Avo
di Domitilla Di Thiene
Avo ha una passione da qualche anno, una cosa che tutti credevano morisse dopo poche settimane e invece oramai è tanto che va avanti e si sono dovuti arrendere.
“Guarda un po’ se ti doveva venire un figlio scienziato” è il modo con cui il padre di mari commenta con sua madre, e avo ne è molto orgoglioso. Il nonno di avo, il padre della madre, era un medico, un ematologo. Avo non lo ha mai conosciuto perché è morto l’anno della sua nascita, ma a casa sono rimasti tutti i suoi libri, in quello che era il suo studio e che ora è la sua camera. Avo li ha presi, prima solo perché vecchi, ingialliti, con il gusto di trovarci dentro qualche appunto personale, o qualcosa conservato tra le pagine. Poi mano a mano si è lasciato incuriosire dai disegni, a china nera, molto dettagliati, alla fine di ogni paragrafo. Ha iniziato dai disegni per la verità. Poi lo ha catturato anche la descrizione, dell’anatomia. I muscoli e le ossa, in particolare. Che ogni singolo centimetro del suo corpo abbia un nome, una funzione, e che sia proprio lì, può guardarla sul libro e ritrovarla all’istante sul corpo. Toccare con mano, la carne. Sul corpo di mari poi è ancora più facile e lei si presta di buon grado. Il corpo di mari gli è intimo da sempre, lo conosce palmo a palmo e non hanno pudore tra loro come solo i rapporti iniziati da bambini permettono. Mari ha un corpo magro, ossuto, la pelle chiara chiara che fa intravedere le vene. A volte pensa che ha iniziato a interessarsi di anatomia per dare un nome a quelle ossa, quegli incavi e spazi. Per dare un nome allo spazio della loro intimità. Non è priva di desiderio come attrazione, ma viene da prima e non la esaurisce. Avo poi con questo desiderio potente e confuso, che ha fatto capolino da anni ma che da poco riconosce del tutto, non ci ha fatto ancora i conti; cerca solo di tenerlo fermo e cerca di non farlo interferire nei suoi rapporti con mari, soprattutto. Mari si lascia fare tutti i suoi studi addosso, sdraiata sul letto seminuda, per lo più, a volte è anche interessata e lo segue in tutte le sue considerazioni (vedi? Si muove così e fa muovere così. ha anche un suo antagonista, cioè uno che fa esattamente il contrario del suo lavoro e ci permette di fare il movimento inverso.. non è fantastico?) non riesce a condividere del tutto l’entusiasmo ma riesce a partecipare, almeno finchè avo si concentra su muscoli o parti del corpo grandi, che anche lei può vedere. Poi c’è per esempio un periodo, lunghissimo per mari, in cui avo si concentra su tutta la muscolatura e le ossa del piede, e lì nonostante le buone intenzioni non lo segue proprio; cioè, gli lascia fare, gli lascia il piede da esaminare e girare a suo piacimento, salvo attacchi di solletico, ma intanto legge una di quelle riviste che avo definisce con disprezzo da femmine. Mari un giorno suggerisce ad avo di provare a portare questa sua passione a scuola, di non tenerla come solo interesse privato; avo è titubante ma ci prova, tutti i consigli di mari gli sembrano sempre molto sensati ma faticosi, in direzione contraria a una sua naturale tendenza all’isolamento. Ci prova, si mette d’accordo con il professore di scienze, porta tutti i suoi libri e dovrebbe fare una piccola lezione sulla muscolatura del corpo umano, un’ esposizione sulle cose che sta studiando oramai da mesi; il tentativo però non va a buon fine, i compagni di classe fanno battute sceme tutto il tempo, per lo più maliziose, sull’anatomia di mari e cose simili; e poi l’insegnante sembra avere difficoltà a spiegargli cosa esattamente sia la linea z dei muscoli; avo rimane deluso e un po’ amareggiato. Mesi dopo rimane peggio quando scopre che al ginnasio neanche esiste un insegnamento simile, la prof d’italiano gli dice in tutta tranquillità che deve aspettare il liceo, due anni interi, per il corpo umano.
Questo può essere già un motivo per cui avo inizia a considerare la scuola un luogo brutto, dopo un inizio più speranzoso; mari per la verità glielo dice già da un po’ che non è un granchè.
La campanella della fine della ricreazione ha già suonato quanto intravede mari in fondo al corridoio, con lo psicologo della scuola che la riaccompagna verso la classe. Gli va incontro e lei lo prende per mano come se volesse presentarglielo. Avo si sente improvvisamente a disagio, non sa neanche bene perché
“Ma da quanto vi conoscete voi due?” chiede lo psicologo, come se non ci fosse bisogno di altre spiegazioni
“Siamo gemelli” risponde mari, e gli da un bacio sulle labbra, veloce ma abbastanza da farlo diventare tutto rosso. La sfrontatezza che le ha sempre invidiato, pensa avo. Lo psicologo gli sorride, avo in questi momenti odia profondamente mari, e se ne va. E non ha neanche mentito, in fondo; sono nati a pochi giorni di distanza, e cresciuti praticamente insieme. Le foto, foto sgualcite, della polaroid in voga ai tempi, con una pessima definizione ma il gusto dell’immediatezza, li vedono insieme, tutti e due biondi che sembrano gemelli, nei primi passi, avvinghiati uno all’altro a sorreggersi. Mari si è trasferita vicino a loro che aveva appena un anno, cambiando città, proprio perché stessero insieme. Le foto avo le tiene gelosamente custodite nel cassetto delle cose importanti, in fondo e ben nascoste, come se non bastasse il lucchetto alla chiave. Ma di questo a mari non ha mai parlato.
A scuola mari ci rimarrà ancora per poco, pensa avo cupo, sono entrati insieme pochi mesi prima in quarto ginnasio, e ora mari è già pronta per andarsene. Lo psicologo mari gli ha detto che è uno in gamba; la segue da un po’, da quando la sua magrezza, ma è sempre stata magra mari che avo ricordi, è iniziata a diventare preoccupante, e le unghie nere e i vestiti strani e tutte quelle cose che preoccupano i genitori; la madre solo per la verità, il padre di mari è morto da poco, e i suoi non ha idea se se ne preoccupino o meno, avo non gli ha detto nulla.
La madre di avo e il padre di mari erano migliori amici. Da sempre. Ed è per questo che loro sono cresciuti insieme. Non che non avessero case distinte, e un altro genitore, ma hanno passato la maggiorparte del tempo l’uno con l’altro, e immancabilmente tutti i mesi di vacanza nella stessa casa, stessa camera da letto, se non stesso letto. Il padre è morto all’improvviso alla fine dell’estate e solo in questa circostanza avo ha capito del tutto cosa voglia dire, senza preavviso. Il giorno in cui è morto il padre, la mattina, avo l’ha accompagnata a farsi un tatuaggio, un codice a barra sul collo. Lei ha bisogno che lui le faccia coraggio, per il dolore e per fare un gesto che sente indelebile per la vita. Sono stati bene, quel giorno, in un periodo in cui invece sentiva mari sempre più distante. Una giornata ancora calda, settembre inoltrato, sono andati in un negozio in centro, che hanno detto a mari che è il più bravo. Anche se poi il disegno non costa molta fatica. Hanno superato brillantemente le pratiche burocratiche, mari ha portato una fotocopia di un documento della madre con la firma falsa e una copia scritta da avo in cui autorizza il tatuaggio, essendo lei minorenne
“Sei sicura che lo vuoi proprio lì?” gli dice il tizio che fa i tatuaggi, uno grosso pieno di disegni di ogni tipo, con un nome vezzoso, minni
“Sì” risponde mari, senza esitazioni
“Tra la seconda e la quarta cervicale” aggiunge avo, completamente ignorato da minni
“Guarda che fa male parecchio lì. Se vuoi te lo faccio sulla spalla, magari una cosa più colorata” mari lo guarda come a dire ma è tutto scemo questo. Avo soffre alla sola idea che gli colori parte della scapola (mari lì ha la pelle particolarmente sottile, avo ha studiato in tutti i modi come scorre sull’ osso, quando muove il braccio). Sono stati giorni a discutere di questo tatuaggio. Mari lo vuole proprio sotto l’attaccatura dei capelli e un codice a barre; lo ha visto in alien cube, un vecchio film che gli ha fatto vedere il padre, i protagonisti sono i carcerati di una colonia in un pianeta sperduto ed è assolutamente decisa a rifarselo fare uguale. Avo è preoccupato che le faccia male, di segni indelebili non un granchè, è preso dall’acne in questo periodo e che uno possa comunque scegliere se averlo o meno gli sembra una cosa bella.
