Il letto di Procuste e la Cura Ludovico #3
di Giorgio Vasta
Seconda intervista sull’editing e il sistema editoriale. Le sei domande sono sempre le stesse dell’altra volta. Le risposte sono di Giulio Mozzi, curatore della collana Indicativo Presente per l’editore Sironi e del progetto editoriale vibrisselibri.
Proviamo a partire da una definizione secca: che cosa si intende per editing?
Non so che cosa “si intenda”. So che cosa intendo io. (Di definizioni ne ho sentite tante, e nessuna mi soddisfa). Intendo: un lavoro che inizia nel momento del primo contatto tra l’autore e l’editore, e termina quando si manda in stampa. In questo lavoro l’autore e l’editore possono avere lo stesso scopo, o scopi diversi. Il caso in cui gli scopi sono diversi non mi interessa (e non dovrebbe neanche esistere, secondo me: ma esiste, e se esiste è perché l’autore o l’editore o entrambi sbagliano).
Ovviamente la situazione ideale è quella in cui l’opera proposta all’editore è tale, che l’editore può solo fare un inchino di rispetto.
Come si imposta il lavoro con gli autori?
Precisazione: il mio lavoro è un lavoro di ricerca, quasi tutto quindi su prime o seconde opere. Quando avviene il primo contatto, spesso per l’autore di tratta di una improvvisa uscita dalla solitudine. L’editore è spesso il primo lettore dell’opera, o il primo al di fuori della cerchia degli affetti: quindi è (dal punto di vista del lettore) il primo lettore *vero*. Il cosiddetto lavoro di editing (che viene svolto da più persone, i cui ruoli non sono perfettamente distinguibili) consiste in un doppio gioco: l’editore deve condividere lo scopo dell’autore e, nel contempo, deve essere un lettore del tutto estraneo e non condizionato da affetti, idee sulla letteratura, vicinanze caratteriali o di visione del mondo eccetera.
Quando l’autore esce dalla solitudine e incontra presso l’editore il suo primo lettore vero, succedono delle cose. Spesso succede che solo allora l’autore cominci a fare esperienza del fatto che l’opera alla quale sta attendendo non è “un testo”, ma è “una sollecitazione di eventi nella mente del lettore”.
Come si comportano gli autori rispetto all’editing? C’è disponibilità? Resistenza?
Si resiste alle invasioni: e io invasioni non ne faccio. L’opera è dell’autore. L’editore è un soggetto che propone un patto: “Sono disponibile a pubblicare questa cosa qui a queste certe condizioni (trattabili)”. Se all’autore il patto sta bene, lo accetta. Se non gli sta bene, non lo accetta. Se non gli sta bene e lo accetta lo stesso, sconterà prima o poi l’errore.
Una volta accettato il patto, tutto è chiaro. L’autore può chiedere all’editore delle “consulenze” (è tipico che, nei casi di opere nelle quali è importante l’intreccio, si discuta a lungo sull’intreccio, sulla sua limpidezza, sugli eventuali “buchi” eccetera). Può chiedere opinioni su questo e su quello. L’editore esaminerà l’opera e farà delle osservazioni coerenti con il patto che ha proposto all’autore. Se ci sono conflitti, si discute. L’ultima parola è dell’autore. L’ultimissima è dell’editore, che può decidere di non pubblicare l’opera).
Spesso c’è troppa disponibilità da parte dell’autore: se l’autore è giovane e alle prime esperienze. Se il patto è chiaro e sincero, l’editore non se ne approfitterà: farà quello che può, invece, per far capire all’autore che non deve essere troppo disponibile.
Il luogo comune, con particolare solerzia ribadito negli ultimi tempi, vuole l’editing come una forma di manipolazione capziosa del testo – ad opera di uno sgherro della casa editrice, appunto l’editor – finalizzata all’adeguamento del testo stesso alle condizioni delle mode e del mercato. Cosa produce, secondo te, un’idea di questo genere? Perché, cioè, in Italia l’editing subisce questo destino di demonizzazione?
Perché la teoria del complotto piace sempre.
Immagino che ci siano casi di “manipolazione capziosa del testo”. Conosco nei particolari alcuni casi di “manipolazione capziosa del testo” operata di comune accordo da editore e autore. Non credo che gli editori conoscano così bene “le condizioni delle mode e del mercato” da operare “manipolazioni capziose del testo” in modo scientifico (ci sono indagini di mercato nel campo della narrativa?). Certamente il trattamento di un testo destinato a fare cassetta e stop, è tutt’altra cosa da ciò che ho tentato di descrivere rispondendo alle domande 1, 2 e 3: bisogna vedere come è fatto il patto tra l’autore e l’editore. Se l’editore vuole fare cassetta, e l’editore pure, andranno d’amore e d’accordo.
Un’altra idea – per molti una convinzione indiscutibile – è quella che pensa al sistema editoriale come a un qualcosa di omogeneamente cinico e opportunista, un luogo nel quale – attraverso la già descritta mortificazione dell’autorialità – si procede compattamente alla fabbricazione di prodotti commerciali. Sembra quasi che la condizione d’accesso al lavoro editoriale sia il pelo sullo stomaco, una cinica ignoranza, un appetito da squali e un disincanto assoluto che si traduce in strategia commerciale. E’ tutto davvero così semplice o ha senso pensare invece a uno scenario più contrastato e contraddittorio?
Si sa: è tutto un magna-magna.
Il fatto è che nessuno sa come funziona il sistema editoriale. Non abbiamo una descrizione attendibile di questo sistema. Non ci sono studi sulle carriere dei funzionari editoriali, sulle carriere degli scrittori, sulle modalità di decisione, sul funzionamento delle consorterie culturali, e così via. L’unico sapere di un qualche valore è accumulato, credo, presso gli Editori Industriali: è però, mi pare, un sapere aziendale, non incorporato nelle persone.
Qual è, nel rapporto tra editor e autore così come in quello tra i diversi comparti di una casa editrice, il valore della negoziazione?
Parlo di editoria letteraria (nella saggistica le cose sono diverse). E parlo come uno che si è trovato, per mestiere, a stare in mezzo tra l’azienda editoriale e l’autore. E dico: la negoziazione deve essere tutta all’inizio, i patti chiari devono essere fatti all’inizio. L’editore deve essere capace di dire all’autore perché vuole il suo libro (e spesso non ne è capace). L’autore deve essere capace di dire all’editore che cosa vuole che si faccia del suo libro (e spesso non ne è capace). Negoziazioni in corso d’opera, a contratto firmato, non devono essercene più. Discussioni quante se ne vuole, ma negoziazioni no. (Chiamo “discussione” una conversazione al termine della quale l’autore decide in autonomia; “negoziazione” una conversazione al termine della quale si prende una decisione di comune accordo).
