Palermo (1994-2007)

di Giorgio Vasta

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[Sono andato via da Palermo undici anni fa. Ieri a Palermo ci sono state le elezioni comunali. Ha vinto, ancora, Forza Italia. Mentre leggevo la notizia mi è tornato in mente un pezzo – estratto da un altro pezzo più lungo – che avevo scritto circa dieci anni fa, quando da Palermo ero andato via da pochissimo. Il pezzo descrive un episodio accaduto nel 1994 e racconta le macerie quotidiane, e un altro andare via. Mi sembra abbia qualcosa a che fare con quello che è accaduto ieri. gv.]

Ho incontrato Aldo dieci giorni prima della sua morte, di domenica. Per tre giorni consecutivi ci eravamo dati appuntamento e ogni volta avevamo dovuto rimandare. Ogni sera, circa un’ora prima di vederci, Aldo mi telefonava, mi diceva che non se la sentiva di uscire, era molto stanco, si era affaticato al lavoro, preferiva restare a casa, riposare. Si rimandava tutto al giorno dopo. Ne parlavo con Egle, Egle richiamava Aldo, gli chiedeva notizie, parlavano, scherzavano un poco. La domenica sera ci siamo incontrati. Aldo è passato a prendermi e insieme siamo andati a prendere Egle. Era una serata importante. Egle e io avevamo preso in affitto un appartamento nel centro storico, in un palazzo del Settecento, grandissimo, la vista sulle macerie dei bombardamenti. Costava pochissimo, duecentocinquantamila lire al mese. Non ci eravamo ancora trasferiti (continuavamo a lavorare e a studiare, avevamo pochissimo tempo), vivevamo ancora in famiglia ma da alcune settimane avevamo cominciato a portare le nostre cose dentro l’appartamento, cercavamo di dargli forma.
Era enorme. Era stato usato come associazione culturale, la sala più grande (circa dieci metri per sette, il soffitto a cinque metri d’altezza, le travi a vista; un parallelepipedo cavo, immenso, gelato, impossibile da riscaldare) aveva ospitato delle esposizioni. Avevo trascorso un’intera giornata a strappare chiodi dalle pareti. I chiodi erano dappertutto, a ogni altezza. Mi ero arrampicato sulla scala, strappare i chiodi mi piaceva, mi sembrava di liberare la casa, di farla respirare. A ogni strappo venivano via pezzi di muro, avevamo dovuto tappezzare tutta la stanza con la carta di giornale. Avevamo messo vecchi jeans, una vecchia felpa, avevamo riempito i buchi del muro con lo stucco, avevamo riverniciato le pareti con il rullo e i secchi di colore con il ducotone; con l’aiuto di mio fratello avevamo ripristinato l’impianto elettrico, avevamo passato la scopa e lo straccio per tenere tutto pulito, le mani ci erano diventate fredde e screpolate, avevamo la vernice sui capelli. Andava bene così, andavamo via.
Nella sala c’era una stufa in ghisa, una di quelle antiche, color ruggine, con il braciere sotto dove si accumula la cenere, lo sportellino basso per caricare la legna e il carbone e, sopra, la piastra per bollire formata da anelli di ghisa concentrici; c’era anche il tubo grosso che partiva dal corpo della stufa, correva in verticale lungo la parete, faceva gomito e penetrava nel muro, molto in alto (quando la stufa era accesa era bello uscire sulla terrazza e guardare il fumo che veniva fuori dal muro). Egle trascorreva molto tempo a occuparsi della stufa, la accendeva, la alimentava con l’alcol, i trucioli e la carta, aveva delle teorie per il mantenimento della combustione. Ma la stufa riusciva soltanto a riscaldare le mani se si stava vicini. Intorno alla stufa avevamo messo due poltrone e un divano, un tappeto, dei cuscini per terra, una cesta per la legna. C’era anche un omino appendiabiti, di legno e metallo. Il servomuto. In fondo alla sala avevamo montato un vecchio tavolo da ping-pong tirato fuori dalla cantina di casa dei miei genitori (quasi tutte le cose che stavano nell’appartamento erano state recuperate da quella cantina). Il tavolo da ping-pong aveva la superficie incurvata, i rimbalzi erano irregolari, il rumore rimbombava contro le pareti ma giocare riscaldava molto più della stufa. Con Aldo avevo parlato già tante volte di questo posto, gli avevo detto che la zona era molto bella, molto pericolosa.
