbandonata per strada e non posso più tornare indietro a riprenderla.
Mi appoggio a una colonna e cerco di riprendere fiato. I barbari mi hanno accoltellato a tradimento, non ho potuto difendermi. Ho perduto i miei compagni, sono rimasto solo in questo deserto disseminato di cadaveri. Qua e là ci sono carri che bruciano, nuvole di fumo acre si alzano verso il cielo. I corvi volano bassi e lanciano grida rauche, qualche ferito si lamenta, chiede aiuto.
Poi mi viene in mente una lettera che Henry Miller scrisse alla sua cara amica Anais Nin: “Io sono un fessacchiotto. Solo loro, le ragazze di strada possono avere rapporti con me” e mi viene da ridere. Rido, appoggiato alla colonna con la mano premuta sulla ferita, per fermare l’emorragia.
Ma sì. Devo resistere, devo trovare una via d’uscita, il mio mondo, o morirò da guerriero.
(Questo racconto deriva da un capitolo del romanzo breve Nel paese più infelice del mondo, pubblicato dall’editore Allori nel 2003. E’ ambientato nell’inverno del 1970 in un paese della provincia romagnola. Foto di Man Ray.)
Si.
Racconto piacevolissimo.
E capita sovente di attribuire “altro” al semplice disinteresse, per noi.
Grazie Mario. Non ci avevo pensato mai: alla parola “disinteresse” voglio dire. Io che ho scritto la cosa qua sopra non ci avevo pensato. Come accettare il disinteresse altrui?
Prima di tutto bisognerebbe prendere Limbo rock di Chubby Checker e metterlo sul giradischi. L’ideale sarebbe un juke-box, ma anche un banalissimo CD potrebbe servire magnificamente allo scopo. Questa idea mi è venuta leggendo lo scritto di Mauro Baldrati. Si tratta di un frammento di romanzo e a me ha fatto venire in mente Happy Days, American Graffiti e Radio Freccia. Niente di nostalgico, per fortuna, ma soltanto un qualche cosa di classico come i jeans e la semplice arte della sospensione del tempo. Limbo rock, appunto. Do you like questa adolescenza dilatata fino alla vecchiaia? Così avevamo iniziato e così proseguiamo adesso la nostra passeggiata verso nessunluogo, unica meta deputata del rock’n’roll. L’affabulatore Mauro Baldrati ci racconta una storia che è una canzone ed è anche un cortometraggio, una specie di superotto immaginario. Se ci fai caso, questo scritto è un qualche cosa che si può ballare e che, volendo, si può anche consumare con lo sguardo. E’ una favola, una storia che tutti conoscono, tutti hanno vissuto, tutti amano sentire e risentire e, come dicono i Rolling Stones, “è soltanto rock’n’roll ma mi piace”. Simile all’addetto ai dischi dei festini di tutte le giovinezze, l’affabulatore si sente sempre lo sfigato della compagnia ed è sinceramente convinto che la storia che ha liberato noi lettori presto lo farà morire di solitudine o di crepacuore. Non è vero, ma loro mica lo sanno. Gli affabulatori, per esorcizzare “il disinteresse altrui”, fanno sempre così. Non svegliateli, vi prego, non svegliateli! Loro pensano che “le ragazze coi capelli corti” siano delle muse rock, anche se la loro voce è quella di Marlene Dietrich e a volte anche quella di Billie Holiday.
“E’ una favola, una storia che tutti conoscono, tutti hanno vissuto, tutti amano sentire e risentire”. Tondellissimo di ritorno.
Magari si dice tondellismo.
Ah, c’è D’Orrico che cerca un cervellone per le sue stroncature in 20 righe, fatti avanti.
Dicevo tondellismo a diciott’anni. Oggi mi permetto qualche gioco di parole in più. Fk permettendo.
Si bravo, vai a parlare di corda a casa dell’impiccato, vai…
Ma: ammettiamo che qualcuno dica: è tondelliano. Mica mi offendo. Però di Tondelli qui credo ci sia poco o nulla: lui imitava spesso Kerouac, ne aveva fatto il suo eroe, in certi libri scrive esattamente come lui. Qui è alquanto difficile trovare qualche matrice kerouachiana. E’ una delle poche cose per cui scommetterei.
“Lui imitava spesso Kerouac, ne aveva fatto il suo eroe”. Una lettura attentissima di Tondelli e del suo universo culturale. Giusto per insaponare la corda: più che tondellissimo, ligabuesco, freccesco.
Vekkio O.C., lo scrivente non ha mai letto i libri di Ligabue né visto Radio Freccia; inoltre lo scrivente ha ascoltato pezzi di pezzi di Ligabue alla radio, ma come rumore di sottofondo, essendo totalmente non interessato – diciamo indifferente – alla musica del suddetto. Secondo lei, essere comunque “ligabuesco” senza sapere nulla del ligabuismo è da ascriversi a un processo di deterritorializzazione, o, al contrario, si può parlare di diffusa ri-territorializzazione?
Caro Baldrati,
“un processo di deterritorializzazione, o, al contrario, si può parlare di diffusa ri-territorializzazione?”. Parli troppo difficile.
Cordialità
Vekkio O.C. lei mi delude assai. Si sforzi, per una volta. Immagini, supponga, osi, invece di accontentarsi di sarcasmo da bar sport.
Cordialità a lei.