(l’immagine sotto il titolo è di Emilio Isgrò)
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“Il caso in cui gli scopi sono diversi non mi interessa (e non dovrebbe neanche esistere, secondo me: ma esiste, e se esiste è perché l’autore o l’editore o entrambi sbagliano)”.
Sbagliano rispetto a che? cosa sbagliano? Cosa deve fare un libro?
E’ sempre possibile costruirsi delle belle e persuasive convinzioni.
Però è possibile invece che entrambi, autore ed editore abbiano ragione, avendo idea diversa. Quindi il non dovrebbe esistere di Mozzi è privo di senso e pregiudiziale rispetto a un buon editing.
“Ovviamente la situazione ideale è quella in cui l’opera proposta all’editore è tale, che l’editore può solo fare un inchino di rispetto”
Con quale metro, perché uno scritto dovrebbe essere una “opera” e un altro invece no?
Chi bocciò “Il Gattopardo” allora, che razza di editor fu? Capolavoro rifiutato da Mondadori e da Einaudi… per non dire poi di “Se questo è un uomo”, rifiutato sempre da parte di Einaudi, per essere pubblicato in tiratura limitatissima da De Silva, e poi solo nel 1958 Einaudi si decise a stamparlo… Di esempi così ce ne sono troppi, quindi mi limito a questi due che mettono bene in evidenza la totale cecità di certi editor, sédicenti scrittori-critici, editori.
Mi pare che è tutta una trattativa fra editor e scrittore l’editing secondo Mozzi. In pratica: se si arriva a un compromesso fra le parti allora si va in stampa. Non mi piace affatto.
La necessità è quella di fare soldi. L’editore e l’editor sperano solo in questo. Naturalmente, altre psicologie intervengono. La frustrazione dell’editor, la mancanza di idee dell’editore, se non quelle della rappresentazione dell’alienazione. Arrivare fino in fondo, ossia non essere mediocri (invece di denunziare la mediocrita degli altri) è la solita totalizzante ignoranza di oggi. L’incapacità di saper “leggere”. Altra stupidaggine è la linea editoriale. Essa è tanto piccina, quanto invece sembrerebbe grande il mercato. La linea editoriale è il mercato chiamato con altro nome. Poveri uomini questi editor chiamati a dire(obbligati a dirselo): Io me lo posso permettere, perchè…
a me cascano veramente le braccia. uno – giorgio vasta per esempio – prova ad articolare un’inchiesta a più voci, in modo tale da mostrarsi come nascono e crescono luoghi comuni nell’ambito di un lavoro che più molteplice non si può. le reazioni sono deprimenti. autoverificanti i propri luoghi comuni.
Christian,
Come hai ragione! Che ti devo dire? Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.
A me pare che ci sia tanta presunzione e poca o nessuna voglia d’un vero dialogo. Se non si è pubblico plaudente, allora niente. Si è intervenuti con cognizione, portando delle domande critiche, e ci si sente rispondere “me cascano le braccia… e hai veramente ragione…” Buon pro vi faccia. Cordialmente.
Che ci siano luoghi comuni è vero. Che ci siano pregiudizi e lapsus freudiani è altrettanto vero. Ma non si può criticare un luogo comune dicendo che è un luogo comune! se no sembra che l’editor voglia fare pubblicità solo a se stesso. Una cattività pubblicità in questo caso, perché ci sarebbe invece anche una buona pubblicità.
Il mio primo intervento aveva questo senso:
quello che dice Mozzi è quanto di più preconfezionato il buon senso possa immaginare del rapporto tra autore ed editore. Cioè, è tutto ragionevole, perfetto, Mozzi non poteva che esprimere meglio il paradigma che funziona del rapporto tra autore ed editore.
Il punto è che è un paradigma a mio parere ideale. Questa valutazione la traggo dal contenuto della mia prima osservazione postata, che mostra un lapsus freudiano, cioè una posizione di partenza che vanifica tutto quanto poi di esatto dice Mozzi.
E’ come dire che quando marito e moglie conversano tra loro, non basta dirsi come deve essere un rapporto perfetto tra marito e moglie per far funzionare un matrimonio, perchè nella realtà, quella vera, di tutti i giorni, emergono pregiudizi sommersi e taciuti, credenze taciute.
Naturalmente io non giro come una fantasma invisibile dentro le redazioni delle case editrici e non sono in grado di spiare segretamente il rapporto tra editore e autore, ma una cosa mi rimane dalla lettura dei libri che compio. Un livello, almeno per quanto riguarda l’Italia, molto basso nella cura dei libri. Gli strafalcioni, gli errori sono a tempesta! Cioè il livello di editing è spesso scadente, sebbene ci sono anche dei buoni editor. Ma sono qui in Italia rari. L’italiano come lingua in evoluzione è distrutta, passano dei modelli che sono una diminuizione del pensiero, un’annacquamento espressivo e descrittivo. Questa cosa venne anche sottolineata da Umberto Eco in una bustina di Minerva molto tempo fa.
Se uno acquista un libro, per esempio, dell’Einaudi, si vede bene come sia ridotta male, come il livello della cura editoriale sia molto diminuito rispetto a 30 anni fa.
In sostanza, come lettore, per me, il livello di editing in Italia è scadente.
E sappiamo bene anche perché (ed emerge persino intelligentemente da quanto dice Mozzi! è lui stesso che ne dice le cause)
Luogo comune è il celebrare con il mestolone (nella marmitta fatta memoria). Poca “casualità” è nata. Il Caso, un ripetere “miracolo”, oggi reso invisibile. Eppure, sembrava che l’inteligenza bastasse da sola. No, l’Uomo, è altro. Un editor sa cosa è un uomo; è il miracolo della messa in vendita che è interessante. E il fare a pezzi tutto, la Messa che viene ripetuta; sono gli estremi, la passione degli “scribi”, il guardar lontano, che è il verbo della devastazione. Fare commercio è lecito. Ma produrre commercio è altro. Pianificare, è terribile parola se abinata all’uomo. Si dimentica che qui è in gioco il gioco, non la menzogna che è nel lemma: Apocalisse, fine, romanzo, retorica, tradizione. I professori sono disabilitati a trattare con simili trastulli. Essi sono parte integrante di un sistema “castello”, ecc, ecc. Fino a quando i Dotti inseguiranno il serpente (sapendo che il serpente va inseguito per la testa fino a che questo non diventi ruota) come gioco e divertimento, (ripeto)solo intrattenimento, o ragguaglio sull’oscenità dell’uomo (lecito se questo è fino infondo osceno, e non occasione di sovrapiù dispensa a maggior vendita). Sò che si parla di Nazione, non di idea. Si parla di idea di nazione, non uomo e la sua idea ma verso la costruzione (razionale s’intende) di un Uomo. Ripescato, ricercato, affrancato e liberato dalle emozioni, (per dar piacere alla logica) e adornato di tutti quegli indispensabili gaget, che sono cultura a profilo. Intanto il cantiere è aperto, che tutti gli spazzi siano coperti c’è il rischio di qualche imperdonabile “miracolo”.