Pur avendo vissuto fino ad allora sempre nella stessa città io non conoscevo il cosiddetto centro storico, non ci ero quasi mai andato e comunque sempre portato da qualcuno. Il centro storico – l’epicentro storico – confermava la mia idea sulla città, alimentava l’insofferenza e il disprezzo. Dopo essermene andato ho sempre evitato di tornare in quella zona. Soltanto la scorsa estate, dopo che da un anno vivo in un’altra città, trovandomi a Palermo per le vacanze mi è capitato di passare da quelle parti. Non ho tirato dritto, ho raggiunto la strada dove anni prima avevo cercato di abitare, mi sono guardato intorno: il portone d’ingresso era sempre divelto dai cardini e appoggiato contro il muro dell’androne; il quadro dei citofoni era spaccato, i fili elettrici sporgevano fuori attorcigliati; l’androne era buio, sporco, incrostato, pieno di rifiuti; ho preso la scalinata a sinistra, quella che porta all’appartamento. I gradini erano appiccicosi e secchi, pieni di cicche e lattine; lungo le scale gli ingressi originali sono murati, sono stati murati molti anni fa, si vedono ancora le cornici e i fregi in gesso intorno agli stipiti, gli stucchi con le crepe. Alcuni piani sono stati abbandonati, passando per le scale se ne scorge l’interno attraverso le finestre, si intravedono pezzi di legno e calcinacci, nidi di topi. Sono arrivato davanti alla porta dell’appartamento, ho visto le luci accese dentro, ho sentito le voci, adesso ci sta qualcun altro, non ho bussato, ho avuto nausea, mi sono voltato, ho sceso le scale, piano, l’odore di urina e di sperma per le scale. Ho pensato che questo posto resterà così per sempre, sterile e fertile – in questo posto lo sperma tenta di fecondare la pietra, la pietra è fertile, lo sperma è sterile – un posto fatto per andare via.
Durante il percorso in macchina, Egle e io abbiamo continuato a descrivere ad Aldo quello che dopo poco avrebbe visto. Aldo ha parcheggiato sulla strada grande, poi siamo entrati nelle stradine lastricate del centro storico, i rifiuti del mercato accumulati ai lati, poca luce, i gatti, i cani magri. Il centro storico è fatto di case bucate, di strade chiuse, murate dal comune perché impraticabili (i muri delle case sono pericolanti, sono puntellati con travi di legno: la gente abita nelle case pericolanti, si affaccia sull’intrico delle travi, alcuni ragazzini passano da una casa all’altra muovendosi in equilibrio sulle travi). Le case sono di tufo, pietra grossa, porosa, piena d’acqua. Questi pezzi di città frantumata sono abitati giorno e notte dai ragazzini del quartiere, appartengono a loro. I ragazzini scavalcano i muri, si aggirano tra le macerie, penetrano nelle case abbandonate, fanno scoppiare petardi, fumano, si masturbano, accendono fuochi, ammazzano animali. I ragazzi più grandi (i più grandi hanno circa dodici anni) nascondono tra le pietre le borse scippate, nascondono la droga, si nascondono, tagliano le dosi, si bucano. Quel posto è loro, la polizia lo sa, li lascia stare. Nel periodo in cui ho cercato di vivere al centro (forse mi ero fatto persuadere dalla fantasia topografico-psicologica di vivere al centro, nella scaturigine) ho camminato sui lastroni di pietra traballanti, strade sempre bagnate, anche di notte, intrise di acqua nera gettata dai secchi dei venditori di pesce e di frutta, piene di insetti, rotte, deformi, morsicate dal basso e dall’alto e da dentro, nere, il sangue degli animali sulle pietre sotto i banconi, le voci rauche, piene di cenere, le parole nere incomprensibili (io voglio che siano ancora incomprensibili). Ho attraversato i mercati, ho guardato la faccia