“E il codice a barre di che, ti devo tatuare?” gli chiede minni, quando finalmente si è convinto
la domanda li prende alla sprovvista, in realtà non avevano mai pensato che il codice a barre è specifico di qualcosa, a pensarci è ovvio, ma lei ne voleva uno generico, il suo e basta, non di un oggetto in particolare. Si scambiano occhiate preoccupate e il tatuatore alza il pacchetto di sigarette, lì davanti
“Questo ti va bene? Uno vale l’altro, no?” gli dice
mari si consulta al volo con avo, forse è vero che uno vale l’altro, ma ha già la faccia delusa
“Aspetta aspetta” dice avo e intanto si fruga nelle tasche. Tira fuori un pacchetto sgualcito delle gomme da masticare, che hanno entrambi in bocca.
“Sìì, questo è perfetto, bravo avo” dice mari che si è riilluminata di colpo e lo passa al tipo che ha già il pennarello in mano
“Sicura?”
“Sicura” risponde, e prende la mano di avo
Inizia a disegnarlo col pennarello e poi passa la macchinetta. Mari gli pianta le unghie nella carne, ma non fa uscire una lacrima. Alla fine è paonazza, anche se non ci è voluto molto, e si abbracciano forte. Per strada, euforici. Mari per avere finalmente il suo tatuaggio, grondante sangue e coperto da un cerotto, avo per esserci stato, sentirsi testimone di un qualcosa che avrebbe accompagnato sempre il corpo di mari. Corpo che sente sfuggire, in quei giorni.
Si sono accorti dopo, tornando a casa, cosa lo fosse realmente, indelebile, e perlavita.
La madre in lacrime, alla porta. Avo che si sente un intruso, per la prima volta. Mari che non capisce, cos’è successo continua a ripetere, papà, le dice la madre, papà non c’è più. ma cos’è successo continua a dire mari e via in un crescendo di incomunicabilità che non si risolve. Avo assiste impotente, fino a quando arriva la sua di madre, a cui apre la porta lui. Lo guarda appena, entrando, gli occhi gonfi di pianto anche lei, e gli chiede
“Dov’è mari?”
“in camera sua, piange”
“io vado da lei, tu per favore vai a casa e chiama papà, che ancora non sa nulla.”
E avo così fa, obbediente. In quel momento, qualcuno che prendesse in mano la situazione gli sembra indispensabile, echissenefrega se quella è sua madre, e anche lui vuole essere abbracciato. Il padre invece non sembra essere scosso più di tanto
“fumava troppo” dice, improvvisamente laconico;
avo si trova solo, a pensare ai danni del fumo, al tatuaggio di mari e se voleva bene a quell’uomo grosso, che bacia troppo stretto sua madre e forse anche mari.
Mari poi va dallo psicologo quando tutto è cominciato da parecchio. Troppo per come la vede avo. Strano, il padre morto uno psicanalista famoso, e la madre non si è accorta che la figlia aveva bisogno di qualcuno. Ma forse avo drammatizza, così le ha detto mari. “Non sto male, è mia madre che vuole tornare a vivere a Milano ora che non c’è più papà, e mi usa come scusa”. Avo non ne è tanto convinto. Ma non è riuscito a parlarne onestamente con mari, si sono sempre detti tutto, siamesi li chiamano, due figli unici che insieme hanno trovato molto più che tra un rapporto tra fratelli. Ma di questo non riesce a dirle nulla. Ha paura che mari lo scambi per altro; per quello che forse anche avo ha pensato possa essere, gelosia. Mari è cresciuta più in fretta, si è fatta bella, ha iniziato ad avere mille interessi che lui non riesce a seguire. Già in terza media ha iniziato a sentire la differenza. Durante l’estate, loro due soli con le famiglie in un’isoletta spersa vicino alla Turchia, sembra tutto ricomposto, come prima e spera che sia stato solo un periodo. Ma con l’arrivo al liceo diventa tutto lampante. Mari si è subito ambientata in classe, fatto amicizia con persone che fino all’anno prima avrebbero preso in giro insieme, fighetti, li avrebbero chiamati. Attenti al modo di vestire, presi da mille pose e perennemente impegnati in quei giochetti di seduzione tra maschi e femmine che avo proprio non riesce a capire. Per lui esiste solo mari, che gli importa delle altre ragazze. Di fronte a lei sono tutte goffe, lagnose e bruttine. Lei si è immediatamente adeguata ai nuovi codici, ha preso a vestirsi di nero ed è andata in banco con una, una ragazza ripetente che si chiama alice e che sembra avere un’enorme ascendente su tutti. Ha sofferto come un cane quando gliel’ha detto, che voleva andare in banco con un’altra. Dopo otto anni in banco assieme. Una con la faccia bianca di cipria, un rossetto scuro scuro e una lacrima disegnata sotto l’occhio, come i clown. Delle bellissime scapole anche lei per la verità, specie a settembre che c’era ancora caldo e ha messo molte canottiere, scapole alte, acuminate sporgenti. Ma non bastano per perdonargli lo scippo di mari. Lei l’ha fatta passare per una cosa temporanea, una prova l’ha definita. Ma avo sa che non è così, e si volta ogni tanto a guardarla; è finita all’ultima fila, tra quelli che si considerano i furbi della classe, e non sanno che invece il secondo della fila centrale, il loro banco, è da sempre il migliore per non farsi vedere a farsi i fatti propri. Non ha più un compagno di banco fisso, e non gli importa averlo, anche se alcuni sembrano cercarlo. Di pari passo con la deriva trasgressiva di mari c’è un suo progressivo annichilimento, ma la sensazione che ha e che se di lei si sono accorti tardi, di lui probabilmente non lo faranno mai.
Il punto è che mari ha iniziato a non mangiare o, quando lo fa, a vomitare. Avo è sicuro di essersene accorto per primo. Ne ha sentito parlare dalla madre e le sue amiche, gente che mangia e poi vomita. Una patologia dicevano. Con mari mangiano insieme, lei sbocconcella qualcosa, sempre meno, improvvisamente la nutella non le interessa più, e neanche la pizza con i fichi, poi subito via in bagno, da cui torna con gli occhi rossi come dopo aver pianto e un vago odore acido in bocca. Non le dice niente ma si scambiano sorrisi complici e pensa che non è poi così grave se in quel periodo gli fa schifo il cibo. Egoisticamente pensa che gli stanno uscendo ancora di più le spine iliache, i due ossi sul davanti del bacino che avo adora, e poi anche lui non ama particolarmente mangiare, la considera più un’impellenza pratica a cui obbedire, tipo l’immancabile mangia la frutta detto da sua madre ogni volta a fine pasto. Però lei è dimagrita troppo e gli insegnanti ne hanno parlato con la madre, la madre con la madre di avo, poi lo psicologo e insomma hanno deciso che dopo il trauma della morte del padre le nuove amicizie non la stanno aiutando, insomma che era meglio per tutti se cambiasse ambiente. Per tutti chi? Il problema, o almeno quello che avo soffriva come problema era che mari non si opponeva per niente; come se la cosa non la riguardasse. A lui invece è come se gliela strappassero di dosso.
Non riesce a parlarne con lei, gli sembra più facile non pensarci, far finta che non stia per succedere. Mari invece a volte sembra far di tutto per avere una sua reazione, per metterlo di fronte al fatto. Quando fa dei programmi a lunga scadenza, come iniziare un album di figurine del wrestling da comprare a turno ogni settimana per i mesi successivi (ad avo non piace il wrestling, ha provato a guardarlo in televisione, ma gli sembrano ridicoli, energumeni che si sbattono di qua e di là, il suo interesse è solo per le immagini dei lottatori, i muscoli definiti a uno a uno) mari gli risponde, improvvisamente dura
“Mi sa che però lo finisci da solo, io sarò a Milano per allora”
avo allora si mette a toccarle la clavicola, anzi la fossetta subito sopra, come assorto
“Lo sai che il polmone sorpassa di un centimetro la clavicola? Te lo immagini? Qui sotto c’è un pezzettino di polmone, l’apice, con tutti i suoi alveoli, un po’ come una spugna a vederlo, che scambia l’ossigeno con l’esterno…”
“Avo mi hai sentito? Io sarò a Milano, non potremo farlo insieme quest’album”
“ e questo è l’unico punto dove non è protetto dalla gabbia toracica, le costole insomma” e dicendo questo scende con la mano seguendole sullo sterno di mari “Lo hai mai visto un polmone?”
mari fa un sospirone, lasciandolo esplorare il suo corpo
“forse sì, quello che Silveira prendeva per i gatti in campagna, ti ricordi? Volevi sempre mangiarlo anche tu” gli dice, arrendendosi
“E’ vero, sai che non me lo ricordavo proprio… oggi potremmo andare al supermercato a comprarne un pezzo.. secondo te lo vendono al supermercato?” E’ che non ce la fa proprio a parlarne.