Buon giorno, sono un autore. Ho stampato il mio racconto/romanzo su fogli di carta formato A4 ecologica al 100%. Vorrei che il mio racconto/romanzo circolasse un po’ e vorrei che il mio racconto/romanzo si confrontasse senza pretese con tutti gli altri racconti/romanzi dall’invenzione della stampa e perfino da prima. Libero di circolare come un racconto/romanzo autonomo, cioè con pieno diritto di cittadinanza. Io sono un autore con le idee chiare.
Raimo, premesso che lo scenario dipinto da Vasta è a sua volta un complotto: il complotto dei complottisti, mentre sarebbe stato molto molto più efficace semplicemente mostrare il lavoro di un editor che fa davvero il suo lavoro,
premesso questo dicevo, per sfatare i luoghi comuni, e per capire davvero le cose, l’intervista a qualcuno, con domande generiche non serve granché. Bisognerebbe, dato che non si dispone della descrizione del campo letterario che auspica Mozzi (che è quasi impensabile), ragionare su casi concreti, osservarli, capire (a questo punto la descrizione diventerebbe pensabile).
Il problema è che i casi concreti NON vengono fuori MAI. Anche in questo caso si accenna a libri manipolati, ma nessuno si azzarda ad approfondire.
Quando un giudice deve capire se le regole sono violate non intervista una persona su argomenti generici, ma va verso i fatti.
Verso i fatti qui non ci andrà mai nessuno!
April 26th, 2007 at 10:41
a me cascano veramente le braccia. uno – giorgio vasta per esempio – prova ad articolare un’inchiesta a più voci, in modo tale da mostrarsi come nascono e crescono luoghi comuni nell’ambito di un lavoro che più molteplice non si può. le reazioni sono deprimenti. autoverificanti i propri luoghi comuni.
L’ultimo blocco è un copia incolla del post di Raimo che non ho cancellato prima di postare.
mozzi è icastico ma ha ragione.
il rapporto autore editore lo definisci sulla base di una situazione ideale nella quale ambedue i soggetti abbiano le idee perfettamente chiare e siano in grado sin dall’inizio di comunicarsele integralmente.
la pubblicazione d’esordio, quella che mozzi chiama l’uscita dalla solitudine a seguito di una prima VERA lettura di quello che si è scritto, può costituire una sorta di shock per l’autore, che scopre all’improvviso la capacità di comunicazione di ciò che ha scritto, ma non sa nulla del suo “valore”: su questo mozzi scrive cose interessanti che andrebbero considerate con attenzione.
resta da capire per me cosa egli intenda davvero dire con la seguente proposizione:
“Spesso succede che solo allora l’autore cominci a fare esperienza del fatto che l’opera alla quale sta attendendo non è “un testo”, ma è “una sollecitazione di eventi nella mente del lettore”.”
cioè, quale ricaduta sul testo implicherebbe questa esperienza?
di quale natura?
L’intenzione di Vasta e l’intervista sono assolutamente lodevoli, per fare chiarezza su una questione di cui si vocifera anche troppo senza mai avere vera conoscenza ma a chi preferisce tenersi il proprio complottismo pregiudiziale tutto questo non serve. Ripeto come ho già ripetuto, avendo pubblicato quattro romanzi con tre editori diversi e avendo fatto da selezione e revisione di testi per Mursia, che un editor lavora per il bene del libro, e non solo dell’editore. Un libro non pubblicato e non pubblicabile è un non-ente.
Quindi il bene del libro per Binaghi sarebbe che diventa un ente?
Quindi tutto ciò che non è commercio è non-ente!
Il bene è cio che è vendibile, publicabile, commercializzabile, monetizzabile eccetera eccetera
siamo proprio messi male se la pensiamo così. Va beh, neanche ci credo che veramente la pensi così Binaghi, mi è sembre sembrato tra i più equilibrati. se mi dice che non si può definire come scrittore uno che scrive ma non pubblica libri, gli do ragione, perché sappiamo che cos’è una genere. secondo me ha dormito poco!
D’altra parte perchè sono così stupido da rimanere allibito a sentire questo pensiero. Adorno già aveva profetizzato l’annacquamento del pensiero! Non di binaghi, non mi riferisco a lui, ma all’editoria italiana. I libri italiani sono strapieni di errori. ma non era così. La Mondadori non è più la Mondadori, L’einaudi non è più l’einaudi
“Il problema è che i casi concreti NON vengono fuori MAI. Anche in questo caso si accenna a libri manipolati, ma nessuno si azzarda ad approfondire.”
Credo che questa richiesta di Andrea sia più che lecita. Se io avessi un solo esempio concreto lo farei più che volentieri. Ma non ce l’ho. Tutto è sicuramento dovuto dal fatto che a me con i miei romanzi non è mai accaduto e l’unica esperienza che ho (non lavorando “dentro la macchina editoriale”) è la mia. Ma se esistesse un caso concreto da discutere sarebbe di certo utile. Non tanto per mettere alla gogna qualcuno, ma per capire di cosa stiamo parlando quando parliamo di manipolazione.
I sentito dire non servono a molto. Sanno di “Leggenda urbana” e nulla più.
Lumina,
Il licenziamento di libri per la stampa colmi di refusi è cosa vera, ma è un’altra cosa, mi pare, rispetto al discorso che credo si voglia fare qui. Ma forse sbaglio.
E’ come parlare del parto.
Sfido qualsiasi uomo (=autore non pubblicato) a farsi un’idea del parto.
Sfido qualsiasi donna che si confronti con un’altra che ha partorito a farne lo stesso identico racconto.
Meno male che il complottismo non è ancora arrrivato in sala-parto, vedo già il seguito:
quell’ostetrico è un assassino … quell’ostetrico è un angelo
fa male e dura molto … non fa male e dura poco …
la sala parto è piena di donne accatastate in barella … la sala parto è un luogo di pace dove vede la luce un essere umano
gli ospedali cercano solo di far soldi … gli ospedali sono pieni di gente competente che ama il suo lavoro
voi non volete racccontarci che cos’è il parto … chissà cosa ci sarà dietro il parto
E’ di una noia, questa discussione, ma di una noia (scusa, vasta, non per colpa tua).
bella metafora, Alcor. Rende.