della gente (in questo posto la gente non ha né un viso né un volto, ha soltanto una faccia) pensando che anch’io vengo da questo posto (ho paura di riconoscere in me anche un solo lineamento delle loro facce; ma penso che sotto la mia faccia ci siano le loro facce impastate: loro, che io odio, sono impastati alla mia carne). Da tempo ho risolto in disprezzo il disagio che deriva dall’essere nato in questo luogo (questo disagio è in buona parte determinato da ragioni personali nevrotiche come la già discussa insofferenza per tutto ciò che testimonia l’origine). Da questa provenienza ho tratto per anni l’umiliazione e l’orgoglio di potere essere discriminato (in realtà questa discriminazione è in piccola parte oggettiva e in gran parte soggettiva; essere discriminato o, più esattamente, sentirmi discriminato, desiderarmi discriminato, è stato qualcosa di cui ho avuto bisogno per giocare il gioco dell’identità, per sapere che io è quello che gli altri rifiutano; per anni ho fatto esperienza del sentimento della abolizione). Oggi so che dentro la rabbia e il disprezzo per questa città è cresciuta una carne forte e leggera, una tenerezza imprigionata nella rabbia e nel disprezzo; la tenerezza è fragile, non ha espressione concreta, non diventa mai visibile (ancora una volta compio una omissione, in me si compie una omissione), è una specie di forma tumorale in espansione (un tumore buono); rende soltanto più dolce l’impasto di carne sotto la mia faccia.
Ho guardato Aldo salire i gradini di marmo bassi e larghi, le suole che si attaccano e si staccano facendo rumore. Ho aperto la porta, siamo entrati. Faceva molto freddo, più del solito. Ho acceso la luce, abbiamo alzato gli occhi verso il lucernario interno (un cerchio del diametro di un metro e mezzo). Durante il giorno faceva passare una colonna di luce, da sotto si vedeva fuori (nello stesso modo, dalla terrazza superiore ci si affacciava sul lucernario e si guardava dentro la stanza). Adesso il lucernario era sfondato, una pietra era ancora incastrata tra i vetri, un’altra era caduta dentro la stanza in un grosso vaso pieno di piante che avevamo sistemato proprio sotto la colonna di luce. I ladri si erano calati dal lucernario ed erano saltati sopra le piante spezzandole. Intorno al vaso c’erano schegge di vetro e terra. Una cassapanca (un vecchio mobile nero portato fuori anche questo dalla cantina) aveva il coperchio sollevato, coperte e lenzuola erano state tirate fuori e gettate per terra. Ci siamo avvicinati: un lenzuolo azzurro avvolto su se stesso in un grumo era pieno di macchie scure, un ladro doveva essersi tagliato e aveva fermato il sangue con il lenzuolo. Abbiamo acceso tutte le luci, abbiamo fatto rumore. I cassetti della cucina erano stati tirati fuori e rovesciati, forchette, cucchiai e coltelli sul pavimento, dentro il lavandino. In una stanza c’erano delle scatole ancora imballate; erano state aperte e frugate, sembrava non mancare niente. Abbiamo controllato ancora, abbiamo guardato fuori, sulle terrazze. Alla fine mancavano solo un piccolo registratore a cassette (uno di quelli che l’AVIS dà in omaggio ai donatori) e una candela mangiafumo (la candela mangiafumo aveva una base di ferro lavorato, la cera era già in parte consumata). Abbiamo chiamato la polizia, è arrivata una volante, hanno guardato, hanno scritto, abbiamo raccontato. Hanno detto di andare il giorno dopo in commissariato per la denuncia. Sono andati via, siamo rimasti soli. Per tutto il tempo Aldo era stato seduto su una poltrona della sala grande, avvolto nel cappotto, in silenzio. Abbiamo deciso di mangiare qualcosa (non avevamo fame ma avevamo bisogno di un punto di riferimento), avremmo messo a posto l’indomani. Egle ha fatto cadere la pietra incastrata fra i vetri, ha aperto una finestra, ha gettato la pietra fra le macerie, ha raccolto le posate, ha cominciato a lavarle