Ripelliniana
di Linnio Accorroni
La pubblicazione, dopo anni di colpevole silenzio, di alcune raccolte poetiche di Angelo Maria Ripellino (Palermo 1923 – Roma 1978) per i tipi dell’Aragno (Poesie prime ed ultime, pag. 512, euro 30,00) ha lo stesso languore melanconico degli anniversari quando vengono celebrati fuori tempo massimo: il festeggiato infatti non è più fra noi, ma magari piange e ride come un clown irreparabilmente fuori scena. Ma i convenuti a questa celebrazione postuma si accontentano perché con questa raccolta viene scalfita, anche se parzialmente, quella pesante coltre di silenzio che era calata sulla produzione lirica di Ripellino. Infatti, mentre la sua produzione critico-saggistica continua a godere di una ultrameritata (si vorrebbe dire necessaria e ‘scontata’, soprattutto se confrontata con la qualità media della vulgata critica contemporanea) attenzione da parte di importanti editori (soprattutto Einaudi) che continuano a ripubblicare i suoi scritti, la sua poesia era praticamente scomparsa con la stessa repentinità con la quale talvolta, a contatto con l’aria, preziosi affreschi catacombali sono svaniti. In effetti, trovare una qualsiasi raccolta poetica di Ripellino, prima di questa pubblicazione, era una impresa tra il vano e il disperato. “Al lettore di oggi la poesia di Ripellino non si presenta”, così amaramente e giustamente constatava, in un vecchio numero de ‘Il caffè illustrato’ (marzo/aprile 2003 ), Alessandro Fo.
Fo, Pane, Vela e adesso, new entry, Lenzi (alias Ortelius): questi cognomi-soffio, mono-bi-sillabici, a cui corrispondono robuste e importanti carriere accademico-letterarie, da tempo si sono autoconvocati in una petite bande, “un nucleo di microsocietà letteraria, critica e filologica, che facendo aggio su un autore amato se ne senta descritta, anzi promossa, nel momento stesso in cui lo proponga ad una partecipazione diffusa, finalmente conoscitiva” (così nella introduzione di questa raccolta dell’Aragno). Mi piace immaginarla questa italica Banda dei Quattro come una specie di versione nostrana, più smaliziata e magari un tantino anche highbrow, della Setta del Poeta Estinto, un gruppuscolo di agitprop del Verbo ripelliniano, aedi e cultori della “analogia, della metafora, larga, che abbraccia l’universo” (così Ripellino, discettando sulla propria poesia, in una rara intervista televisiva). Li immagino scartabellare e protocollare, collazionare e impegolarsi con manoscritti e fotocopie, beandosi e commuovendosi magari di fronte a questa ricorrenza o a quella concordanza, sfogliando le minute di una lettera ingiallita, schernendo mode e ortodossie letterarie, sorridendo delle paccottiglie dell’Effimero e dei diktat dell’Inconsulto, con la stessa impermeabile caparbietà del loro poeta di riferimento, che prediligeva piuttosto la poesia del ‘200 e del ‘300, che adorava barocchismi e vernacolerie. Ma, in fondo, questi bonari sovversivi s’adoperano con tanta solerzia solo per realizzare il sogno di una piccola cosa: restituire allo scrittore che volle scolpito sulla sua tomba un epitaffio di scabra rivendicatività (“Angelo Maria Ripellino Poeta”) quello status che gli spetta e che è suo di diritto, naturaliter. È grazie a loro, quindi, che possiamo oggi di nuovo rileggerci, comprese in questa edizione dell’Aragno, tre sue raccolte: Non un giorno, ma adesso (1960), La Fortezza d’Alvernia e altre poesie (1967), Autunnale barocco (1977); infine, last but not least, una sezione-chicca for lovers, ovvero gli inediti poetici rinvenuti nell’archivio dello scrittore e altri apparsi in sedi e pubblicazioni defilate. Questa raccolta, a cui seguirà, nella storica collana bianca della Poesia Einaudi nell’autunno 2007, la ristampa delle altre tre centrali raccolte poetiche del Nostro, può davvero costituire, per chi ancora non avesse avuto la possibilità, una prima necessaria tappa di avvicinamento e scoperta del Continente-Ripellino, un autore che odiava soprattutto l’incasellamento, la definizione “rigor mortis” da lettino da contezione, la collocazione devitalizzante. Nella bellissima prosa autoesegetica, intitolata programmaticamente ‘Congedo’ e contenuta nel finale de La fortezza d’Alvernia, Ripellino spiega con fierezza i motivi di questo sua inappartenza rivendicata con caparbietà quasi donchisciottesca, che lo induceva a ribellarsi contro una certa maniera di concepire non solo l’arte, ma, a ben vedere, anche la vita: “Noi viviamo dentro caselle da cui gli altri non ci permettono di uscire. Noi siamo solo l’immagine che gli altri hanno costruito di noi. Per anni ed anni ho scritto e stracciato poesie, vergognandomi di scriverne. Il mio mestiere di slavista, la mia etichetta depositata mi relegarono sempre in una precisa dimensione, in un ranch, da cui m’era rigorosamente vietato di evadere.[…] non c’era posto per le mie metafore, tassate di barocchismo.[…] Tutto appariva sbagliato in quello che avevo scritto ( e che stavo per lacerare): la mia ansia di immettere nel tessuto dei versi le consuetudini della pittura, di trattar le parole come tubetti di colore schiacciati e di attrarle in viluppi fonetici, le trovate allegoriche, la buffoneria sottesa di lugubre, le deformazioni, il mio guardare la vita grottescamente come il calvario d’un clown, il quale si ingegni a continuare a suonare su un logoro violino che va ogni momento in frantumi”.