Io penso che parlare di editing sulla reta è naturale che si presti a una valanga di critiche (infondate) da parte di soggetti frustrati e insoddisfatti perché hanno il libro nel cassetto non pubblicato. Ti dico solo una cosa Gianni. Nei paesi anglosassoni l’editing si studia, cioè si va a scuola, da tantissimo tempo. Qui, in Italia, siamo appena agli inizi, siamo allo stadio dell’infanzia. Un’indagine sullo stato dell’arte editoriale in italia, mostrerebbe che nel panorama globale italiano ci sono moltissimi improvvisatori. E alcuni, pochi, bravissimi. Naturalmente dato che né io né nessun altro può avere una panoramica totale della situazione italiana, il mio parere non può che essere parziale, limitato alle mie impressioni ed esperienze (per 8 anni con Danilo Dolci, di cui nessuno parla più e la sua immensa bibliografia e biblioteca e i suoi rapporti con molto editori. Tutto in mano agli americani, oggi)
Questo era quanto più o meno diceva Umberto Eco, che auspicava corsi di laurea professionalmentte adeguati. Li hanno creati? Fatemi sapere quanti ce ne sono in Italia e quanti di quelli che lavorano nelle case editrici hanno seguito un programma curriculare e che esperienza professionale (apprendistato) abbiano.
P.S. non è forse vero le proprietà lessicali degli scrittori italiani sono molto diminuite? Hanno fatto diversi linguisti analisi attraverso sofisticati programmi informatici per verificare la ricchezza lessicale. Gli esiti sono stati negativi. Se riesco a recuperare qualche dato più preciso e le fonti le comunico.
Per il resto non ho nulla contro l’editing, sebbene abbia postato prima un pensiero di Zolla nella parte secondo del servizio di Vasta che non è banale ma neanche si deve prestare a un’interpretazione negativa dell’editing. Si trattava di un giudizio di valore.
Molti anni fa, all’interno della galleria romana l’Attico, ho assistito ad una strana scena.
L’artista Claudio Cintoli, esponente dell’avanguardia italiana (concettuale?) scomparso da tempo, esponeva una serie di opere – o forse si trattava di una sola opera fatta di episodi diversi – costituite da alcuni grumi di stracci appesi al muro e coperti di colore fresco, ai piedi dei quali stavano uno o più barattoli di vernice fresca, aperti, coi pennelli ancora immersi nella tinta.
Un visitatore, credendo che si trattasse di un’opera aperta al contributo di tutti, prese in mano uno di questi pennelli e si mise a pasticciare sugli stracci.
Cintoli gli si scagliò contro e lo menò di brutto: quell’opera si auto-rappresentava come aperta, ma in realtà, come un tempo era per ogni opera d’arte visiva, non ammetteva l’ulteriore intervento di nessuno.
L’arte visiva è fortemente “autoriale” (parola che mi pare non sia nei dizionari, ma va de moda), molto più autoriale della letteratura: nessuno può metterci le mani, neanche nel minimo dettaglio.
Tuttavia chi un po’ li conosce sa che gli artisti hanno fame di consigli, di suggerimenti e di letture del loro lavoro, sia che si tratti di una singola opera, che di quello che complessivamente producono.
Hanno bisogno di un occhio esterno, in genere quello del mercante e del critico, che li aiuti ad auto-valutarsi e ad auto-indirizzarsi.
Spesso il mercante gli commissiona nuove opere e si raccomanda che siano di un certo tipo, perché magari tirano di più: sta all’artista decidere, ma nessuno potrebbe affermare che può farlo “in piena libertà”: le ragioni sono evidenti.
Insomma il rapporto autore/committenza non è mai stato né puro, né semplice: interventi “pesanti” ci sono e ci sono sempre stati, soprattutto quando la figura dell’artista non godeva dello status contemporaneo.
L’autorialità assoluta è un mito.
Per esempio.
L’architetto sa che ogni suo progetto va incontro ad una serie infinita di varianti, anche sostanziali, sia in sede di progettazione sia in sede di esecuzione e sa che suo compito e bravura starà nel riuscire a mediare senza perdere in qualità e senza tradire le intenzioni.
Immagino che per un testo, entro certi limiti non definibili a priori, possa dirsi lo stesso.
Tuttavia l’architetto sa che, se un vescovo ti chiede una chiesa, non puoi presentargli il progetto di un centro commerciale, e viceversa.
In questo senso Mozzi ha ragione quando parla di una convergenza iniziale di intenti tra autore e editore.
Scusa Alcor, sai che ti apprezzo, ma questa tua immagine è come un boomerang. E’ noto che proprio in Italia c’è un numero troppo elevato di parti cesarei (tagli…ehehehe…) rispetto agli studi epidemiologici.
Campano così tanti anestesisti e i chirurghi si fanno i bagni…
Anche gli uomini partoriscono. E’ solo che la Chiesa lo nega all’uomo il diritto di partorire in santa pace. :-)
Ma quale complottismo, quella è roba vecchia, non più di moda!
Adesso c’è il wild editing, stuff che ti entra dentro e non te la scolli più, peggio della scimmia. Già! La meritocrazia in Italia non esiste, esiste tutto, tranne la roba buona. Noi poveri italiani siamo imitati in tutto quel che facciamo: sarà per questo che a ogni giorno che passa il mondo è un po’ peggiore? Mi sa di sì: gli evasori fiscali sono arrivati anche in Cina. E i libri cinesi sono arrivati da noi: ce ne sono scaffali interi, tutti oltre le mille pagine, tutti thriller o quasi o giù di lì. E’ proprio vero: tutto il mondo è paese. :-)
ancora su cintoli:
http://www.claudiocintoli.com/vita%20d.htm
quella mostra, del ’69, si intitolava Colare colore.
E poi.
Si presuppone sempre un cattivo (l’editore, che sfrutta e mercifica, e storpia buoni romanzi a scopo di mercificazione) e un buono (l’autore, l’anima bella che scrive in nome di Dio e del benessere umano). Ma lo vogliamo dire che tre quarti della roba che arriva in casa editrice è puro delirio narcisistico e supponente, di gente che prima di mettersi a scrivere dovrebbe avere almeno letto qualcosa e avere qualcosa da dire che vada oltre la sfrontata esibizione di se stessi? Su questa cosa io ho scritto un raccontino tragicomico, non sarà l’ultima parola in argomento ma almeno ci si ride sopra. Lo trovate qui, su Vibrisse
http://www.vibrissebollettino.net/archives/rassegna_stampa_sironi/valter_binaghi/index.html
Senza dover parlare dei tipografi… Ci vuole coraggio tutto qua. Mi sembra che la posta sia ben altra. Qui si parla di sistema, è tutto quello che è attorno. Ma l’uomo dov’è? A quale padrone si è inginocchiato. A quale idea si è prostrato. Forse l’incapacità di andare fino in fondo e l’incapacità e la paura di trovare solo il vuoto? (e allora si rappresenta artisticamente il vuoto) Io credo che ci siano “possibilità” se si vuole veramente capire. Credo che la frustrazione nasca dall’impossibilità di essere, non d’apparire che l’alienazione e la sua rappresentazione sia divenuta “arte”, e questa sappia comunicare benissimo il suo sgomento e diviene commercio. Davanti ad alcuni scrittori ci si sente impreparati, ci si sente “trovati”, così ho letto da qualche parte. Questo cosa significa? Che si è solo macchine consapevoli, ma macchine che sbraitano contro il sistema ma non possono farne a meno, vivono e si alimentano di questo “Uomo”, altrimenti a chi vendere? Dove discutere, dove essere pubblicati. Ed allora i toni si allontanato dall’animosità, si diviene più comprensivi, si concede, si fa parziale marcia indietro, o il silenzio: la medicina per tutto.