con il detersivo. A me faceva schifo toccarle. Sono andato a comprare delle pizze. Quando sono tornato, Egle aveva apparecchiato la tavola con i servizi all’americana, aveva messo una candela bianca in un piattino. Ha acceso la candela, ha spento la luce elettrica; ho pensato che non serviva. Ci siamo seduti, dal lucernario bucato passava l’aria fredda, la fiamma della candela si piegava da un lato, era sempre per spegnersi. Egle e io ci siamo coperti con i giacconi, Aldo ha cercato di spostare il tavolo dalla corrente. Abbiamo mangiato la pizza nei cartoni, io l’ho mangiata con le mani per non dovere usare le posate. La candela faceva una luce gialla, che si incurvava sulle pareti. Ogni tanto uno di noi gettava uno sguardo alla stanza. Era piena di ombre, anche la cassapanca sembrava un’ombra, anche le lenzuola e le coperte sul pavimento, anche il vaso, noi, le piante. Le ombre sembravano muoversi dentro, brulicavano. Era come se una fila interminabile di formiche fosse penetrata nella stanza. Le formiche avevano percorso le stradine lastricate, camminando le une sulle altre, precipitando nelle commessure, formando una specie di miccia. Tantissime erano affogate nell’acqua delle pietre, quelle che si erano salvate erano comunque un numero enorme, si erano arrampicate sul marmo delle scale, superando le alzate basse, rompendosi e ritrovandosi a ogni gradino, confondendosi fra loro, piccolissime, frenetiche. Avevano raggiunto la soglia, erano passate sotto la porta, la miccia si era rotta, si era allargata, era diventata una macchia brulicante, le formiche si erano separate (ramificate, diramate), erano arrivate in ogni punto della casa, ammassandosi per formare le ombre, camminando senza direzione sopra il pavimento, sopra la cassapanca, sulle coperte, dentro il lenzuolo azzurro, intorno al sangue del ladro, sulle gambe del tavolo, delle sedie, sulle nostre gambe, sulle braccia, sulla pelle del petto, fino a penetrare negli occhi, a sprofondare nella bocca.
Ci siamo guardati. Egle si è alzata, è andata a prendere una lampadina elettrica, siamo usciti in terrazza. Era tutto buio. Egle ha acceso la lampadina, l’ha puntata sui palazzi diroccati, facendo correre la luce ha cercato di disegnare il perimetro delle macerie, ha raccontato ad Aldo cosa aveva sentito dire di quelle strade. Una si chiamava via Terra delle Mosche, una via dei Morti. Intanto la luce passava sulle strade piene di detriti. Abbiamo visto poltrone sfondate, tubi di scappamento, un tegame, un pallone bucato, fogli di cellophane, il telaio di una bicicletta, un pezzo di lavandino che veniva fuori da un cespuglio, materassi per le puttane, pezzi di cornicione, la carcassa di un animale. La luce è penetrata in una casa spaccata in due nel senso della lunghezza, una sezione, un piano sopra l’altro, come nelle case giocattolo. Abbiamo visto piastrelle bianche e azzurre, un acquaio. Poi la lampadina ha illuminato l’interno di una stanza vuota, la carta da parati stracciata, una sedia impagliata caduta su un lato. La luce ha toccato lo spiovente del tetto, si è sentito un rumore e qualcosa è volato via: un pipistrello, ha detto Egle: un uccello notturno, ha detto Aldo. La luce è tornata sulle macerie. Ho pensato che se la luce fosse un dito bianco che affonda nelle macerie del suolo e le solleva, le porta in alto e ne fa un cielo, questo luogo sarebbe un altro luogo (e anche il cielo, forse, credo).