Questi ultimi giorni passati assieme in realtà sono un calvario. Neanche la consolazione che mari, appena presa la decisione di andare a Milano non si fila più nessuno, in classe, è tornata a essere tutta per lui. Anche se poi a scuola ci viene poco, presa dai preparativi per la partenza, solo i giorni in cui ha i colloqui con lo psicologo. Se ha ritenuto doloroso il fatto di non averla vicina di banco, il non vederla in classe lo getta nello sconforto puro. Passa le mattinate che lei non c’è sbattuto sulla formica verde, facendo finta di dormire durante la ricreazione. A volte si addormenta sul serio. I compagni di classe lo prendono in giro
“Soffre d’amore” li sente dire quando gli passano davanti e cose del genere. Qualche ragazza invece prova ad avvicinarsi con l’aria della crocerossina, si siede accanto, fa domande; avo cerca di ignorare anche questo. Di tutto ha bisogno tranne che di una persona che non sia mari.
E poi il giorno della partenza arriva, e mari chiede ad avo se va anche lui alla stazione, per salutarla. Hanno spedito tutti i mobili e la madre è partita la mattina presto, con l’aereo. Mari è un po’ di tempo che dice che le fa paura, così hanno deciso di andare separate. Ad avo fa ancora più impressione, vederla così, con solo lo zainetto sulle spalle. Sembra debba andare in campagna dai nonni per il fine settimana, non una cosa definitiva. Prendono l’autobus e lei è euforica, parla in continuazione di come sarà la sua nuova vita, la casa, la scuola privata a cui si è iscritta
“E poi Milano è vicina alle montagne, potrò andare a sciare tutte le volte che voglio: Ti immagini? Magari faccio sega a scuola e invece di andare a piazza di Spagna vado a sciare..”
avo ha il muso lungo e cerca di non guardarla, i capelli davanti agli occhi. Forse neanche tanto puliti.
“Avo ma che hai? Non sei contento per me?”
“Certo. Sì. Sì” ma il suo tono di voce non è molto convincente
“Mi saluti tanto cami, con un bacio enorme? Mi mancherà un sacco, sai” cami è la sorellina piccola di avo, figlia del padre, dopo il divorzio. Ha appena un anno.
Avo fa di nuovo cenno con la testa
“Ma guarda che potete venirmi a trovare tutte le volte che vuoi. Sono solo quattro ore. Magari vengo anche io; certo forse i primi tempi sarà difficile”
Avo continua a guardare in basso e sente le lacrime che gli salgono; deglutisce forte ma la saliva gli va di traverso e inizia a tossire
“No no no” gli dice mari, che ha capito, e gli mette subito una mano sulla testa
Con mari fanno questa cosa quando uno dei due piange, ultimamente molto più spesso lei e di questo va molto fiero: si mettono la mano sulla testa, ferma, per consolare, quello che non piange a quello che piange; lo hanno visto fare in un documentario sui gibboni, che non piangono ma è come se lo facessero
“Ma io non sto piangendo” protesta avo, e gli occhi effettivamente sono ancora asciutti
“Bugiardo” gli dice mari, ma lo dice con il sorriso, e finalmente si riescono a guardare in faccia
“Ma credi che per me non sia difficile? Guarda che anche io sto male”
“E’ che non sarà più così, capisci? E’ che noi due non staremo più così” dice avo, e stavolta le lacrime iniziano a uscirgli sul serio, a rigargli la faccia, senza pudore
“E’ solo un periodo, avo, solo un periodo” gli risponde, ma inizia a piangere anche lei
Rimangono fermi, in mezzo all’autobus, tutti e due con le mani sulla testa dell’altro fino a quando uno scossone di una curva li fa sbattere sui sedili vuoti.
Davanti al binario la saluta con un bacio sul collo, mari glielo chiede sempre dietro il collo, anche da prima di avere il tatuaggio, e avo non dice nulla ma glielo da un pochino più in basso, tra la quinta e la settima, che è più sporgente. Quando poi il treno parte avo rimane fisso, imbambolato a vedere scene di addio e rincontri, al binario. Madre con figlio, fidanzata con fidanzato, genitori figli, colleghi di lavoro, militari, padre anziano e figlio molto giovane o nipote, amici in comitiva e ragazzo che va all’estero. Cane che abbaia, riesce a divincolarsi dal guinzaglio che la ragazza tiene in mano e insegue lungo i binari il treno e quella faccia e quell’odore che erano affacciati al finestrino e guardavano più lui che non la ragazza. Era anche saltato più volte abbaiando per raggiungere il contatto con la mano. Avo guarda tutti gli addii, passa da binario a binario a seguire le partenze dei treni e vorrebbe passare persona per persona a chiedere quando è previsto il ricongiungimento, perché tanto è sicuro che prima o poi arriverà, l’unico rischio ecco, è che quella ragazza si scocci di aspettare quel ragazzo con i capelli corti e lo zaino grosso, smetta di piangere, e prima o poi lo farà semplicemente perché è impossibile continuare a piangere in quel modo per più di un tot, questo avo lo sa bene, poi viene mal di testa e il muco che cola, a un certo punto ci si soffia il naso e ci si inizia a distrarre, prima per pochi secondi, e quando il pensiero torna sopra ci si sente quasi in colpa per essersene distaccati, anche per poco, come se bisognasse rispettare un’ assurda fedeltà, un attaccamento e concentrazione a quella forma di dolore, poi momenti sempre più lunghi, e il senso di colpa inizia ad attenuarsi, sempre di più, finchè non diventa invece fastidioso quando si riaffaccia, e insomma forse succederà questo forse no, ma avo vorrebbe sapere da tutti la data e il posto, l’ora in cui si rincontreranno, per esserci anche lui, anzi lui ci sarà anche se uno dei due non ci sarà, vorrebbe poter conservare la memoria di ogni singola separazione, custodirla intatta e aspettare la risoluzione, e poi guardarli in faccia, guardarli in faccia a lungo e chiedere se valevano la pena quei pianti lunghi e i singhiozzi, o gli abbracci, da cui un o dei due sta già guardando di nascosto l’orologio, è sicuro che ne valga la pena? Poi riesce a scuotersi e decide di andare a casa e solo allora si rende conto che fuori è buio, ha passato tutto il giorno a spiare altre persone, il loro dolore; si mette a correre, non solo per fare prima, gli sembra di aver bisogno dell’aria fredda che gli brucia nei polmoni, prendere spintonate dai passanti cercando di evitarli. Vorrebbe mettere un piede in fallo, cadere come la volta che si è slogato la caviglia che fa un male pazzesco, o rompersi un braccio, ulna e radio insieme, qualsiasi cosa pur di sentire un dolore forte, definito. Invece arriva a casa illeso, con il fiatone e tutto sudato a chiedersi come si fa senza mari
Giorni dopo arriva la febbre a stenderlo. All’inizio è quasi contento. Che il suo corpo risponda, segua il suo stato d’animo. Si mette a letto di buon grado, sopportando anche l’isolamento dalla sorellina. Ma gli bastano poche ore per sentire l’assenza di mari più forte ancora. Quando uno aveva la febbre in genere l’altro faceva di tutto per prendersela il prima possibile. Si passavano le posate, i bicchieri, si davano colpi di lingua o veri e propri baci anche se mari continuava a ridere mentre lo facevano, come quando erano piccoli e avo invece iniziava a confondersi un po’. Se non bastava, il sano dei due si bagnava i capelli con acqua ghiacciata e andava in giro possibilmente in bici e senza calzini. Se non bastava neanche questo l’unica era cercare di rimanere soli quando gli veniva misurata la febbre, per avvicinarla semplicemente a una lampadina. A quel punto i genitori si convincevano a farli stare insieme, a non annoiarsi mortalmente da soli a casa. L’ultima volta che era successo il padre di mari, che era medico, aveva dovuto tranquillizzare sua madre, che a mari era scappato il tempo con la lampadina e risultava un febbrone a quaranta benché la fronte fosse freschissima; un raro caso di dissociazione della temperatura fronto-ascellare aveva detto, salvo poi che quando erano usciti dalla stanza gli aveva fatto l’occhiolino, lasciandolo felice ma vagamente intimidito. Ora invece non c’è alcun trucco da fare, nessuno da ingannare, la noia dello star da soli non si risolve in alcun modo e il suo corpo l’ha ascoltato fin troppo perché oltre la febbre ha una gola infiammata con le placche sulle tonsille tale da non riuscire a mandar giù nulla, neanche la saliva.
