Roberto Bolaño. Come salvare la pelle senza rinunciare alla poesia
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Bisogna partire dal fatto che Roberto Bolaño si considerava un poeta.
Aveva pubblicato cinque invisibili plaquettes prima del 1993, prima cioè che, a quarant’anni, cominciasse la sua vera storia di romanziere (in seguito sono apparse due raccolte, intitolate rispettivamente Tres [Tre] e Los perros romanticos [I cani romantici]. La prima uscì nel 2000, mentre la seconda è stata pubblicata postuma nel 2006).
Nel 1979 era uscita in Messico, dove l’autore cileno aveva vissuto tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, un’antologia nella quale aveva riunito un gruppo di giovani poeti di avanguardia dell’America Latina, dal titolo Muchachos desnudos bajo al arcoiris de fuego (Ragazzi nudi sotto un arcobaleno di fuoco). L’avanguardia in questione era l’«infrarealismo» o «realvisceralismo», una sorta di «Dada alla messicana» le cui radici affondavano in Francia. Sembra che Soupault avesse dato vita a un’eresia parallela al Surrealismo. In Messico l’eresia soupaultiana fu adottata da un pugno di guerrilleros della parola che irrompevano in modo repentino e virulento nei simposi letterari e, armati unicamente della loro sana disperazione, seminavano il disordine dei sensi dove regnava un’apparente calma intellettuale.
Ancora verso la fine della sua vita, Roberto Bolaño affermava: «Sono fondamentalmente un poeta. Ho iniziato come poeta. Da sempre ho creduto – e continuo a farlo – che scrivere prosa sia un atto di cattivo gusto».
Gli amici riferiscono che si sia deciso a scrivere con regolarità racconti e romanzi verso il 1990, dopo la nascita del suo primogenito Lautario. La poesia è importante, ma ancor più importante è sopravvivere. C’era la necessità di provvedere ai bisogni di una piccola famiglia. La sopravvivenza per mezzo della prosa è probabilmente meno acrobatica di quella che si ottiene attraverso l’invisibile pubblicazione di plaquettes di poesia, tanto più se essa è strettamente legata alla nebulosa di premi letterari minori dispersi nelle vaste province di Spagna. C’è un racconto, «Sensini», presente nella raccolta intitolata Chiamate telefoniche(1997), in cui un vecchio scrittore argentino spiega a un giovane scrittore, anch’egli emigrato in Spagna da un paese dell’America Latina, «la strategia generale» per partecipare a un numero sempre maggiore di premi. In una lettera che gli invia da Madrid, insiste sulla «misura precauzionale» di spedire alle diverse municipalità lo stesso racconto, ma ogni volta avendo l’accortezza di cambiarne il titolo. Certo, esiste la possibilità di imbattersi in uno stesso membro di giuria, in molti casi uno scrittore a sua volta consacrato da numerosi premi letterari di provincia. Questo, tuttavia, è il rischio che «un cacciatore di scalpi» lontano dalla sua riserva deve correre. Un rischio calcolato. Quale critico, infatti – afferma l’anziano scrittore – potrebbe negare che due racconti dal titolo differente non siano differenti proprio a causa della singolarità del loro titolo? La situazione del giovane «pellerossa» alle prese con il Far West della letteratura – «Il mondo della letteratura è terribile, e ridicolo», ripete al suo allievo il maestro – è assai simile a quella che lo scrittore Roberto Bolaño, nato nel 1953 a Santiago del Cile, sperimenta dal 1977, anno in cui giunge in Catalogna. Dapprima a Barcellona. Poi, dal 1981, a Blanes, una stazione balneare della costa Brava.
Gli assegni dei premi letterari delle province spagnole, tuttavia, non sono sufficienti a far sopravvivere un giovane emigrato senza protezioni sociali e per di più mal disposto a compromettersi con le mafie letterarie. Bisogna adattarsi perciò a qualsiasi genere di lavoro: cameriere, idraulico, guardiano notturno di camping, portuale, vendemmiatore. A seconda delle stagioni e delle occasioni. Infine, trasformarsi in rivenditore di articoli per turisti. Tuttavia il cameriere, il guardiano notturno e il rivenditore di articoli per turisti di Blanes, ovvero l’uomo che conosce a menadito la precarietà della vita non è così diverso dal ragazzo che nel 1968 ha lasciato il suo paese per il Messico. A Città del Messico DF (Distretto Federale), «un vasto territorio inesistente dove la libertà e la metamorfosi costituivano lo spettacolo di tutti i giorni», vive con l’amico fraterno e poeta Mario Santiago la sua rivoluzione artistica all’insegna di tutte le avanguardie d’Europa e d’America. L’uomo di Blanes non può nemmeno dimenticare il giovane di vent’anni che nel 1973 fa ritorno in patria. Bolaño, lasciato il Messico, parte per il Cile. Vi resterà cinque mesi. Neppure il tempo di assistere alla caduta di Allende e alla presa di potere di Pinochet, che viene rinchiuso in carcere. Sarà liberato dopo otto giorni, grazie all’aiuto di un secondino nel quale riconosce un ex compagno di studi: «L’esperienza dell’amore, dello humour nero, dell’amicizia, della prigione e del pericolo della morte si condensarono in meno di cinque interminabili mesi durante i quali in modo estremamente rapido e in uno stato di abbagliamento ho vissuto tutto».