Ho sentito freddo, ho visto Aldo che si stringeva nel cappotto, guardava le macerie senza seguire il fascio di luce, da un’altra parte. Siamo rimasti in silenzio: la luce della lampadina è diventata meno densa, più fioca, porosa, si stava sciogliendo nel buio. Egle l’ha spenta. Abbiamo visto i nostri fiati bianchi, siamo tornati dentro. Ho guardato in alto, il soffitto a cinque metri, le pareti chiare. Per un attimo mi è sembrato di vedere anche i metri cubi d’aria della stanza. Prima di andare via Egle vuole mostrare ad Aldo il funzionamento della stufa. Aldo si siede nell’angolo del divano, a un metro dalla stufa, accanto al servomuto; io sto in piedi dalla parte opposta. Egle apre lo sportellino della stufa, sistema dentro uno strato di carta, trucioli, pezzi di legno, un altro foglio di giornale appallottolato, imbeve tutto di alcol, prende un altro foglio di giornale, lo avvolge a treccia, lo bagna con l’alcol, lo accende con un fiammifero, spinge il fuoco dentro lo sportellino. Dallo sportellino viene fuori una fiammata violenta, il fuoco avvolge i capelli di Egle (i capelli di Egle sono spessi e duri, molto lunghi, biondo scuro), comincia a bruciarli, Egle si ritrae, scuote i capelli, il fuoco si spegne contro l’aria. Si sente l’odore dei capelli bruciati. Mi avvicino, sono spaventato e irritato, non è la prima volta che succede. Dico qualcosa, non sei prudente, non fai attenzione, mi lamento ancora. Egle si tocca i capelli, guarda le ciocche bruciate. Aldo non ha detto niente, è stato seduto nell’angolo del divano con il cappotto addosso, immobile; all’improvviso porta indietro la testa, si torce, ride, un crepitio (sembra frantumare una lastra di vetro), poi la sua risata diventa muta, continua senza rumore, potrebbe essere un pianto. Egle guarda Aldo, sorride, scoppia a ridere anche lei. Li guardo sbalordito, Aldo sul divano, Egle in piedi accanto alla stufa: ridono senza voce, non riescono a fermarsi (guardo il servomuto equidistante dai loro corpi in torsione per la risata: non è più un oggetto, è un incastro di linee, una cosa che si sta perdendo). Penso che in loro ci sia la comprensione di qualcosa che io non sono in grado di capire (in seguito ho pensato che Aldo avesse compreso che quando si va via la voce è l’ultima parte del corpo che scompare; Aldo raccontava questo con una risata; Egle aveva capito, rispondeva). Li guardo, ridono ancora. La loro è una risata ignifuga, loro sono due incendiari.
In macchina, al ritorno, dopo avere lasciato Egle a casa, Aldo mi parla di un dolore che sente da alcuni giorni, una specie di bruciore sottopelle circoscritto all’area addominale. Mi chiede se penso possa trattarsi di un disturbo psicosomatico. Non lo so, è possibile. Non faccio più caso a quello che dice, continuo a pensare ai ladri, al sangue del ladro sul lenzuolo, alle ombre, alla casa contagiata. Aldo ferma la macchina davanti al mio portone, parliamo un poco (ho dimenticato l’argomento), mi dice in bocca al lupo per la casa, scendo dalla macchina. Ci sentiamo, dico prima di chiudere la portiera, ci sentiamo. Mi avvio verso il portone, non mi volto, non penso, sento il rumore della macchina che riparte, il rumore del portone che sbatte alle mie spalle. Sono stanco, sono secco e amaro, rabbioso. Non dormo. Appena fa giorno vado a fare la denuncia. Più tardi parlo con Egle, le dico che voglio andare via da quella casa, lei mi tranquillizza, mi dice di aspettare, le cose andranno meglio.
Dopo dieci giorni i ladri tornano, la notte prima della morte di Aldo. Non ci eravamo ancora trasferiti (a volte penso che non ci saremmo mai trasferiti; tutto consisteva in un trasloco senza fine, in una preparazione infinita), la casa era vuota. Questa volta sono entrati spaccando il legno della porta finestra. La polizia li ha fermati mentre scappavano per le stradine. Erano due, uno correva con il tubo dell’aspirapolvere in spalla, l’altro teneva tra le braccia un sacchetto pieno di posate (un poliziotto mi ha raccontato che nella fuga il sacchetto doveva essersi rotto e il ladro seminava forchette e cucchiai per il lastricato). È arrivata una telefonata alle quattro del mattino, mi hanno avvertito, io ho avvertito Egle, siamo andati. La polizia era già lì. Hanno raccontato che i ladri erano passati per le macerie, erano entrati in un palazzo