Per natale si fa regalare un atlante di anatomia, il migliore, gli hanno detto; costa molto e fino all’ultimo è in dubbio se alla fine glielo prenderanno o meno. Tra l’altro serve un’azione combinata di padre e madre, cosa ancora più difficile da realizzarsi. Quest’anno è stato proprio chiaro, nella richiesta. L’anno prima anche ci ha provato, ma forse l’avevano preso come un capriccio o un desiderio vago e insomma gli era arrivato un monopattino dal padre e un aquilone dalla madre, che aveva ringraziato molto ma erano rimasti rispettivamente nelle due case a prendere polvere. Mari invece che è un genio sempre nei regali gli aveva trovato uno scheletro di gomma, piccolo e non granchè definito, ma avo aveva apprezzato molto l’intenzione. Da quando lei è partita poi, oltre tutto ha perso anche la sua modella, il suo vero oggetto di studio. E non ci capisce più molto sui libri di suo nonno, che non hanno neanche le fotografie. Gli hanno consigliato, un amico di scuola fissato del computer, un sito internet dove c’è un cadavere di un condannato a morte che hanno sezionato millimetro per millimetro. E’ andato a vederlo speranzoso, un corpo intero tagliato a pezzettini, ma ha solo avuto la conferma di una cosa che già sospettava, anche se in modo confuso: per lui l’anatomia ha a che fare con i vivi, ha a che fare con il corpo di mari o con il suo, sul cadavere di quel povero uomo ha rischiato di vomitare, prima ancora che l’immagine comparisse del tutto.
L’ atlante è fantastico, un libro enorme, dettagliatissimo; sono chiaramente dei disegni ma non lasciano nulla all’immaginazione. Capisce finalmente che cosa sia il peritoneo e il sistema linfatico. Il primo è definito sul libro del nonno come sierosa che avvolge e protegge gli organi vitali. Si è chiesto a lungo cosa sia una sierosa, esattamente, il suo aspetto e come facesse a difendere la vitalità di qualcosa; è un po’ deluso quando scopre che è solo una specie di pellicola sottilissima, tipo domopak, che tiene insieme l’intestino e molte altre cose. Si aspettava un po’ di più, come protezione, qualcosa su cui contare nei momenti difficili, per esempio, che se avesse conosciuto prima degli altri (era sicuro che i suoi compagni di classe non l’avessero mai sentito) avrebbe potuto aiutarlo. Scoperta più interessante sembra essere il sistema linfatico, anche questo descritto in maniera oscurissima sul vecchio manuale; e invece eccolo lì, un vaso bello grosso, verde, che attraversa tutto il torace. Si ripromette prima o poi di proseguire con il manuale di fisiologia, dove dovrebbe essere spiegato anche il funzionamento pratico, ma intanto averlo individuato gli da una bella soddisfazione. L’unico dispiacere di queste giornate intere passate sui libri è il non poterle condividere con mari, l’unica che lo avrebbe ascoltato di sicuro.
Passa molte giornata così, completamente assorto sui libri. Solo la sua sorellina, camilla, ogni tanto gli fa compagnia, se la prende sulle ginocchia e guarda con lui le figure colorate, ma si annoia presto. Poi un pomeriggio si decide a uscire; è sera quando torna a casa, nervoso; svicola tra le macchine in fila con il motorino della compagna del padre, lia, prestato per l’occasione; non sa se ha paura di aver fatto la figura dell’imbecille o di sentirsi lui stesso un imbecille. Per una volta che esco, pensa amaro. Si è deciso ad andare con alcuni compagni di classe in un centro sociale. Quando gli hanno detto il nome avo ha finto di conoscerlo ma poi ha dovuto chiamare per farsi dire la via, e cercarla sul tutto città. Si è deciso perché non ne può più di stare a casa, persino cami spesso esce il pomeriggio con la babysitter e lui rimane proprio solo. Ci vado e magari mi diverto pure, ha pensato e poi in fondo poteva sempre andarsene prima. Quello che lo stupisce quando arriva è il buio, c’è la musica forte e non sembrano le quattro del pomeriggio. Guardandosi in giro gli sembra di non conoscere nessuno, ma non vuole mettersi a cercare i suoi compagni di classe, non vuole che si accorgano che li sta cercando, quantomeno. Va al bancone ed è indeciso se prendere una birra, che gli piace e ce l’hanno tutti in mano ma sa che poi gli viene mal di testa, o un succo di frutta. Ma poi non gli piace neanche tanto, solo quelle dolci e invece c’è solo la chiara normale, amara come il fiele. Si decide a chiedere un succo di frutta .
“Ce lo portano stasera, per i cocktails, gli dice la ragazza al banco. Vuoi qualcos’ altro?”
“No, grazie. Anzi sì, una birra piccola per favore”
“Abbiamo solo i bicchieri così” dice lei, e gli fa vedere un bicchierone di plastica piuttosto grande, “Se no abbiamo il vino sfuso se vuoi” no, il vino gli fa proprio schifo.
“Va bene questo, grazie” gli da i due euro e mezzo che ad avo non sembrano pochi, e si mette a sorseggiarla. E’ tiepida, e gli sembra ancora più cattiva del solito.
Attraversa la grande stanza in cui alcuni hanno iniziato a ballare, spintonandosi. Non si guarda in giro, la sensazione di tutte quelle masse muscolari che si scontrano gli da un vago senso di nausea; vuole solo raggiungere lo spazio all’aperto che intravede da una parte. Un suo compagno di classe gli si fa avanti ballando, dandogli una spintonata
“Avoooo” gli urla addosso “Sei venuto alla fine”
“Sì infatti”
“Andiamo fuori che ci sono gli altri” gli dice facendosi spazio nella calca
All’esterno ci sono facce conosciute di compagni di classe e anche di scuola, ma più grandi
“Eccolo qua, il furbo, non ci sta mai ma quando arriva si presenta al momento giusto” gli dice uno, e lui non capisce che intenda ma sorride visto che gli altri sono scoppiati a ridere.
“Tieni avobello, per oggi offre la casa, un premio che sei uscito con noi finalmente” il tono è amichevole, avo si chiede un po’ sospettoso perché quel tizio con cui a scuola non si sono mai scambiati la parola adesso faccia l’amico. Era diventato amico di mari però, o quanto meno parlavano a ricreazione, e avo aveva avuto la sensazione che a lui piacesse, anche parecchio
Gli mette in mano una cartina con qualcosa dentro, di quelle con cui sua madre si fa le sigarette. Rimane con il palmo aperto, il pacchettino in mano a fissarlo senza capire
“Avo si ringrazia almeno, sai? Una pasta, tutta per te” avo continua a non capire. Che caspita è una pasta? Srotola il pacchettino e trova una pasticchetta piccola piccola, tipo quelle al fluoro che davano a lui e a mari quando erano piccoli.
“Dai avobello, manda giù” gli dice, mentre a sua volta si porta alla bocca qualcosa e vede che anche gli altri, che forse aspettavano quel segnale, si infilano in bocca le pasticchette e prendono sorsi di birra. Mi sa che è un extasy.
“Ma è pomeriggio” protesta, come se lui avesse preso pasticche solo dopo cena fino a quel momento
“Embè? Ti sballi un po’ d’ore e poi vai a nanna, no? Domani mattina fresco e riposato in classe, secchione che non sei altro”
ce lo ha fisso piantato davanti; ha l’osso della fronte, il frontale, molto bombato, sporgente. Chissà se c’è subito il cervello o ha dello spazio in mezzo; intanto anche gli altri lo guardano; non gli rimane altro che ficcarsela anche lui in bocca con una sorsata di birra. Così fa; ma chissà come mai, la pasticca si infila accuratamente tra la guancia e un dente, in fondo in fondo, ben stretta. E’ amara
“Bravo avo, dai che ora si va a fare casino” dice sempre quello, di cui non si ricorda il nome o forse non lo ha mai saputo; si muovono tutti verso il capannone
rimane fermo, la pasticca amara che si sta iniziando a sciogliere
“C’è un bagno?” gli urla dietro
“Ma che ti frega, vai per frasche” gli risponde uno
inizia a camminare verso la fine dello sterrato, dove inizia una specie di canneto, e si fida a tirarla fuori dalla bocca solo quando è abbastanza lontano, per paura che lo vedano. La mette rapido nella cartina che ha ancora in mano e se la infila in tasca. Poi rientra, facendo finta di nulla ma sentendosi strano. Va via poco dopo, senza farsi vedere, certo che c’ero, è solo che non vi ho visti più, dirà il giorno dopo ai compagni di classe; è di cattivo umore, con una gran voglia di arrivare a casa.