@Luminamenti (che diceva che l’Einaudi non è più quella di una volta)
Vuoi gentilmente dirmi TU quanti di quelli che lavoravano nella vecchia Einaudi avevano seguito un programma curriculare e che esperienza professionale (apprendistato) avevano, quando hanno iniziato?
Di corsi di laurea, brevi o meno, in traduzione e anche editoria, le università ne sfornano e cercano di sfornarne anche troppi, a mio gusto, che si annacquano nell’accademismo perchè vengono prevalentemente tenuti da professori che di case editrici ne conoscono ben poche e quasi sempre (o almeno nella massima parte) come autori di pubblicazioni accademiche presso case editrici a pagamento (fondi di dipartimento ecc) e dovrebbero funzionare come University Press (ah ah!)
Tra i pochi eccelsi (professori) che conoscevano il funzionamento della macchina personalmente (ma puoi farmi tu altri nomi) io conosco solo Mario Lavagetto, al tempo di Pratiche, ormai passato da un pezzo. (E De Michelis con Marsilio.
e altri ce ne sono che curano collane.)
E’ vero che all’interno dell’università le competenze lessicali e un certo tipo di lavoro editoriale si fa e i giovani ricercatori e docenti fanno molto editing, agli inizi, per le cose loro, e spesso lavorano anche per l’editoria, ma essendo entrati già in un’altra carriera, di solito lì restano.
Umberto Eco, di quei corsi, uno ne ha fondato, se non ricordo male, a Forlì. Funziona? Non so.
Ma per il lavoro editoriale si va e si è sempre andati A BOTTEGA, non all’università, o anche all’università, come ho detto, ma anche lì imparando da quelli che l’avevano fatto prima.
Non ci sono lezioni teoriche che tengano, in questo campo. Si impara e si è sempre imparato FACENDO.
E’ vero che adesso i tempi della bottega sono ridotti a cinque minuti e la gente viene scagliata nella macchina (e anche spesso risputata fuori) e tempo di record.
Ma questo non riguarda solo l’editoria, è un discorso molto complesso che riguarda le nuove forme di lavoro e di produzione, che ricadono, certamente, anche sul lavoro editoriale. E sarebbe infantile credere di poterle cambiare con uno sforzo di buona volontà e di buone intenzioni.
La complessità e la rapidità quasi fluida con la quale queste cose cambiano è sotto gli occhi di tutti.
E il problema non riguarda solo l’editoria, ma tutta la filiera, a iniziare della scuola, (che neppure lei è più quella di una volta) da un lato, e dall’economia di mercato dall’altro. Se la si vuole modificare, si faccia la rivloluzione (di nuovo ah ah!)
Ancora: se leggeste gli epistolari, i diari, le confessioni ecc di uno, due, tre, quattro, cinque, sei secoli fa, vedreste che le lamentele erano sorelle di queste.
Tu, Luminamenti, vuoi le scuole di editing come nei paesi anglosassoni? Ma allora di che ti lamenti, è proprio da loro che abbiamo copiato tutto quello che non ci piace, lauree brevi comprese, ma male, perchè non abbiamo avuto fiducia nelle nostre competenze, forse, ma soprattutto perchè non potevamo fare altro e annaspavamo per MODERNIZZARCI.
Potevamo non modernizzarci? Qua ci sarebbe da discutere, ma sarebbe, anche questa, temo, una discussione accademica.
Si parlava di Einaudi, ve lo ricordate il fallimento di Einaudi? Beh, io sì… ci ho anche rimesso dei soldi…
A me piace molto sentire la gente che sa parlare di quello che sa, e mi piace anche molto sentire quelli che non sanno fare domande su quello che non sanno, ma in queste numerosissime discussioni in rete sull’editing e l’editoria, la quantità di stupidaggini incompetenti ha raggiunto il livello di guardia e quei pochi che vengono a dare onestamente testimonianza delle loro esperienze vengono trattati come doppiogiochisti, spie e mestatori.
E’ ridicolo, è infantile, ma soprattutto, come ho detto sopra è tanto ma tanto ma tanto NOIOSO.
E così anch’io, che non volevo, ho contribuito alla chiacchiera.
giusto, valter. esiste solo ciò che è pubblicato.
editor ergo sum.
forse un filo darwinistico, ma giusto.
di idee meravigliose non-scritte ne sono piene le fosse.
PS. l’immagine sotto il testo è fichissima
Ah… e poi la smetto, qualcuno qui ha parlato del Gattopardo?
E beccatevi questa, scritta a Sergio Solmi da Bobi Bazlen, sommo consigliere einaudiano e cofondatore di Adelphi.
“Tomasi di Lampedusa 7 maggio 1959
Suspicione verso il Gattopardo: giustificatissima. Comunque non rientra nella categoria delle opere con polenta a due centimetri sotto la superficie, e l’entusiasmo per le quali ci fa intravvedere gli abissi di inconsistenza dei nostri migliori amici (Ladri di biciclette, Cristo si è fermato a Eboli, dott, Zivago – e mi sto già torcendo quando penso alla pubblicazione dell’epistolario di Saba) – è il libro di un provinciale colto; con vera cultura (molto passata) nel sangue, responsabile, intimamente soigné, piuttosto simpatico; e ciò che in Italia conta molto, ricco (materialmente). – Come costruzione è affrettato, quasi un polittico con spazi disuguali, e molto disarmonici, tra quadro e quadro. Si sente il bisogno di buttar fuori, d’urgenza, alla meno peggio, più roba possibile prima di morire. Non è un gran che: comunque la pagina più brutta vale tutti i “gettoni” […]. Riassumendo, un buon technicolor da e per gente per bene.
Tra l’ “arte” e il techicolor, se vado al cinema, voglio il technicolor e non certo Un condannato a morte è fuggito. – L’hai visto? merita per capire a che punto siamo. Con tutto il malinteso di scarno, essenziale, antirettorico, senza compromessi col gusto del pubblico (ma io povero diavolo sono il pubblico!), rinuncia agli effetti, onestà fino in fondo e bovarismi consimili, il regista ha avuto la spudoratezza di rubarmi tre quarti d’ora di vita per mostrarmi un nessuno che (of course sotto l’assillo della morte) si prepara di nascosto la corda per fuggire, in una cella, solo. vedere per credere. (Mi pare primo premio di Venezia.)”