abbandonato, avevano raggiunto l’ultimo piano, avevano calato una scala nella terrazza dell’appartamento e avevano spaccato la porta finestra (dopo che la polizia se ne è andata io ho rifatto il percorso dei ladri in senso inverso, tra le macerie e i detriti ho ritrovato alcuni nostri oggetti che i ladri avevano dovuto abbandonare quando la polizia li aveva sorpresi; ho pensato che le macerie sono fatte di tutti questi oggetti perduti; ho trovato anche il piede di porco che i ladri avevano usato per forzare la porta finestra, l’ho preso, mi sembrava di rubare una cosa ai ladri. Egle se lo è voluto portare a casa, credo lo abbia ancora).
Dentro casa c’era ancora più disordine della prima volta, tutto rovesciato, sparso, confuso, a pezzi. Non riuscivo a riconoscere niente. Ho visto il sangue sul pavimento davanti alla porta finestra, altre macchie sulla porta finestra e sopra un tavolo (a questo punto non riuscivo a capire se il sangue fosse dei ladri o della casa). Sono uscito sulla terrazza. Era l’alba. Ho visto la scala. Ho visto una scatola di colori di Egle, un pennello, una bacinella di plastica arancione, una mia camicia, il servomuto, tutto abbandonato per terra. Mi sono affacciato, ho guardato i palazzi spaccati. La luce bianca, uniforme, sulle macerie, leggera. Ho sentito nausea, ho odiato. Mi sono girato di spalle alle macerie, mi sono chinato, ho sollevato il servomuto. Più tardi ho chiamato una ditta di trasporti; hanno fatto il grosso del lavoro nel corso della mattina stessa; nel pomeriggio abbiamo portato via gli oggetti più fragili, quelli personali. È tornato tutto in cantina. Egle è andata a casa sua, io sono andato a letto. Ero stanchissimo. Mi è venuto da piangere, ho odiato ancora. Ho pensato che si va via quando si ha bisogno di andare via o quando qualcosa, la nostra stessa vita, ci allontana. Ho sentito nelle narici l’odore delle macerie. Non ho pensato più a niente, ho dormito.
Dopo la morte di Aldo, parlando con suo fratello e poi chiedendo conferma a un medico, ho appreso che il bruciore sottocutaneo è uno dei possibili prodromi dell’infarto. Ho ripensato alla lampadina tascabile che illumina le macerie, al fuoco nei capelli di Egle, ad Aldo che ride, ad Aldo che mi parla del bruciore che sente sotto la pelle dell’addome (adesso penso anche alla combustione umana spontanea, ad Aldo che prende fuoco), ad Aldo che mi accompagna a casa e va via, alla luce che scava come un’unghia nella carne del corpo, a me che per mesi la notte non riesco a dormire perché sento la morte di Aldo che riposa leggera nell’aria (quando Aldo è stato trovato morto nell’abitacolo della sua automobile la polizia aveva ipotizzato che fosse morto per overdose e aveva disposto affinché il corpo venisse trasportato presso l’Istituto di Medicina Legale per effettuare l’autopsia; poi Laura, la moglie di Aldo, aveva detto che Aldo era cardiopatico e non c’era stato più bisogno di nessuna autopsia)
Ho immaginato una stanza buia dove i medici esplorano il corpo di Aldo con la luce delle lampadine elettriche; il corpo nudo, il petto un po’ incavato, il ventre gonfio, le braccia lungo i fianchi. È disteso sopra un lettino rigido. I medici puntano sottilissimi fasci di luce contro la pelle: la pelle cede all’esplorazione della luce, si apre, i medici guardano la carne all’interno, illuminano gli organi e i vasi sanguigni, indagano, mormorano qualcosa, uno prende appunti per redigere il referto. Io sto dietro un vetro, guardo i fasci di luce che si intersecano nel buio, si attraversano, si sovrappongono illuminando con più forza il cuore o un polmone; poi i medici ricuciono il corpo di Aldo con ago e filo, spengono le lampadine. La stanza rimane completamente al buio. Non mi muovo da dietro il vetro; dopo circa un minuto vedo che le suture sparse sul corpo di Aldo hanno cominciato a brillare, restituiscono la luce assorbita.