Quando arriva si sdraia sul letto, si sente stanco e gli gira la testa; e non ho neanche preso quella roba, pensa se, dice tra sé e sè. Dai vetri della finestra chiusa passano i rumori del traffico, la luce quasi calata del tutto. Camilla entra in stanza, gattoni. Fa già qualche passo da sola ma preferisce spostarsi ancora carponi. E’ impegnata nei movimenti e alza la testa solo quando è vicina al letto. Gli fa un sorrisone
“Avoavoavo” dice, un suono indistinto, il suo nome ripetuto senza stacchi
“Cami, tesoro, vieni qui, dai” la bimba non se lo fa dire due volte e riprende la sua corsa; arrivata al bordo tende le braccine per farsi tirare su
“Hai fatto la pappa bimbetta?” lei lo guarda fissa, adorante
“Era buona la pappa piccoletta?” con camilla non si vergogna a fare le vocine, a essere tenero senza pudore. Come con mari anni fa, pensa con una punta di dolore
“Camiiii. Avooo è da te camilla?” è la voce di lia, dalla cucina
“Sì, non ti preoccupare sta qui con me”
“Guarda che ha appena mangiato, non la strapazzare troppo”
“No, stiamo solo un po’ qui” risponde ad alta voce
“Ma tanto lei non ci vede vero cami, noi possiamo fare quello che ci pare” dice quasi sussurrando alla bimba. La loro specialità sono tutte le varianti del volavola, sopratutto quella a testa in giù roteante che camilla sembra gradire in modo particolare.
Le fa il solletico sulla pancia e lei ride forte poi è la sua volta di assalirlo e gli da un morso sul collo con i terribili quattro incisivi, due di sopra e due di sotto. Risposta di avo un’altra scarica di solletico. risate fragorose. Continuano così a lungo. Poi ad avo inizia a girare la testa e non si fida a tenersela sul letto; la mette giù, e si stende un po’ la testa affondata nel cuscino. La bimba razzola intorno. La sente che rovista nelle scarpe che si è levato entrando
“Cami no, sono sporche” le bofonchia dal cuscino
poi la sente dirigersi verso la sedia. E’ ghiotta di chiavi, e lui ha appoggiato la giacca con le tasche proprio alla sua altezza.
“Cami no, mi spiace, mi sa che le ho lasciate all’ingresso stavolta” la bimba non dice nulla e la sente ciancicare un pezzo di carta
un pensiero gli attraversa il cervello
“Cami, cami, cami che stai facendo, cami che ti sei messa in bocca? Cazzo cami dimmi di no, dimmi no, vieni qui da avo, buona, fammi vedere, cose ti sei messa in bocca, cami, cami” la voce è in crescendo di panico. Con la mano intanto rovista nella giacca, tra le varie tasche, dov’è, dove cazzo l’avevo messa, dove l’ho messa. Non la trova e la cartina che ha tirato fuori dalla bocca della bambina assomiglia terribilmente a quella in cui l’aveva messa.
prende camilla da un lato e se la piazza davanti
“Cami hai preso una caramella vero? Cami apri la bocca da brava, fai vedere ad avo” la bambina si divincola, morde le dita di avo che si infilano dentro. Non c’è più. Avo insiste, forza la piccola apertura e la bambina si mette a piangere
“No cami no, zitta” prova a dirle, ma è troppo tardi, sente lia che si avvicina
“Avo che state facendo? Ti avevo detto che ha appena mangiato, di non fare giochi violenti” si è affacciata allo stipite della porta, ed ha la voce più annoiata che arrabbiata
“No lia tutto a posto, vedi ha già smesso” è vero, camilla si è asciugata un lacrimone che le scendeva dalla guancia, e guarda la madre con un’aria assonnata
“Dai cami vieni qui che è ora di nanna; basta giocare con avo”
glielo dico, non glielo dico, glielo dico non glielo dico, si incazzerà da morire, ma magari non è vero, forse mi è cascata in motorino, ma cosa potrà mai farle una pasticca già mezza succhiata, si fa un viaggetto anche lei, quello che io ho avuto paura a fare, si incazza da morire, glielo dico non glielo dico, mi ammazza, glielo devo dire
“Cami dai vieni in braccio, andiamo a nanna”
“Lia” la voce è uscita strozzata, più di quanto avrebbe voluto
“Avo che c’è, dai, deve andare a dormire adesso” ma lo guarda fisso e inizia a notare un’espressione strana: avo è diventato improvvisamente terreo, gli trema il labbro inferiore come quando sta per piangere; vuole parlare ma non gli escono le parole
“Avo che c’è, ti senti bene?”
“Lia, cami…”
“Cami cosa avo? avo, dimmi, che è successo?”
“Cami ha preso, ha preso un cosa…”
“Avo che dici, di che stai parlando? Guarda che mi spaventi così; non sarà mica uno scherzo”
devo
“Cami ha preso un pasticca dalla mia tasca della giacca”
“Una pasticca?”
lia lo fissa interrogativa, sembrava non capire
“Sì una pasticca, una pasticca di, sì, insomma di droga”
di droga? Come gli era uscita quella parola di bocca? Non aveva mai pensato alle pasticche come droga, droga era una parola di quando erano bambini, i drogati erano lo spauracchio delle sue elementari, quando gli dicevano di stare attenti ai drogati che venivano fuori scuola a regalargli le caramelle.
già, le caramelle, forse era a quello che si riferivano, non ci aveva mai più pensato.
“Ecxtasy? Mia figlia ha preso un’ecxtasy?” ecco, forse lia ha le parole più giuste
“Sì. Sì mi spiace, non è colpa mia, era nella tasca, me l’aveva data un amico, ma non so come è successo”
“Mio dio mio dio mio dio, dobbiamo fare qualcosa, dobbiamo andare in ospedale dobbiamo fare qualcosa. Come sarebbe a dire che non è colpa tua? Stronzo! delinquente! porti l’ecxtasy a casa a mia figlia e non è colpa tua?”
avo, tiene la faccia bassa, sente le lacrime uscire e cami inizia a strillare, impaurita dalle urla della madre.
“Che cosa faccio adesso, mi dici cosa faccio?” è nel panico, fa roteare camilla di qua di là strattonandola per un braccio
gli viene un lampo di lucidità, di quelli che capitano poche volte in simili situazioni, ma ci aveva pensato nel pomeriggio, poche ore prima, che se fosse stato costretto a ingoiarla davanti ai suoi amici poi sarebbe andato subito a vomitarla
“Vomitare, falla vomitare”
“E mi dici come faccio a fare vomitare una bambina di un anno? Le dico di mettersi le dita in gola?” ma ha capito anche lei che è una buona idea, e mentre ancora parla afferra per le spalle camilla, ormai paonazza per le urla che manda, loro parlano sopra la sua testa e urlano ancora di più per sentirsi
prova a infilargli le mani in bocca, ma la bimba serra la mascella singhiozzando
“Cami, cami stai tranquilla, vieni qui da avo” le dice e la bambina va a rifugiarsi fra le sue braccia, terrorizzata.
“Dobbiamo fare una cosa adesso cami, un gioco, adesso la mamma ti mette le mani in bocca, e tu la apri, così da brava” cerca di parlarle con voce calma, mentre le tiene ferma la faccia con due mani
“E ora come faccio? Come faccio?” lia non riusciva a sembrare rassicurante
“Eppure nel vomitare dovresti essere brava” gli esce di bocca, dal nulla. Come cazzo mi è uscito come cazzo mi è uscito, fatti i fatti tuoi, devo farmi gli affari miei.
“Scusa?” lia si blocca, le mani sulla bambina, a fissare avo, incredula
“Hai sentito” risponde lui, la faccia bassa. Se non altro era servito a far scendere il tono della voce a entrambi
lia diventa paonazza e continua a guardarlo le dita infilate per metà nella bocca della figlia
“Hai le mani troppo grandi, lascia, faccio io. Tienila ferma tu”
sa dove toccare, gli è già successo con un amico ubriaco, ubriaco ma abbastanza sobrio da dargli precise indicazioni su come fare. Stranamente gli faceva impressione farselo da solo. Era lì in fondo, deve toccare quella parte morbida del palato dopo le parte dura, prima delle tonsille. La bambina ha un conato e inizia a tossire, cacciandogli fuori la mano
“Così, bravo, ce l’hai quasi fatta” lia è concentrata ora, immobile a tenere camilla che è diventata anche lei improvvisamente silenziosa
“Sì, ora ci riprovo, tienila bene”
riinfila la mano, fino giù. La mandibola è un osso unico, che si articola sul mascellare. Negli esseri umani l’apertura è limitata dalla forma dell’articolazione. I coccodrilli per esempio, che ce l’hanno con la forma quadrata, aprono molto di più. Cami cami, perché non sei un coccodrillo, solo per oggi. Ha le dita sottili, da pianista gli hanno detto. Ne infila solo due, forzando appena. Ha la sensazione di qualcosa di umido e profondo. I pochi denti. Palato molle, palato duro, pilastri tonsillari, proprio lì, a lato. Forse una volta per gioco era successo anche con mari. Insiste sul fondo, ignorando i conati che salgono. Poi la bambina getta la faccia in avanti e si sente investire la mano di una poltiglia calda.