L’uomo di trentun’anni che nel 1984, in collaborazione con l’amico Antoni G. Porta, compirà i primi passi nel mondo della prosa pubblicando un’opera dal titolo Consejos de un discípulo de Morrison a un fanatico de Joyce(si tratta di un «rifacimento» del titolo di una poesia scritta dal suo amico – nel frattempo scomparso – Mario Santiago, Consejos de un discípulo de Marx a un fanatico de Heidegger) non farà che riprodurre quella condensazione dell’esperienza, quella rapidità dell’azione narrativa priva di ogni dettaglio superfluo, quella visione lucida del mondo – colma d’amore, sesso e humour – che aveva vissuto in quegli «interminabili» cinque mesi cileni del 1973 e che costantemente rivivrà in tutte le sue opere successive. La tonalità della prosa di Bolaño: quella di un poeta in pericolo di vita che guarda in uno stato di abbagliamento e con un sorriso sulle labbra tutta la fragilità dell’essere umano concentrata sul volto del suo miglior amico.
Un uomo, inoltre, che rivendica «la miseria e la superiorità» dell’autentica pratica letteraria rispetto a ogni genere di consorteria. Nella prefazione a Amberes(Anversa), un’opera in prosa scritta nel 1980 ma pubblicata nel 2002, l’autore ricorda il suo primo periodo in Catalogna, e confessa: «Il disprezzo che provavo per la cosiddetta letteratura ufficiale era enorme, benché soltanto un po’ meno grande di quello che provavo per la letteratura marginale. Ma credevo nella letteratura, ovvero non credevo né nell’arrivismo né nell’opportunismo né nei mormorii dei cortigiani. Sì nei gesti inutili, sì nel destino. Non avevo ancora avuto figli. Leggevo più poesia che prosa». Questo suo atteggiamento da «cane romantico» che incarna tutto l’orgoglio e la disgrazia di essere poeti, da orfano senza complessi edipici, senza casa, senza compromessi, perpetuamente in esilio – «L’esilio è il valore, l’audacia. Il vero esilio è il vero valore, la vera audacia di ogni scrittore» – ed esposto «alle intemperie» della vita non cambierà più. Si sposerà (con Carolina); avrà due figli (Lautario e Alexandra, nata nel 2001; «La mia unica patria sono i miei figli, e la mia biblioteca»;); pubblicherà tra il 1993 e il 2003, anno della sua morte, undici opere; leggerà sempre più prosa (sebbene non abbandonerà mai del tutto la lettura della poesia antica e moderna); scriverà articoli e recensioni per giornali spagnoli e latinoamericani in cui analizzerà con severità e generosità romanzieri e poeti del passato e dell’avvenire; dopo la pubblicazione, nel 1998, del suo romanzo I detective selvaggi riceverà due fra i premi più prestigiosi riservati a uno scrittore di lingua castigliana (il premio Herralde, il premio Rómulo Gallegos); diventerà il faro, o addirittura il «totem», della nuova generazione di scrittori latinoamericani (Alan Pauls, Rodrigo Fresán, Jorge Volpi, Ignacio Padilla, Edmundo Paz Soldán, Santiago Gamboa, Rodrigo Rey Rosa, Ibsen Martinez, Fernando Vallejo, Antonio Ungar, Gonzales Contreras, Pedro Lemebel, Jayme Collyer, Mauricio Montiel, Alvaro Enrigue ecc.).
Ciononostante, poco prima di morire, mentre è assorbito dalla redazione del suo ultimo romanzo intitolato 2666 – un’impresa colossale di più di mille pagine che uscirà postumo nel 2004 – scrive un attacco che è degno di un’irruzione avanguardista da parte di un gruppo di giovani «infrarealisti» o «realvisceralisti» in un gabinetto medico nel momento stesso in cui un collegio di anatomopatologi sta constatando la morte del paziente. Fedele al suo ideale di poeta che ha a cuore più «le frontiere dorate dell’etica» che la propria reputazione, si lancia contro la letteratura attuale, composta a suo avviso nella maggior parte dei casi da rappresentanti della classe media e medio-bassa di trenta e quarant’anni che, invece di restare «alle intemperie», preferiscono salire la scala, quando non l’Everest, della rispettabilità: «Non respingono la rispettabilità, la cercano disperatamente». Aspirano a vendere. Desiderano essere presenti alle fiere del libro. Desiderano «sorridere e, soprattutto, non mordere la mano di chi offre loro da mangiare». Desiderano andare alla televisione e «fare i pagliacci nelle trasmissioni di pettegolezzi». E la ribellione, il feroce risentimento, il gesto gratuito, il gusto per la polemica, il piacere disinteressato, il senso sottile e metafisico della fine del mondo, il riso, il rischio dell’intelligenza e dei sensi? Dove sono andate a finire queste qualità che dovrebbero appartenere di diritto al poeta, al romanziere, all’artista? «Che cosa possono fare – scrive Bolaño verso la fine del suo testo intitolato I miti di Chtulhu – Sergio Pitol, Fernando Vallejo e Ricardo Piglia contro la valanga di glamour? Ben poco. Letteratura».