Allora, c’è un Grande Vecchio, dietro a questa lettera editoriale di Bazlen? O solo, onestamente, quello che pensava Bazlen sia del Gattopardo che di Un condannato a morte è fuggito?
E credete davvero che chi sceglie i libri parli e pensi da un ottica diversa da quella da lla quale parlavano o pensavano Bazlen e Solmi nel 1959? Dovevano fare libri per l’editoria, a volte gli piaceva questo, in base alla loro sensibilità e cultura, a volte gli piaceva quello, in base alla loro sensibilità a cultura e alla loro idea della casa editrice per la quale dovevano fare le scelte, del loro pubblico.
Erano grandi vecchi, visti da oggi, ma il Grande Vecchio anche allora, non c’era.
C’era, come c’è ora, un cervello-pancia, multiplo e polimorfo, plastico e contraddittorio, che alla fine partoriva una decisione condivisa.
Si può essere o non essere d’accordo con quella decisione, ma si dovrebbe sempre restare con i piedi per terra, giudicando sia quella che queste che ci riguardano più da vicino.
Quindi Kafka, da vivo, non era uno scrittore. Capisco…
@pedro
Lo era nella misura in cui aveva scritto qualcosa degno di essere pubblicamente letto. Che questo gli sia stato riconosciuto prima o dopo importa meno, ma è qualcosa che non è l’autore a decidere, ma il lettore o chi per esso. L’editore è colui che può far giungere il tuo libro a molti: devi convincere lui prima di altri. L’editor, che accompagna un libro alla sua pubblicazione, è essenzialmente un lettore, li rappresenta o pretende di farlo.
Un autore che sceglie un editore, approva implicitamente la linea editoriale in cui sarà collocato. Significa l’attenzione a un certo tipo di lettore, soprattutto a una certa cultura. Se pubblichi per i gialli mondadori, devi supporre che una citazione in latino di venti righe ti chiederanno di toglierla. Però puoi sempre mandarli a cagare e cercarti un editore diverso, cui non dispiaccia la cultura classica e il citazionismo in letteratura.
Quel qualcuno del Gattopardo sono io.
Dunque: ciò che viene pubblicato è per il solo fatto che è stato pubblicato.
Meglio morire e poi farsi pubblicare.
Interessante. Ma nulla affatto conveniente.
Per fortuna, il tempo inesorabile imparziale giudice ha già spazzato via tanti e tanti capolavori detti così dagli uomini. E nulla memoria ne è rimasta. Quindi pubblicare oggi e non rimanere il prossimo anno, perché già dimenticati, è come non aver pubblicato: quindi il libro non è più.
Si scrive per i posteri, se si ha interesse a creare. Se si ha solo interesse a scrivere per un poco di fama, per i famosi 15 minuti e un po’ di danè, allora è un altro paio di maniche. Ma chi sceglie di scrivere per i 15 min. e i danè non s’illuda di arrivare ai posteri.
Kafka, ad esempio, è arrivato a noi, che siamo già i posteri. E’ già tra gli immortali, nonostante in vita abbia ricevuto poco o nulla attenzione.
E uguale discorso per tanti altri autori classici.
Ha poco senso, direi uguale a zero, scrivere tanto per fare un lavoro come un altro. Inoltre, tanti sédicenti scrittori meglio sarebbe che prestassero le loro braccia all’agricoltura o ad altra attività manuale.
Buona serata e buon editing :-)
Anche Lucio Piccolo (per altro parente di Tomasi Di Lampedusa) , e Pizzuto, erano (sono) scrittori? O devono essere considerati per quello che vendono e vendevano (nulla). Quanti di voi conoscono tutta l’opera di Pizzuto? E’ ridicolo ignorare l’ignoranza, è divenuta una farsa. Nozionismo e chiacchiere. E stato E. Bernhard a voler l’adelphi, “un suo uomo Bazlen”. Ma ne è rimasto ben poco di quell’idea.
Io conosco Pizzuto, caro Michele, l’ho letto e riletto.
E con questo?
Se uno vuol fare soldi non fa l’editor.
Se uno vuol fare soldi disegna magari occhiali.
Visto che mi porgi delle domande ti do le mie risposte, che sono facili facili rispetto alla contraddizione in cui sarei caduto.
“@Luminamenti (che diceva che l’Einaudi non è più quella di una volta)
Vuoi gentilmente dirmi TU quanti di quelli che lavoravano nella vecchia Einaudi avevano seguito un programma curriculare e che esperienza professionale (apprendistato) avevano, quando hanno iniziato?”
Quelli che dirigevano l’Einaudi se ti fai un ripasso alfabetico erano nomi da letteratura. Quelli che come gregari lavoravano con loro apprendevano da quei geni (la comparsa del genio come matrice socio-culturale di una spinta evolutiva è noto) secondo il modello che tu dici della Bottega.
Idem per la Mondadori. Ma l’esempio si potrebbe fare per altre case editrici
Ma dato che le case editrici non sono più dirette da letterati, da geni della letteratura come Calvino, Vittorini, la soluzione meno schifiata che ci può essere è quello di copiare bene, contestualizzandolo, il modello anglosassone. Mancando le botteghe dei magister, ci tocca procedere secondo una prassi scientifica perchè è da tempo che non siamo più europei (non sappiamo più la differenza tra bildung e apprendimento). La qualità raggiungibile non sarebbe eccelsa ma sempre meglio del livello attuale affidato al caso, al nulla.
In attesa che compaia un Giotto che si trascini dietro i suoi allievi
“buon pro ti faccia…” il problema non è il povero editor, non è il correttore di bozze (tale deve essere). Ebbene in un aria geografica la Sicilia anni sessanta tre nomi che mi saltano in mente: Piccolo, Pizzuto, G. T. DI lampedusa. .. Ma questo è un caso fortunato chiamato Scheiwiller e Montale, Contini come “editor”. Insomma siamo seri.
Perché? @luminamenti, quelli che insegnano ADESSO nelle università sono migliori di quelli che lavorano ADESSO nell’editoria?
Tu hai un pregiudizio favorevole nei confronti delle università? Con i suoi moduli di venticinque ore, con la sua deplorevole parcellizzazione, con le sue pratiche di selezione?
Dall’università di massa ti aspetti la salvezza delle competenze editoriali?
L’editoria sarebbe l’unico vaso di iniquità?
Auguri.
Il modello della Bildung è morto e sepolto, mi comporto quindi nei ragionamenti in maniera realistica, che non significa che mi piace il modello di apprendimento anglosassone. Ma se hai studenti che ormai hanno inscritti nei cromosomi la coca-cola e Mcdonald, che quindi sanno apprendere ormai solo come si apprende nei paesi anglosassoni, ci vuole un anno-luce per spiegargli che si può acquisire conoscenza fuori da certi canoni.
Penso malissimo delle università italiane. Penso però che qualcosa sia meglio che niente
@ Michele
Magari faremmo un passo avanti rispetto alle giuste aspettative di Luminamenti se il tuo periodo fosse tanto articolato da farsi capire da una povera lettrice di Pizzuto come me.