“Brava cami brava, così”
“Dai amore mio, continua” dice lia. E’ una strana scenetta di incitazione, la pappa ingerita poco prima che si sparge sulla moquette e sulle loro scarpe.
“Guarda se c’è, guarda se c’è lì in mezzo”
si china per guardare meglio, le dita in mezzo a tastare la consistenza. La pastina quasi intera; nel complesso non aveva quell’aspetto schifoso che avrebbe dovuto; neanche l’odore; forse perché è di cami pensa.
“Eccola, è questa” si riconosceva oltre che per il colore, aveva perso il rivestimento che la circondava ed era più scura, per il fatto che era l’unica cosa dura. O sua sorella ha ingoiato anche un bottone nel frattempo o l’hanno trovata.
“E’ intera, è completa voglio dire” e mette la piccola sfera in controluce, per farle vedere i contorni
“Sei stata bravissima amore” disse lia chinandosi su camilla.
la bambina è rimasta a guardarli, il viso paonazzo e gli occhi lucidi per lo sforzo
“Brava brava brava” aggiunge avo e si trovano a stringerla, abbracciandosi a tre. Le loro facce si incontrano al di sopra dei ricci di cami
“Non la dire la cosa del vomito però” gli dice, l’espressione complice,
“Non dirla soprattutto a tuo padre” aggiunge
“E tu non dici questa della pasticca?” risponde, scherzoso
la faccia di lia diventa improvvisamente dura, lo sguardo cattivo
continuavano ad abbracciarsi ma sente la sua mano che gli preme sul braccio con un’insistenza non più naturale
“Ho vomitato dopo quella febbre intestinale che ho avuto. e ora esci da questa casa” la voce ha cambiato tono, non lo guarda più
“Cosa vuol dire esci? Lia io abito qui, con voi”
“Non più da stasera. Metti insieme i tuoi stracci e vai da tua madre”
avo si è staccato dall’abbraccio ed è ora in piedi, accanto alle due ancora strette
“Non possono vivere insieme i drogati e i bambini”
Avo è in piedi, guarda cami che lo guarda spaurita, rassicurata dall’abbraccio della mamma; vorrebbe stare lì; vorrebbe solo rimanere lì con lei. Si guarda intorno, la stanza stracolma delle sue cose. Prende la giacca dalla sedia ed esce sbattendo la porta.
sul pianerottolo gli arriva la voce di cami che ha riniziato a piangere.
“Sei tornato?”
La madre è nella semioscurità, in salotto. Avo scommetterebbe anche senza guardare che sta facendo i ching; la madre da sola la sera a fare i ching, un classico che si ricordi
“Sì” risponde secco, non gli va di parlare, non gli va di parlare con lei
“ma come mai? Cosa è successo?” la madre lo ha seguito ed è arrivata in camera da letto con lui
“Non lo so, mamma non lo so cosa è successo”
“ma dimmi, dai, prova a raccontarmi almeno; non mi racconti mai nulla”
La madre in versione diciamoci tutto, cosa rara in realtà, vista la sua perenne distrazione soprattutto negli ultimi tempi. La guarda un attimo, di sfuggita; è invecchiata sua madre: i capelli grigi, che prima sembravano un vezzo su un viso giovanile, si sono fatti numerosi, e non stonano con il resto. La pelle sugli zigomi assottigliata, trasparente.
Lui si sdraia sul letto, le case cambiano ma non la mia posizione pensa, lei si è avvicinata e si siede accanto
Perché mi sta addosso, perché mi sta addosso ora
“E’ colpa di ossetti?”
Si guardano un attimo; la madre chiama così la compagna del padre, all’inizio era un gioco, ma ormai è diventata una tale abitudine che deve stare attento a non usarlo davanti a lia, o a suo padre.
Forse ha ragione la madre, pensa, forse è proprio così
“Sì mamma, avevi ragione tu, sai, è proprio una stronza”
“Non parlare così, anche se è ossetti” ma lo dice ridendo, lo deve dire e basta.
“ma sì, non si capisce che vuole, prima fa l’amica..”
“fa l’amica con te?” la madre si è fatta attenta, deve andarci cauto, sa che parlare di ossetti con lei è un campo difficile,
occhio che poi interviene pure papà e diventa un casino
“ma no sono io che ho fatto un casino, con cami”
“Cosa hai fatto con la piccolina?” per una strana alchimia la madre adora camilla.
“No, nulla, è che ero stanco e avevo una pasticca in tasca..”
ecco l’ho detto
“Una pasticca di che?”
lia è più sveglia
“mamma come una pasticca di che? Dai insomma di droga” la madre rimane impassibile, e fa un cenno di assenso con la testa come a dire di proseguire
Ma perché mamma è così imprevedibile, ora le va bene anche l’extasy
“Sì insomma e cami l’ha presa e allora..”
“Cami te l’ha rubata?”
Sta proprio in un altro mondo
“No mamma, non è che l’ha rubata, cioè sì me l’ha rubata, ma è che se l’è ingoiata”
“Può farle molto male” dice la madre con un tono di voce assolutamente quieto
“Sì lo so e infatti poi l’ho fatta vomitare”
“Tu l’hai fatta vomitare?” gli chiede, quasi con un tono fiero
“Sì, infatti ho pensato che era l’unica cosa”
“Hai fatto bene”
“E poi, e poi insomma un casino, lia si è arrabbiata e mi ha cacciato di casa”
non riesco a tradirla anche se è una stronza
“Bè, per fortuna che è finito tutto bene. Ma tu ora come ti senti?”
“Oddio mamma cheppale ma come vuoi che mi senta, non fare sto tono che non sono un tuo paziente”
“Va bene, come vuoi. Adesso però vai a dormire che è tardi” lo fissa un attimo e aggiunge
“Sono felice di averti a casa” dice, con tutta la naturalezza del modo, come se non ci fosse niente altro da aggiungere alla storia che ha appena raccontato, ed esce dalla stanza.
Oddio mia madre sta proprio fuori di testa.
Dorme un sonno confuso, incerto; si sveglia varie volte, chiedendosi dove sia. Pensa di essere in qualche letto con mari, ma immancabilmente diventa cami e poi il contrario e di nuovo in una girandola di corpi che si scambiano. Morbido paffuto piccolo intimo, ossuto adulto da poco estraneo. Si sveglia madido di sudore, con il sole che fa capolino dalle finestre che non ha chiuso. Ha ancora sonno ma si sente inquieto, è felice di potersi alzare, far qualcosa. Persino di andare a scuola.
La telefonata del padre arriva nel pomeriggio, poco dopo essere tornato. Proprio mentre pensa che non gli piace per niente stare lì, neanche un po’. Non gli piace che non c’è cami, e la poca luce, la madre che vuole sempre le imposte accostate e che deve stare attento a rispondere al telefono che sono quasi sempre pazienti per la madre. Persino il gatto che avevano da quando avo era piccolo è morto, l’anno prima. La madre poi è vero che lavora sempre, ma è sullo stesso pianerottolo e può piombare a casa quando meno te l’aspetti. Appena sente la voce del padre vuole dirglielo, fammi tornare, fatemi tornare da voi
“Papà!”
“Gustavo credo che dovremo parlare noi due” cazzo, il nome per intero è un brutto segno; gli viene un dubbio, un attimo
“ma cami sta bene?”
“Sì per fortuna, nonostante te, si potrebbe dire” scandisce le parole a una una, come avesse paura che avo non capisse.
“Sì papà scusami, è stata una stupidaggine; però poi ho avuto l’idea di farla vomitare..” aspetta speranzoso della stessa reazione della madre ma dall’altra parte non c’è alcuna reazione
“.. e per fortuna ci sono riuscito” è un po’ deluso, ma non vuole farlo sentire
“Hai idea di quanto sia grave quello che hai fatto?” il tono è molto duro, nuovo per il padre. Se lo ricorda con quel tono con lui solo una volta al mare, erano andati insieme in una grotta a esplorarla e lui ci aveva messo un po’ troppo a tornare, preso a inseguire i pesci. Quando era tornato si era preso una sgridata con i fiocchi, che gli era sembrata eccessiva al momento; solo dopo, con l’aiuto di mari, aveva capito che il padre si doveva essere spaventato.