Può ritenersi fortunato dunque chi si appresta a squadernare magari per la prima volta la variegata ‘tastiera’ ripelliniana, sia saggistica che poetica: farlo significa disporsi alla sorpresa perenne, significa stordirsi di fronte a una inesauribile ricchezza verbale perché la sua incontenibile, eclettica curiosità lo induceva a rompere ogni formula prevedibile, a scardinare ogni nesso logico-causale con il fragore delle sue paronomasie e la maraviglia dei suoi barocchismi e delle sue agudezas, con le follie dei suoi traslati, con quel sonoro cozzare di significanti e significati che rumoreggia come basso continuo nella sua scrittura. La ‘giocoleria verbale’ come permanente esercizio di stile, ‘l’icarismo teso sul filo dello spasimo’, il filo del funambolo utilizzato a mo’ di cilicio perennemente indossato. Questo quasi a prescindere, qualunque fosse l’argomento trattato: con disinvolta nonchalance, Ripellino passa dalla poesia alla critica teatrale, dalle monografie d’arte alle recensioni librarie, dal saggio critico alle colte e immaginifiche introduzioni fino alle traduzioni dal russo e dal ceco, ancora oggi insuperate, sempre sapendo fondere accademismo e réverie, erudizione e clownerie. Il tutto, beninteso, rispondendo a una sola precisa istanza che assumeva come imperativo categorico: “schivare l’informe, il trasandato, il tritume, le sbavature, la lutulenza, curando sino allo spasimo la compattezza, lo spessore della mia scrittura”. Per cui, in contrapposizione allo slittamento della lingua-referto, adorava privilegiare “ il giuoco, gli espedienti di musica, la pagliacceria, i capricci verbali, le acutezze, i ‘concetti’, – ma tutto questo non deve girare a vuoto: tutto questo mi serve ad esprimere la mia sofferenza ed il malore del mondo”.
“ Miei cari ragazzi – grazie per le lettere, per gli auguri, per le felicitazioni. Voi sapete che vi voglio bene e che il mio più gran rammarico è di essere costretto dai mali a star lontano da voi. Io non sono venuto in mezzo a questo piccolo gruppo di studiosi di cose slave come un eletto, con cilindri e medaglie, ma come un umile innamorato di poesia, che voleva trasmettervi i suoi sogni, le sue impressioni – e nello stesso tempo ho sempre cercato di imparare da voi, perché non fosse perduta la giovinezza. Insieme dobbiamo fare qualcosa di vivo, qualcosa che ci aiuti a vincere lo squallore e che sia appunto, non accademia né scienza in stiffelius né seccume d’erbe da farmacia di provincia, ma giovinezza, sfida ai testi, rêverie, giuoco coi congegni dello stile, una scienza-spettacolo.[…] Ora ho bisogno di riprendermi da ferite e da umiliazioni infertemi da medici incoscienti, ho bisogno, come gli eroi di Čechov, di riposare. Dopo tutto, forse anche l’esperienza di un sanatorio centroeuropeo era necessaria alla mia vita. Ma ho mulini di idee, di piani, di progetti, da svolgere con voi, e sempre sogno che un giorno i vostri lavori portino un incancellabile indizio che li distingua, la nota comune d’una tendenza, il colore, l’aroma di predilezioni comuni, il folgorìo insomma d’un nostro fuoco. Vi prego d’amare Praga, come io l’ho amata, e di non spaurirvi mai dell’inconsueto, del nuovo, di non essere torpidi, ma sempre aperti e curiosi, mai schiavi delle fruste dei pregiudizi. Se alla fine del mese sarà possibile, vi vedrò volentieri.[…] E abbiate fede come me nel nostro prossimo, sereno, spavaldo lavoro comune. E non vi fate sfuggire nulla della vita, è bella, è impagabile, e il male non conta. A presto ,vostro Angelo Maria Ripellino”. Quando Ripellino scrisse questa lettera il 12 agosto 1956, era già professore di Slavistica all’Università di Roma. La lettera è inviata ai suoi studenti, mentre lui era ricoverato nel sanatorio di Dobris, a una quarantina di chilometri da Praga. Ripellino era stato costretto al ricovero forzato in circostanze del tutto impreviste: dopo la vittoria del Viareggio per la saggistica con Il trucco e l’anima, era stato invitato come ospite nel Castello degli Scrittori a Praga. In viaggio si sentì male e fu ricoverato al vicino sanatorio di Dobris dove rimase dal luglio al dicembre ’65. Da qui, da questo luogo tanto ‘terrestre’ e tanto intriso di letteratura, popolato da una composita genìa di malati e dottori, Ripellino scrive questa lettera commovente, sia per le particolari circostanze in cui venne scritta, sia per quella esplicita dichiarazione di ottimismo e di invito alla vita, fatta da uno che, come affermerà Ripellino stesso, con quella imprevista sosta al sanatorio di Dobris, aveva avuto l’onore – mai richiesto – di entrare di diritto nella categoria dei ‘Nonostante’.