E poi, vorrei farti notare, Pizzuto e Tomasi di Lampedusa non credo che si riconoscerebbero nell’accoppiamento.
E Contini come editor… anche di Lampedusa, immagino:–))
@Lumina
Ma il livello dell’università non è diverso dal livello dell’editoria contemporanea. Tutti abbiamo subito la stessa mutazione.
Non c’è un luogo che non sia mutato, se davvero ti comporti in modo realistico devi fare la zuppa con gli ingredienti che hai, e cucinarla sul fuoco che puoi accendere.
Oggi non c’è più neanche la possibilità che uno scrittore bravo e affermato promuova possibili esordienti presso una casa editrice. La casa editrice se ne frega. E non mi si vengano a fare nomi che sono come l’esistenza delle mosche bianche. C’è un isolamento totale e i cafè letterari non sono come prima, hanno altri scopi.
L’università italiana è quanto di più annacquato c’è, come la scuola del resto. Va di moda la tecnologia, ma anche questa solo a parole, dato il livello delle strutture e mezzi e risorse umane messi a disposizione.
Ma siccome questo è quello che abbiamo ce lo dobbiamo tenere, non ci sono proprio segnali di possibili cambiamenti in un futuro prossimo.
@ Valter Binaghi
D’accordo con te sul fatto che non sia l’autore a dover decidere sulla dignità della sua opera, e ancora d’accordo con te sui rapporti autore-editore e autore-editor. Solo, mi premeva sottolineare che, a volte, passa del tempo prima del riconoscimento pubblico, e ciò non è sempre da addebitarsi allo scrittore, che ha tutto il diritto di sentirsi tale.
Che poi ci sia una massa variegata di scrittori non-scrittori, va bene, è un altro paio di maniche, cioè, diciamo, l’altra parte della questione. Ma non amo molto le generalizzazioni.
@ Luminamenti
Proprio tu, caro mio, dovresti trovare il tempo di “spiegargli che si può acquisire conoscenza fuori da certi canoni”, cercando, magari, di metterci un po’ meno di un anno luce…
E allora una bella canna da pesca, una riva, e una scatoletta di vermi.
(E quello che dici sugli esordienti non è vero, è solo difficile, come è sempre stato)
era per @Lumina
Perfettamente d’accordo Alcor. La minestra è questa! Si potrà pure dire almeno che non mi piace ma me la mangio? Come dire leggo anche io e spesso ho delle smorfie di rovescio. In questo non c’è nessun luogo comune e pregiudizio nei confronti dell’editing. Trovo solo la qualità di questo apprezzabile lavoro, architrave dell’editoria, inferiore, depotenziato rispetto al passato. Su questo m’impunto! Avrei preferito un’impostazione di tutta questa questione sul lavoro dell’editor con maggiore introspezione.
@ Lumina
Figurati se non si può dire, io mi prendo un mal di pancia al giorno, ma mi piacerebbe che fra tutti quanti siamo si dicessero le cose come stanno, perchè solo dicendole come stanno c’è qualche speranza di far bene le cose, il catastrofismo incompetente che ho visto in giro non giova a nessuno, soprattutto ai giovani, gli unici di cui mi preme davvero, che possono solo scoraggiarsi di più.
Il lavoro culturale è molto più complesso di quello che risulta da questi dibattiti, e spesso è intrecciato da competenze e relazioni che neppure appaiono, a chi lo guarda dall’esterno e vede solo il grosso.
Ma mi ritiro, ero in crisi da astinenza commentatoria e ho strafatto.
cara alcor il modello della canna da pesca, della riva e della scatoletta sarebbe già da tanto se esistesse. Si tratta di un modello empirico, apprendimento per imitazione. ma figurati se nella casa editrice c’è tempo per il trasferimento della sapienza. I ritmi sono altri, diversi.
“Il lavoro culturale è molto più complesso di quello che risulta da questi dibattiti, e spesso è intrecciato da competenze e relazioni che neppure appaiono, a chi lo guarda dall’esterno e vede solo il grosso”.
D’accordissimo, ma non riesco a essere ottimista nel caso specifico e sono dell’idea che dovrebbe essere l’editoria a guidare il mercato (della cultura) e non l’incultura generale dei suoi acquirenti
Ad alcor (aspetta un attimo)
leggiti L’Oboe e il clarino (ed. Scheiwiller). Ma devi avere pazienza, per i miei periodi. Sono il miglior scrittore che tu possa aver mai incontrato, ma un pessimo editor. Preferiresti il contrario?
@Michele
No ovviamente:–) (Questo per la domanda)
Va bene (Questo per l’ingiunzione)
E adesso vado davvero. Buona serata a tutti.
Forse, Vasta, il primo mattone dell’inchiesta sarebbe dovuto essere la descrizione del bilancio di una casa editrice, anzi di tre: grande, media, piccola. Cosi’ avrei/avremmo capito quanto incide la figura dell’editor, cosa costa e in che maniera puo’ e deve generare il profitto atteso. Tutto molto british e ragionieristico, ma dal consuntivo bisogna partire. Grazie.
Io sto dalla parte di Barbieri che dice che bisogna portare esempi o casi altrimenti io non ci capisco nulla e sono stufo marcio di qualsiasi generalizzazione o ricetta o descrizione vaga, anche quelle di Mozzi che dicon tutto e niente.
Voglio materiali qui esempi patenti!
Per dire:
un cristianazzo d’autore che espone qui un capitolo prima e dopo l’editing,
casi concreti, fatti tecnici,
un altro che ti dice mi hanno cambiato tali capitoli, così e colà,
mi hanno tolto il finale, me l’hanno mutato, ho concordato così.
Basta con concetti ambigui buoni per tutte le stagioni e noisissimi.
Meno male che Alcor riportò il caso Gattopardo ed un parere autorevole.
Ricordo una volta il gustosissimo racconto comparso su Maltesenarrazioni di un giovin scrittore che raccontò in pseudonimo tutte le sue grottesche peripezie con Canalini, e ciò fu gustosissimo ed assai istruttivo.
Per altro conosco bene uno scrittore che pubblicò per Mondadori un romanzo che vendette 30.000 copie; gli fu imposto un cambiamento di finale che stravolgeva un terzo del romanzo: prendere o lasciare, ci stette e vendette infatti, ma a me non piacque affatto, ‘sto finale.
Il suddetto autore dopo quindici anni si ricomprò i diritti e ripubblicò il romanzo ( come lui voleva) presso altro editore minore e ci fu ancora ottimo riscontro di vendite e critica.
E non posso far nomi, però.
Era per dire, tanto per dire.
Mario Bianco
Be’, a me il “Gattopardo” è sembre sembrato un brutto libro (ma un buon technicolor).