“Lo sai che poteva morire?” no, morire a dire il vero proprio no, non ci aveva pensato
“O avere dei danni irreversibili al cervello?” in che senso, pensa fra sé e sé
“Lo sai cosa vuol dire avo? Danni irreversibili al cervello? Ti ricordi quella bambina in montagna, la figlia della padrona del rifugio?” un anno che erano andati a sciare, erano ancora piccoli, avevano conosciuto questa bambina, irene si chiamava, che aveva una testa enorme con gli occhi sparati fuori, e benchè fosse più grande di loro non capiva nulla e faceva dei versi bruttissimi. Non ci avevano dormito per notti, lui e mari, per la paura che gli faceva. Non ci può credere, non riesce a credere a quello che il padre sta dicendo. Lui ha rischiato di fare questo a cami? Per quella pasticchetta scema che i suoi amici prendevano come fossero tictac? Proprio così le chiamava drago, uno strabocciato che avevano in classe. “Mi passi una tictac. checc’hai una tictac. Mi sono preso un quintale di tictac avobello”. Non ci poteva credere. E poi come avrebbe fatto a gonfiargli il cranio. Ecco questo era perché non aveva avuto voglia di studiare la parte del sistema nervoso, il cervello, che era l’ultima ma non gli piaceva perché erano tutte cose che non si potevano vedere, che non si potevano toccare. Forse è un limite troppo grande questo che ho, pensa avo, non ha senso che non sappia cose così importanti solo perché non si possono vedere
“Avo perché stai zitto, non hai neanche nulla da dire?”
“No papà, è solo che, mi sembra strano, ecco”
“Vuoi dire strano? Strano cosa? Che sei tanto cretino da fare una fesseria simile e non saperlo neanche? O che tu sei strano? Strano nel senso di imbecille perso, irrecuperabile?” avo inizia a piangere a telefono, lacrime calde che gli colano giù per la faccia. Cerca di asciugarsele con il dorso della mano, anche se nessuno può vederlo, lì in piedi, appeso al telefono
“No papà, non è così, solo non lo sapevo, non lo sapevo e poi ossetti la lascia sempre in giro, io che ne so…” sente un grugnito dall’altra parte del telefono; sa cosa vuol dire; è un verso di stupore, stupore e rabbia che fa il padre quando è veramente incazzato nero. Ecco, questo glielo ha sentito fare solo con sua madre, prima di separasi. A lui non lo aveva mai riservato. Ho sbagliato, pensa, ho sbagliato due volte, ho detto ossetti e ho detto che non si fila cami. Che poi non è neanche vero tra l’altro. E lì avo per una volta, la prima con suo padre, pensa che non ce la fa. Non ce la può fare a sentirlo urlare ed essere insultato. Deve staccare, prendere una distanza. Sta già piangendo e si sente uno schifo, il padre di solito è bravo a consolarlo, stargli vicino, sentirlo così proprio no. Ora no. Attacca il telefono. Sa che è un errore che non farà altro che aumentare la rabbia del padre, ma lo attacca ugualmente e si mette a piangere più forte, convulsamente, senza reprimersi. E può toccarsi la faccia, le guance e i capelli. Mentre piange gli viene rabbia, rabbia di tutto. Di cami che si mangia la pasticca e gliel’hanno detto mille volte di non mettersi in bocca tutto, di sé stesso che se l’avesse presa lui la pasticca ora non sarebbe successo nulla, idiota che non era altro, la sua solita paura, certo a drago non succedevano queste cose, non rischiava di ammazzare la sorellina, o di farla diventare un mostro perché se le prendeva lui le pasticche, quello che faceva ricadeva su di lui, e basta. Infatti il padre mica gli ha chiesto perché avevi un extasy figlio mio, no, non gliene frega nulla a papà se io mi prendo gli extasy, è solo che ha paura per la sua bambina, anzi neanche, visto che cami sta benissimo, (diomio diomio per fortuna cami sta benissimo, diomiodiomio grazie al cielo, sta benissimo), è solo colpa di ossetti, ecco sì ossetti che le rode che so che vomita, è ossetti la stronza che vomita, e a lei neanche la mandano a vivere a Milano, come mari, e la mano me la devo tenere da solo sulla testa.
ossetti frantumati. ossetti frantumati.
Piange per quasi un’ora, accucciato in cucina da dove ha risposto al telefono; quando si rialza si sente meglio, decisamente. Si guarda intorno in cucina, quasi non ricordasse dove si trova e apre il frigo e gli viene in mente di non aver pranzato. Ma la madre non cucina, esattamente come ossetti; la differenza è che ossetti ha una donna che ci va a cucinare e mettere in ordine, la madre neanche quello perché dice che non si sentirebbe a posto, come dice? ah sì, a posto con la sua coscienza etica. Che avo non ha mai capito bene che significhi. Comunque non c’è nulla da mangiare e lui ha fame. Improvvisamente ha una fame da lupo, un buco enorme dentro lo stomaco, e diventa l’unica cosa. Non c’è più cami o mari, ossetti sua madre, persino il padre diventa una figura sbiadita. Deve mangiare, deve trovare qualcosa, da mangiare. Trova il portafoglio della madre e prende dieci euro. Mentre infila di corsa le scale si ricorda che non ha cenato neanche la sera prima, forse è per questo che ora si sente un caimano nello stomaco. Gli secca un po’ che avrà sicuramente la faccia paonazza a macchie, gli succede sempre quando piange. Subito sotto casa della madre c’è un mac donald. Ricorda vagamente che durante un’assemblea si era detto che non bisognava andarci che è una multinazionale di quelle cattive sporche e luride, che affamano i bambini. Ma lui ha fame e basterebbe questo, anche se in più gli viene un pensiero assolutorio: una ragazza più grande, sempre a scuola, che raccontava che avevano assunto la sorella con dei problemi, non aveva specificato che tipo, aveva detto proprio così, con dei problemi, e che erano molto bravi quelli di mac donald, perché avevano questa politica nelle assunzioni. Assunzioni? Protette gli pareva che si chiamassero.
“Un big mac per favore” dice al ragazzetto. Che poi lì si chiamano con quei nomi che non ricorda mai i camerieri
“Un big mac o un big mac menu?”
“Un big mac” ripete, fermo. Ha ragione suo padre che dice che gli americani fanno finta di non capire. Ma il tizio che ha davanti non gli sembra molto americano, anzi, per nulla.
Aspetta che arrivi e lo divora lì in piedi, accanto alla cassa. Non è più ora di pranzo e il locale è quasi vuoto. Nonostante la fame di poco prima non riesce a finirlo. E’ talmente grande che alla fine il pane diventa gommoso e la carne fredda, il ketchup che esce inizia a fargli un po’ schifo. Butta l’ultimo pezzo e torna verso il portone di casa. Gli sale un senso di nausea e pensa tutto sto casino solo per un po’ di vomito.
“Ma da chi l’avrai mai presa tutta questa passione per le frattaglie..” il padre di mari spesso era stato il referente delle sue domande; quando si annoiava a rispondergli lo apostrofava così, il più delle volte ridendo sarcastico. Una volta si era stufato anche lui e gli aveva risposto, cosa che di solito, più per amore di mari che rispetto per l’età, non faceva
“Queste frattaglie come dici di tu mi sembrano molto più importanti di tutte le cose di cui voi parlate continuamente. Tu, io, mari siamo queste frattaglie, senza queste frattaglie non esistiamo, capisci?”. Aveva cercato di essere cauto nella risposta, e gentile; al contrario dei suoi genitori, più capaci di controllarsi, lo aveva spesso visto perdere le staffe, anche per cose apparentemente innocue. Quella volta invece si era messo a ridere, ma una risata cupa, come se significasse tutt’altro
“Tu prima o poi ci devi spiegare da dove ti viene questa cosa” come se ci fosse un posto preciso da dove potesse venire, o che potesse essere la diretta conseguenza di qualcosa.
Era il migliore amico di sua madre ed era stato molto presente nella sua vita. Ma non gli stava simpatico.
Il padre si fa sentire solo giorni dopo, e avo spera che la rabbia si sia sbollentata; se è rimasto dalla madre, senza far storie e subendosi tutta la sua depressione, è solo per la paura di doverci avere a che fare, di doverlo affrontare, visto anche il telefono in faccia, prima volta nella sua vita.