I ‘Nonostante’: quelli cioè che, Nonostante vedano tanto dappresso l’immagine della morte, si cimentano a vivere, ‘Nonostante’ tutto, tentando di imbastire una difesa-scherzo, una resistenza che ha i caratteri della grulleria e dello scherno, tanto da ricordare il “calvario di un clown, il quale si ingegni di continuare a suonare su un logoro violino che ad ogni momento va in frantumi”. È una lettera commossa e commovente, scritta da uno che, mentre è già lontano, non sa con certezza i tempi e i modi della guarigione, ma che, sopraffatto da un’istanza deontologico-professionale, non per questo si nega la possibilità di immaginare il corso del futuro anno accademico, di sentire ancora su di sé la pressione confortante del rapporto studenti-docenti. La chiusa è di straordinaria, semplice bellezza e varrebbe la pena ripeterselo come un mantra nell’uggia torpida e insidiosa di cui certe giornate sembrano intrise: “non vi fate sfuggire nulla della vita, è bella, è impagabile, e il male non conta”.
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Grazie e grazie e ancora grazie per aver ricordato Ripellino.
Che se ne stava nascosto, ma mai dimenticaro nel cuore di molti di noi, una specie di società segreta di umili innamorati di poesia, di bellezza fatta di poco, una musica di fisarmonica di un suonatore ambulante, quattro straccetti colorati, parole come palline di un giocoliere che miracolosamente danzano nell’aria.
Anche io, sentitissamente, ringrazio.
non lo conosco, ma ora lo voglio conoscere.
Grazie.
Io lo conosco. E non mi manca per niente.
IL SONATORE DI VIOLA
Il sonatore di viola riverbera
schegge di stelle nelle lunette
dei suoi bianchi occhiali da farmacista.
Ha i capelli allisciati come siepi d’un parco di Vienna
e una farfalla di neve sul collo, pronta a dissolversi.
Egli abbraccia il gonfio manichino,
sfiorandone i fianchi maldestri,
la lunga criniera di stoppa.
Come un attore giapponese, muove
il fantoccio pesante senza ciglia,
ma appena vi posa l’archetto, la bambola
si desta dal suo sonno, si discioglie
dalla polposa e lucida pigrizia
e con un secco sgangherìo di armadi,
con un fischio di porte sgretolate,
con lo strepito di rozze traccole,
con un frastuono di oche spaventate
sprigiona dal ventre barocco
un irsuto concerto di Janácek.
Il sonatore cerca inutilmente
di frenare il rauco vaniloquio
della viola sudata e linguacciuta.
L’angoloso fragore deforma
come un gioco di specchi le figure,
cozzano le parole come ghiacci,
l’universo vacilla e si schianta,
e della viola paffuta non resta
che un cernecchio di fumo, un mucchietto
sparpagliato dal vento della musica.
A. M. Ripellino
…sempre più interessante!
Caro Linnio, caro Giorgio Vasta, cari indiani, grazie. Sono uno dei curatori delle Prime e Ultime, in verità l’intruso della banda, il pivello. E’ tutto il giorno che penso al Nostro, intanto perché collega di dottorato di Antonio Pane, l’altro curatore, e oggi avevamo lezione. E poi perché la settimana prossima devo andare in una quinta liceo scientifico a parlare due ore di Ripellino poeta, del ribaldo trappolio di colori. Vi scrivo dalla biblioteca di Lettere di Siena, dove ho setacciato palmo a palmo il Klondike poetico del Rip. Non mi sembra vero che cominci a uscire dall’ombra, in cui una non ben definita Tradizione Italiana l’aveva relegato. Quando parli coi morti, ti chiedi se i vivi parleranno con te, morto… Continuiamo a parlare con Lui, e a difendere questo piccolo fuoco.
Ancora grazie, un abbraccio pieno e sincero
Ortelius
Erudito con grazia il tuo pezzo sulla pregevole raccolta poetica di Ripellino, grande Linnio.