Io muoio
di Marco Rovelli
Viveva in un camper con la sua compagna. Veniva all’osteria che per me all’epoca era come una seconda dimora. Io cantavo con gli altri, dopo che di vino ne era stato versato. Lui stava in disparte e guardava. Sono comunista, diceva. Ma guardava anche quando cantavamo i nostri canti di lotta. Anche se più la notte avanzava e più il vino scorreva, i canti si facevano sempre meno impegnati – ma di certo non meno fatti di sogno. Quando anche i canti erano stati versati, loro tornavano sul loro camper posteggiato accanto al pollaio, e se ce la facevano ripartivano. Noi restavamo ancora un po’ sulle panche di legno distese, sotto i tavoli di marmo, a vedere se era restato qualche canto a sgocciolare.
Occorrerebbe sempre diffidare di chi non canta in compagnia. E’ un ladro e una spia, sì, ma non nel senso che si crede. Non è l’esser ladro a far problema, ché in quell’osteria di ladri ce n’erano a sufficienza. Ladri, papponi e truffatori. Un’ottima compagnia, che purificava dalla gioventù troppo uguale delle notti senza più lucciole. E’ l’esser spia che fa problema, e la spia che guarda a bocca chiusa e si porta via con sé il meglio senza restituire nulla in cambio, quello è il vero ladro.
Ecco, quello del camper era così, con i suoi occhiali spessi e la barba che lo nascondeva. Sono comunista, diceva. Non capite che viviamo nel fascismo. Viviamo nel fascismo, diceva. Avevo obiettato che forse l’etichetta non andava più bene. Che senza smettere di schifare questo mondo forse occorrevano nomi nuovi per dirlo. Ma lui mi aveva guardato con la bocca ancora più chiusa. E quando cantavamo i nostri canti impegnati, mi fissava.
Una sera, un’amica mi disse che quel ragazzo era in Aids conclamato.
In quell’osteria un pappone mi fece un’offerta di lavoro, una sera. Mi chiese se volevo andare a portargli le ragazze sul viale alle undici di notte, e andarle a riprendere alle quattro. Poca fatica, e guadagni bene. Avere la fiducia di quell’uomo, essere accolto in quel linguaggio – di questo ne vado orgoglioso come di poche altre cose. Però non mi sentivo tagliato per quel lavoro. Questa è la differenza tra te e Miles Davis!, ha constatato un sassofonista che suonava con me. Io ho dovuto incassare e acconsentire.
Dove sei stato, mi chiede quello del camper.
A uno stage di teatro.
Stage? A un corso vorrai dire!
Mi rimprovera, ai suoi occhi acquosi non solo sono meno comunista, adesso, sono pure trendy.
Era Mussolini che voleva italianizzare le parole, dico.
Entro nell’osteria, so che adesso me lo sono giocato definitivamente.
E’ una questione di parole, con lui, è come se per lui le parole indicassero troppo poco. E lui sta là, all’altezza di un irreparabile, e le sue parole devono dispensare colpe, come folgori.
Qualche sera dopo sono a cena all’osteria. Lui si volta dall’altra parte, quando arrivo. Un’oretta dopo, quando mi tocca andarmene, lui mi segue, nello spiazzo sterrato e buio dove ho parcheggiato la macchina, radente al muro. Ho già le mani sul volante, lui mi bussa al vetro. Io lo abbasso. Mi colpisce con uno schiaffo, Non mi salutare mai più, dice.
La distanza si è fatta incolmabile. Gli occhi se ne stanno riparati dietro le volte di un altro mondo. Una parola indesiderata apre in lui uno squarcio intollerabile, come se il cielo delle stelle fisse si scuotesse, trascinandolo giù dal suo giorno del giudizio.
Ci vuole poco a trascinarmi giù dalla macchina. Apro lo sportello, rispondo con schiaffo a schiaffo. Lui retrocede. Io sto fermo, non so che fare. Lui si ricarica. Bastardo, grida. I suoi occhi sono troppo vicini, adesso. Hanno dentro qualcosa, è una luminescenza d’odio in eccesso, è come se buttasse addosso a me il suo carico di morte. Quegli occhi adesso mi investono. Mi investono ancora. Mi schiacciano alla portiera della macchina.
Si raschia in gola, mi sputa il sangue infetto in faccia.
Non ho più parole adesso, per qualche istante resto senza parole e senza gesti in uscita. E’ l’istante sospeso che dura a piacimento di un dio cattivo, quello in cui il buio collassa, quello di cui non resta traccia e che porterai sempre con te.
Torno al mondo, al respiro trattenuto, lui è già al camper, e prende qualcosa dal cruscotto. E’ una cosa lunga, sottile e trasparente. Mi è tornato il gesto, la portiera si apre, salgo, e in un solo movimento chiudo con uno scatto e metto in moto, lui è già lì, fuori dal finestrino che picchia, con la sua siringa in mano.
La sera che lo avevo conosciuto mi aveva regalato un libro di pensieri, immagini, novelle. Parole come di un sotto terra ignoto, come di una lingua sepolta viva.
Si intitolava “Ich sterbe”, il libro. Io muoio.
Quell’amica che mi aveva detto del suo male, e che mi ha detto poi della sua morte, ha bruciato il libro nel fuoco, come per una purificazione.
Io ce l’ho ancora, nascosto dietro ad altri libri. Ho seppellito quel linguaggio scuro sotto terra di parole.
Lui, finalmente, vulcano spento.
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ben scritto, non sa di “vecchio”. è attuale.
@Marco
come è crudo questo racconto!
faccio fatica a legarlo in un tutt’uno….non so spiegarti meglio….
è molto triste pensare che sia accaduto.
lo sconvolgente dei tuoi racconti è che hanno il sapore del vero, dell’accaduto, e spesso dell’irreparabile. E io mi sento monco, che non ho mai vissuto esperienza così, in contesti così.
Caro Marco,
mi sono riletto il pezzo sulla pedofilia alla luce delle ultime notizie. Non avevi tutti i torti, anche se conservo delle riserve.
Un saluto.