E’ la madre a rispondere a telefono ma avo capisce subito che è lui dai monosillabi che si scambiano, dal tono duro che la madre assume, improvvisamente. Sono seduti a tavola, avo ha cucinato un purè e ha scoperto che ci deve essere qualcos’altro nella ricetta oltre le patate bollite e schiacciate, alla madre di mari veniva molto più buono. Sente pezzi di conversazione
“Ah, sei tu”
“Sì, è qui”
“Perché?”
“Non so, è successo qualcosa?”
“No, va bene, adesso glielo chiedo”
Avo guarda la madre, che ha posato il telefono con una mano sul microfono e tiene lo sguardo basso. Rimane così qualche minuto, sorride anche guardandolo, mentre avo le chiede a gesti cosa stia facendo. Quando riprende a parlare capisce
“No, mi spiace, ha detto che non può, o che non gli va, non ho capito bene”
allora si alza e le prende il telefono di mano; la madre non oppone resistenza e continua a sorridergli
“Papà, sono io, scusa mamma ha capito male, cosa volevi?”
“Ciao avo, ci sei allora; io e lia volevamo sapere se potete venire a pranzo domenica. E lia dice se vuoi portare anche mari” il tono di voce è allegro, sembra si sia scordato tutto. Si sente sollevato, a parte la svista su mari
“Sì, va bene, mari però è a Milano, vive a Milano adesso, da un po’. Pensavo che mamma te l’ avesse detto” già che idea scema pensare che si fossero parlati; non si era ancora abituato all’idea di essere il loro unico tramite.
“Ah che bello” dice il padre, senza ombra di imbarazzo “Così la puoi andare a trovare”
cosa ci sia di bello lo sa solo lui
“Sì, cioè no, non ci sono ancora mai andato, però chissà, forse. Senti papà” vuole tagliare su mari, gli fa male parlarne, soprattutto con uno che sembra non capire “Ma com’è questo pranzo? è successo qualcosa? Cami come sta?”
“Oddio avo, sembri tua madre” allora fammi tornare da voi pensa avo “Che deve essere successo, è solo che ci fa piacere avervi a pranzo”
“Va bene, allora a domenica”
“Sì, verso l’una, e se vuoi portare qualche altro amico fallo pure” certo, perché sono intercambiabili.
Quando torna a tavola non sa se parlare con la madre dello scherzo di prima; si chiede come stia; a volte tornando da fuori ha la netta sensazione che la madre abbia appena smesso di piangere, le vengono anche a lei delle macchie rosse in faccia e sul collo; ma non riesce mai a chiederglielo, lo disarma subito con qualche atteggiamento stravagante, tipo chiedergli se gli va di andare al luna park insieme. Ha la sensazione che abbia un po’ perso equilibrio; non qualcosa di grave, o di irreparabile, una frattura scomposta su cui rimane un reumatismo, o una lieve zoppia.
Pensa a tutto ciò mentre la madre ricomincia a dirgli che il purè è buonissimo, e di come il cuoco sia un mestiere fantastico, che lo fa un fratello di una sua paziente e che ci vuole creatività e fantasia, doti che è certa siano presenti in avo, e tutte cose così per un purè che sono solo patate lesse schiacciate.
avo rimane un attimo a guardarla, sembra realmente entusiasta, e pensa che non c’è bisogno, non c’è bisogno di dire nulla.
La domenica la gioia più grande è vedere camilla. Gli corre incontro sul pianerottolo
“Ma cammini tu ora!” gli dice avo e la bimba capisce benissimo e ride, orgogliosa
“Lia è pazzesco, dieci giorni fa faceva pochi passi, a malapena”
il suo entusiasmo riesce a far passare in secondo piano l’imbarazzo dei saluti; anche la madre si china verso cami, ma si conoscono poco e la bimba si ripara tra le gambe di avo.
Era un po’ preoccupato di questo pranzo, temeva l’atmosfera tesa o che sua madre si mettesse a fare scenate. Davanti a cami però si scorda tutto
“Posso dargli la pappa io? Ha già fatto la pappa lia?”
“Sì avo mi spiace, se me lo dicevi la facevo aspettare” lia è sorridente, la vede di sfuggita mentre va verso la cucina ma gli sembra serena, anche un po’ ingrassata
“Però non la metti subito a dormire oggi vero? Lia mi senti? La teniamo con noi?” parla a voce alta per farsi sentire, ma si rende conto che ha un tono implorante. Non gliene frega niente, è sua sorella, avrà anche qualche diritto.
“Sì avo, per oggi facciamo un’ eccezione. Se però poi inizia a piangere per il sonno ci pensi tu”
“Sonno? Ma quale sonno piccoletta? Non ti azzardare” ed effettivamente a vederla così, ridere in continuazione sulle spalle di avo sembra difficile pensare che possa avere sonno.
Non si fila nessuno e lascia ai tre adulti la difficile impresa di interagire prima di iniziare a mangiare. Vede lia che cerca di essere il più disponibile possibile, la madre un po’ sulle sue e il padre, suo padre gli sembra diverso dal solito con lei. Più gentile.
Quando si siedono a tavola avo ha cami sulle ginocchia
“io non ho fame” dice subito, per paura che gliela facciano mettere giù
“Ma come, ti ho fatto fare le polpette al curry da Silveria” avo adorava quelle polpette; mentre ci pensa si rende conto dell’espressione della madre, un po’ sofferente. Forse l’intimità di quello scambio? Che da lei si mangia di schifo? Che non ha la più pallida idea dei gusti del figlio? Qualsiasi risposta gli sembra buona per farle venire voglia di un cambio di abitudini in casa, visto poi che nessuno fa segno a un suo eventuale ritorno dal padre, ma non vuole ferirla
“Magari dopo, grazie; possiamo andare a giocare noi invece?”
“Avo aspetta, dobbiamo dire una cosa”
eccola là, pensa avo. Allora abbiamo ragione che è successo qualcosa, e che non si gioca alla famiglia felice per nulla
“Lia preferisci dirlo tu?”
“Come vuoi, dai; non farla tanto lunga” lia sembra imbarazzata, ha guardato la madre di avo diventando improvvisamente rossa
“Camilla avrà un fratellino. O una sorellina, non lo sappiamo ancora”
Rimangono tutti zitti qualche istante
Un fratellino? Come sarebbe a dire un fratellino? Io sono il fratello di cami. Avo pensa questo in un attimo, ma poi si rende conto che è stupido e che il momento sta diventando antipatico, lia si è alzata di scatto e il padre continua a fissare alternativamente lui e la madre. Due anni prima la scena non era stata così, avo lo aveva saputo per telefono, dal padre, e gli era importato poco; ora però con camilla in braccio, sa esattamente cosa vuol dire
“Ma è bellissimo” dice alzando la voce, e il tono gli viene un po’ acuto, innaturale nonostante le intenzioni; tanto che cami lo imita immediatamente, dandogli una manata in faccia.
Basta questo per spezzare la situazione, la madre ride, anche lia si risiede con un pacchetto di sigarette in mano
“Ma tu non devi fumare adesso” dice incredulo
“Solo una avo, è meglio una che non che diventi isterica”
“Pensate che non ce ne eravamo accorti, lia continuava ad avere questa nausea ma pensava fosse qualche virus, magari cami al nido che porta a casa di tutto..” dice il padre
“Sì e poi vomitavo, sono stata proprio stupida, i sintomi c’erano tutti, nausea, vomito mattutino, un’improvvisa stanchezza..” mentre dice questo guarda la madre, a cercare un’intesa tutta femminile, ma avo si sente sotto il suo sguardo comunque e vorrebbe sotterrarsi, sotto il tavolo, sotto la tovaglia, ovunque. Quando è molto imbarazzato o in difficoltà prova sempre a fare questo gioco, per tirarsi fuori. Immagina le persone che ha davanti siano scheletri, o un ammasso di muscoli, o un insieme di vasi sanguigni come nella cappella di Napoli che gli è servita più di mille libri. Quando gli riesce, e più conosce le persone e più è difficile, scompare qualsiasi imbarazzo, rimane solo l’ammirazione per la meraviglia del meccanismo, stupore. Ossetti ha un bello scheletro. Cami è un ostacolo perché con lei non ci riesce proprio, né vuole farlo. Sul padre rimane un momento perplesso, non riesce a vederlo bene.
Intanto la madre continua a non dire una parola, ma sorride. Un po’ forzatamente forse.
Chissà perché hanno voluto che venisse anche lei, pensa avo.
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Bella quasta cosa di fare lezione di anatomia su un corpo vero!
esplorare bene la fossetta del giugulo ecc…