28 COMMENTS

  1. Palermo, la città più azzurra d’Italia, così ho letto stamattina in merito alla vittoria politica. Ho le valigie pronte per emigrare. Ma non metterei mai piede fisso a Milano, Roma (le vedrei rase al suolo volentieri). Torino è troppo magica. Firenze troppo artistica. Ferrara troppo bella. E mi guarderei bene da fare comunella con Prodi (sebbene l’ho votato), Fassino, l’antioperaio Bertinotti, l’antisindacalista marini, figuriamoci Fini, perché son tutti piccini. Con Di Pietro a pranzo ci andrei. Ma è con gli Akaramas che mi divertirei.

  2. Cmq il centro storico di Palermo è straordinariamente bello e ha le chiese (solo il centro storico ne possiede più di 100) più belle e rare d’italia.

    Palermo è bella solo se desertificata dai suoi abitanti!

  3. sembrerà una coincidenza ma anche io ho subito pensato al centro storico di Palermo, a come vorrei visitarlo, nei minimi dettagli, – hai grandi capacità descrittive degli ambienti, si riesce a sentirli e a respirarne l’aria -soprattutto dopo questo intenso diario che hai saputo offrirmi-ci…..

  4. i Siciliani desiderano essere come i milanesi, così come una volta desideravano essere parigini. A Ispica e ad Avola ci sono due torri Eiffel che nella notte brillano, alte di mille luci. Ah, i desideri!

  5. Scopro il testo stamattina. Mi sembra molto interessante. Lo stampero per leggere questo pomeriggio a casa. Devo scappare per lavorare.

  6. trovo questo pezzo di vasta un buon esempio di ciò che si può intendere per scrittura che abbia la realtà come referente primo, senza esservi spiaccicata necessariamente sopra.
    credo che il problema del rapporto scrittura-realtà (usando i due termini secondo la nozione di senso comune che ne abbiamo) sia oggi centrale più che mai.
    sempre che qualcuno voglia ancora porsi qualche domanda sul senso e la funzione della scrittura.

  7. Davvero bello il testo, ci passavo le vacanze estive a Palermo,ci abitava mio nonno, proprio nel centro storico e contemplavo tutto quel Liberty…

  8. io rimango spiazzato su come giorgio riesca a scrivere in modo così oggettivo – nel senso pieno, oggettuale, fenomenologico – qualcosa che gli appartiene così tanto. bravo, davvero

  9. Ecco, Christian, è esattamente quello che ho pensato anche io, solo che non sono riuscita a tradurlo in parole chiare come le tue.
    Grazie.

  10. @Giorgio
    nelle descrizioni sei insuperabile!
    la scena della risata muta tra Egle e Aldo (ma chi era Aldo?) mi ha fatto venire i brividi….

  11. @Giorgio,
    nelle descrizioni sei insuperabile!
    La scena della risata muta tra Egle e Aldo (ma Aldo chi era?) mi ha lasciato brividi lunghi…..

  12. sento molto la forza di questi ‘stralci’ tratti dal tuo scritto:

    ‘ho sceso le scale, piano, l’odore di urina e di sperma per le scale. Ho pensato che questo posto resterà così per sempre, sterile e fertile – in questo posto lo sperma tenta di fecondare la pietra, la pietra è fertile, lo sperma è sterile – un posto fatto per andare via.’