Che cosa possiamo fare noi in un mondo che pensa che «il romanzo d’appendice è la salvezza del lettore (e en passant dell’industria culturale)»? Che cosa possono fare Proust, Joyce? E Macedonio Fernández, Juan Carlos Onetti, Roberto Arlt? Che cosa ci resta delle astuzie e della gioiosa erudizione dei modernisti? E della follia dei giovani poeti «realvisceralisti» che seminavano il disordine nelle sale di lettura delle biblioteche di Città del Messico DF nel 1976?
«Ben poco. Letteratura. Ma la letteratura – aggiunge Bolaño – non ha alcun valore se non è accompagnata da qualcosa di più luminoso del mero atto di sopravvivere».
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Il testo è un estratto di un saggio che fa parte di un numero monografico sull’America Latina della rivista letteraria “Nuova prosa” (46), Greco&Greco, Milano, in uscita in questi giorni. Ecco titolo e indice:
America Latina: dalle derive del realismo magico alla realtà del romanzo. Inediti, testimonianze, saggi
Miguel Gallego Roca Le frontiere del romanzo del XXI secolo
Edmundo Paz Soldán Pulsioni locali e globali…
Pedro Ángel Palou Sergio Pitol: le qualità universali del locale
Jorge Volpi La fine della narrativa latinoamericana
Rodrigo Fresán Appunti (e qualche nota a piè di pagina)…
Massimo Rizzante Come salvare la pelle senza rinunciare alla poesia
Roberto Bolaño Derive della letteratura canagliesca
Enrique Vila-Matas Parole per un notturno a Bukhara…
Ricardo Piglia Romanzo e complotto
Sergio Pitol Un’ars poetica?
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Oh, ragazzi, Roberto Bolaño, uno scrittore immenso. Credo che “Los detectives salvajes” sia il libro più bello che ho letto negli ultimi dieci anni. Non c’è mai spazio sufficiente per parlare di grandezze inarrivabili, eppure l’onestà, la grazia e la forza di autori come Bolaño bastano da sole ad illuminare percorsi che non si fermano neanche dopo la fine di una storia o, come purtroppo è accaduto, dopo la fine di una vita.
E, poi, sì, il Bolaño poeta, ancora meno conosciuto del romanziere, meriterebbe più attenzione: grazie Marco Rizzante, per un post che ha reso più interessante il mio pomeriggio.
ovviamente Massimo Rizzante
non l’ho mail letto ma adesso veramente non ho più scusanti. veramente bel post, massimo.
Sì Raimo, non hai più scusanti: si tratta di un autore eccezionale; e Camacho non ha esagerato per niente nel suo commento.
Grazie a Rizzante anche da parte mia.
sangue cileno non mente
combatte.
Bella quella frase sull’esilio …
«L’esilio è il valore, l’audacia. Il vero esilio è il vero valore, la vera audacia di ogni scrittore» –
perchè con l’esilio la vita acquista un valore, un sapore, una spinta più forte, verso ciò da cui siamo stati allontanati.
e il processo di riavvicinamento avviene
per vie che neanche immaginiamo.
Che meraviglia.
che disperazione: quante cose che non so, quanti autori che neppure ho mai sentito nominare. Grazie Max. Vite luminose…
grazie anche da parte mia
w Bolano
Tutte le volte che leggo una tua cosa – ieri per la prima volta ho avuto tra le mani la riedizione di Baldus- mi viene in mente sempre l’episodio della macchina da scrivere. Dividevamo insieme la soffitta del 30 rue Beaubourg e in una domenica particolarmente triste decidemmo nonostante la pioggia di passeggiare per la città . Hemingway termina il suo romanzo parigino con la frase “quando eravamo poveri e felici”. Noi eravamo poveri. (punto)
E all’improvviso proprio quando perfino la vocazione di letterati che c’eravamo dati cominciava a vacillare, dare segni di cedimento ci siamo imbattuti su una vecchia macchina da scrivere. Una Remington. Era abbandonata ai bordi di un marciapiedi, proprio di fronte al Centre Pompidou, come si fa con i vecchi televisori, con una poltrona sfondata.La macchina, a parte il fango era in perfetto stato. Ce la siamo portati a casa ed eravamo felici. Di Bolano, pubblicato da Christian Bourgois (magari ne avessimo uno, uno soltanto di editore come lui in Italia) ne abbiamo parlato e letto tutto. Le cose più belle che ho letto me le hai suggerite tu. E allora mi chiedo. E se quella macchina fosse appartenuta proprio all’anarchico Bolano?
effeffe