E “Un condannato a morte è fuggito” di Bresson mi è sempre sembrato un film bellissimo e affascinante.
Una sera ho sentito Emilio Isgrò, parlava, parlava molto di sè. E poi disse che Jeff Koons era un venditore di fumo e che le sue foto con Cicciolina erano uno sporco gioco.
Dopo poco mi sono alzata e me ne sono andata.
Poi guardo questa foto e mi piace. E’ legata all’arte concettuale ma ha ancora molta energia. E rivela le parole.
“Il Gattopardo” m’è sempre sembrato un libro molto bello, m’ha spostato fisicamente e anni dopo sono andata a prenderla quella Palermo là.
@ GIULIO
Dopo questa tua dichiarazione, Giulio, oramai sono sicuro che di Letteratura capisci poco o niente o nulla affatto. In amicizia, ma quel “mi è sembrato un brutto libro” mette in chiaro molte tue idee… :-(((
@mozzi
un brutto libro?
Può anche darsi non capisca niente di letteratura, tuttavia rimane il fatto che trattasi di un cinefilo eccellente: “Un condannato a morte è fuggito”, infatti, è un capolavoro.
“Un condannato a morte è fuggito”: un buon film.
Ma preferisco il più recente “Il Partigiano Johnny” per la regia di Guido Chiesa, ovviamente da quel Capolavoro assoluto che è il romanzo di Beppe Fenoglio, inimitabile Scrittore da cui noi tutti abbiamo tanto ma proprio tanto da imparare e per umanità e per stile letterario.
Mozzi, secondo me, capisce di narrativa popolare, ma chiedergli il salto di qualità non è possibile.
Cosa facciamo, Iannox, riprendiamo a “litigare”? “Un condannato a morte è fuggito” non è un “buon film”: è un “capolavoro”. Punto.
Per il resto, concordo con te (sigh!): Fenoglio è un grandissimo.
Su Mozzi mi astengo, non vorrei perdere un cliente.
Neanche a me è mai piaciuto il Gattopardo
@ Fiorello M. Annoia
No, ma figurati.
Ho solo detto che gli preferisco il Johnny di Chiesa.
E vorrei ben dire: Beppe Fenoglio è “Unico”.
@ LUMINA
Un conto è dire “non mi è piaciuto”, esprimi che non è stato di tuo gusto.
Diverso è dire “è un brutto libro”. La differenza è abissale.
Io per assurdo, potrei dire: “La Divina Commedia” di Dante non mi è piaciuta. Ma se dicessi: “La Divina Commedia” è brutta, allora non solo sarei un caprone ignorante, ma meriterei pure d’essere preso a randellate sulle gengive.
I libri di Scerbanenko sono brutti e non mi piacciono. Brutti perché scritti alla BIP d’un cane. Il fatto che poi a me personalmente, per i miei gusti, non piaccia quello che ha scritto l’autore è una questione di gusti. Rimane che Scerbanenko scriveva davvero malissimo. E questo sì, è un giudizio, direi difficilmente confutabile.
Iannozzi, quali mie idee sono state “messe in chiaro”? Méttile in chiaro tu, suvvia. Tanto perché si capisca di che cosa parli, e se parli effettivamente di qualcosa.
Io, comunque indefesso,
o forse fesso,
continuo a dire se non a sbraitare che sarebbe meglio immettere qui un bel testo/inchiesta sull’editing, con esempi verdici, chiarificanti
e non per fare scalpore ma per far luce sui vari tipi di processi correttivi
e su casi avvenuti, nel bene e nel male, per evitare tutto
‘sto polverone polemico utile solo a intorbidare di più le acque del padule.
Mario Bianco
Suvvia…..
nel nostro piccolo
rendiamo l’aria respirabile!!!
Sull’editing e l’idea di Mario B:
non esistono due diverse versioni di “Tre metri sopra il cielo”?
Quella editata e quella originale di Moccia, la prima versione, poi pubblicata ugualmente da Feltrinelli?
Io mi sono procurato la versione editata, e sono pronto a trascrivere qui la prima pagina e se qualcuno ha l’altra stesura possiamo fare un confronto.
domanda misera la mia, ma pur sempre domanda…
parlare di qualcosa di un pò meno pubblicizzato
non è possibile forse?
Non credo sia tanto facile.
“Tre metri sopra il cielo”, proprio per la doppia versione pubblicata, consente un confronto. e secondo me sarebbe un buon banco di prova, proprio perché trattasi di libro commerciale.
per me va bene,
non mi viene in mente niente altro in doppia versione :-(
Be’, ci sarebbe The Waste Land. Autore: Eliot. Editor: Pound. C’era un’edizione (nella Bur, a cura di Serpieri) che riportava il testo originale e gli interventi (soprattutto tagli) di Pound. Non so se l’edizione Bur oggi in commercio sia sempre quella (c’erano state serie noie legali, mi pare). Comunque sulla copertina c’è scritto: “con un nuovo saggio sulla genesi del poema”, il che forse vuol dire che abbiamo il lavoro già fatto…
Poi c’è l’Orlando innamorato del Boiardo e quello riscritto dal Berni (dove la riscrittura ha praticamente ucciso, per qualche secolo, l’originale).
@ giuliomozzi
Però “The Waste Land” è un testo eccessivamente “complesso”, e poi non è scritto in italiano: c’è di mezzo anche il problema della traduzione, voglio dire.
Ho letto da poco (sono molto in ritardo, lo so…) “L’elenco telefonico di Atlantide”: per me il libro è stato una rivelazione, tanto che ho attaccato subito con “Il Mare di Bering” (praticamente già terminato).
Comunque, nei ringraziamenti finali, Tullio Avoledo spende un sacco di belle parole su di te. Nel mio piccolo credo che tu te le meriti tutte, ma mi piacerebbe sapere, nel concreto, tu che tipo di editing hai fatto sul manoscritto originale di Avoled? che tipo di interventi e quali suggerimenti hai dato all’autore?
Io sono pronto a trascrivere la prima pagina di “Tre metri sopra il cielo” nella versione editata. Se qualcuno ha la versione originale di Moccia, batta un colpo.
un esempio classico: il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki, così come venne pubblicato nel 1958 a cura di Roger Caillois (grosso modo solo la prima parte del romanzo), è un capolavoro che ha arricchito la letteratura “quali che siano l’interesse e il valore del resto dell’opera”.
in ambito autoriale direi un taglio à la Fontana.
Giulio, dove sei?
E poi, lo facciamo questo confronto su Moccia?
Chi ha la versione originale?
Perché in questo blog, invece di presentare interviste a editor, non si guarda alla faccenda da un altro punto di vista?
perché non si postano brani di romanzi, racconti nella doppia versione: prima e dopo l’editing?
perché gli autori non si fanno avanti?
parlare teoricamente può essere sì interessante, ma poi bisogna andare sullo specifico.