    ‘Ogni tanto uno di noi gettava uno sguardo alla stanza. Era piena di ombre, anche la cassapanca sembrava un’ombra, anche le lenzuola e le coperte sul pavimento, anche il vaso, noi, le piante. Le ombre sembravano muoversi dentro, brulicavano. Era come se una fila interminabile di formiche fosse penetrata nella stanza. Le formiche avevano percorso le stradine lastricate, camminando le une sulle altre, precipitando nelle commessure, formando una specie di miccia. ‘

  13. racconto non perfetto (gli basterebbe poco per diventarlo, secondo me), però bello e forte: quando la pressione altrui si fa non-sostenibile e rompe ogni argine possibile e dilaga e non c’è nient’altro da fare che sottrarsi: la catena di eventi, compresi quelli mancati (come l’andarci a vivere, in quella casa, presidiarla), che determina l’abbandono di un teatro urbano e sociale già da tempo non più condiviso, che già si osserva come da fuori.
    ieri uno con cui lavoro mi diceva: sono nato in un paese della puglia e l’unica cosa che ho desiderato fin da ragazzino è stata di andarmene e appena possibile l’ho fatto, cioè al compimento dei diciott’anni.

  14. ieri in un ospedale delle marche, a jesi, dentro a quelle colline così dolci e piene di rose, all’ospedale nella stanzetta di un amico di mia madre c’era un signore che si chiama renato e fa il muratore. viene da palermo. tutta la sua famiglia è di palermo e lui è caduto da un’impalcatura s’è rotto cinque costole e l’hanno ricoverato lì. non ha nessuno che gli porti le cose così gli hanno dato una camicia da notte di quelle bianche e dritte dell’ospedale.
    a palermo abita vicino al politeama. “hai mai visto il politeama?”.
    a me palermo continua ad aprire il cuore e non so perché. abbiamo chiacchierato in un misto di parole mangiate e un po’ immaginate. mentre parlavamo pensavo a tante cose in mezzo e anche a queste parole di vasta che sono come una dichiarazione d’amore, di rabbia e amore.
    “sì io mi ricordo i quattro canti”.
    è proprio banale ma palermo per me era cominciata da lì, un piccolo cuore sbilenco e sensuale.
    “ci sono quattro fontane” m’ha detto.
    io a palermo, l’ho capito dopo, cercavo qualcosa del gattopardo che è stato uno dei libri dell’adolescenza con dentro quell’assoluto che non va più via.
    m’è rimasta una domenica d’agosto vuota, che rimbomba. m’è rimasto un inizio.
    e penso a questo testo che finisce con la fine ma la fine brilla. e il corpo diventa la città.

  15. È raccapricciante quanto postato.
    Sembra che Giorgio Vasta voglia dire:
    Cu ‘na valiggia ‘mmanu, sulu accussì ci si pò stari.

    Forse dovrebbe esistere solo come città-museo, come dice luminamenti, dove l’arte superlativa che vi è raccolta basterebbe da sola a darle dignità. Prendi i Quattro Canti, parlano un linguaggio universale.

    ‘Ho pensato che si va via quando si ha bisogno di andare via’, tu dici, e io sottoscrivo.
    Io credo che non si va via da una determinata città perché è ‘quella’ città. Quando si va via è perché noi abbiamo bisogno di ‘volare’, di cercare altri lidi più rispondenti al nostro modo di essere, e quel che ci muove è l’illusione che li troveremo..

  16. Io a Palermo ci sono nata 30 anni fa e mi sono innamorata dal prino respiro dei suoi coloro e odori. Purtroppo,o per fortuna,gli eventi mi hanno fatto crescre al nord,a Torino,dove tutti seguono le regole della civiltà e dell’educazione,tutti vuol dire poveri e ricchi…Adoro Palermo e l’ultima volta che ci sono stata sono rinata,mi si è svegliato un forte senso di appartenenza e di amore per una bella città piena di possibilità,ma poco compresa e apprezzata…Credo che manchino in lei la solidarietà e l’unione,la fiducia e la speranza che può splensere di luce propria. l Palermitani devono attivarsi seriamente e utilizzare la loro fervida intelligenza per concretizzare un sogno che le mura vecchie della stessa città chiedono da anni : BRILLARE ed esprimere la ricchezza che la terra conserva nella profondità.
    Mi auguro,come palermitana,di vedere Palermo sorridere quando ci ritornerò e insieme a lei i volti sereni e liberi della sua gente.
    eleonora

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