Lei, non me

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di Peppe Fiore

Dicembre 2005, l’inerte appendice terminale dell’anno della mia laurea, Roma d’inverno tutta un unico spasmo in attesa di Natale, sono le nove meno un quarto di mattina e io sveglio dalle cinque mezza sto correndo per il corridoio di linoleum coll’affanno che mi strozza. Come un pazzo, come il vitello in rovina verso la sua estrema sparachiodi. Ho sbagliato i tempi, si rischia di bucare il pezzo, Tra sette minuti siamo in onda mi ha ringhiato l’assistente di studio col suo fiato di sigaretta, scavalco male l’angolo oltre la regia, Tra sette minuti siamo in onda cazzo voglio l’ospite in studio microfonata subito adesso mi ha ringhiato, la scissura netta di un neon contro il soffitto, l’affanno che mi strozza, la scaletta ciancicata in mano, il copione con le domande, ho sbagliato i tempi e perso la mia ospite, corro addominali schiena cosce tutto in pappa, corro, l’occhio volpigno dell’operatore Massimo nella periferia della mia visione. Le vane domande del copione Cosa ha provato in quel momento signora? Perché non si è rivolta a un avvocato? Cosa ha provato in quel momento coll’affanno che la eviscerava signora?, la mia ospite persa, persa per sempre. Non è in produzione, non è al cesso, in studio, non c’è, persa per sempre l’ospite e vane per sempre le domande, inchiostro seccato di stampante e basta, tra sei minuti in onda e rischiamo di bucare, io rischio di bucare, Quando ha capito che sua figlia era in pericolo?

E se buchiamo, mi ha ringhiato l’assistente di studio, poi sono cazzi poi sono solo amari cazzi, tuoi.

Adesso fuori, attorno alla mia corsa spastica, da povero fumatore di Diana, c’è il coma architettonico di Saxa Rubra. Diana blu, le mie sigarette da studente fuori sede per quattro anni. Il mio primo giorno di lavoro a Uno Mattina mi sono presentato con tre quarti d’ora di anticipo. Non ero sicuro che con la tangenziale ci mettevo così poco, ma è stato più di due mesi fa ormai: adesso ho preso i tempi e se la mattina so che ho il pezzo, arrivo giusto giusto un’ora prima della messa in onda. Ma il primo giorno la produttrice esecutiva, una mamma romana con la bocca a cuore e il tailleur, materna con me dal primo momento, mi aveva detto le sei e mezza. Difatti alle cinque e tre quarti fermavo la mia Peugeot 106 (comprata da mio padre) nel parcheggio degli ospiti di Saxa. Era ancora buio, soltanto si cominciava a spandere dal cielo una fibrillazione azzurrina. Me ne restai a rabbrividire nell’abitacolo: già due Diana fumate a quell’ora irreale per colpa della tensione, col sapore di catrame che si impicciava nelle filacce del sonno.
Saxa Rubra, il Sasso Rosso, vive in una conca di campagna industriale, guarda sulla ruggine di una stazione del trenino; arrivandoci dalla Flaminia prima dell’alba è un gruppo di spigoli cementizi altissimi, lampadine da raffineria petrolifera, i tralicci dei ripetitori. Quando non sentivo più le articolazioni, il primo giorno di Uno Mattina, mi presentai al guardiano del gabbiotto, che dormiva. Studi televisivi, pensavo, gli studi televisivi: una nenia, studi televisivi, nient’altro. E poi sono entrato col pass degli ospiti.

Ora però non ci penso: penso a correre e basta, perdo pure dei fogli nella corsa, il copione la scaletta, cinque minuti per andare in onda e la mia ospite è scomparsa. Non è da nessuna parte, mi affaccio pure in regia audio, dove mi ringhiano contro, poi piglio il corridoio dei camerini. Dentro le palazzine di Saxa il corridoio dei camerini è uguale al corridoio della regia che è uguale al corridoio che va in produzione: tutto linoleum e neon, segnali antifumo e il sentore ovunque di azienda pubblica ospedaliera. Un poster di Fabrizio Frizzi: qualche programma di beneficenza per la ricerca sui tumori negli anni ottanta, i capelli da bravo figlio la giacca di vigogna, sorride in un sottoscala vicino al cartello di ferro col piano di evacuazione in caso d’incendio.
Cosa ha sentito dentro? Quando ha capito che questi sedicenti maghi erano dei truffatori? Il direttore artistico è un uomo basso, intelligentissimo, nervoso, maratoneta, gelido, è il mio terrore. Travolgo due attrezzisti mentre parlano della Juve, mi squadrano la faccia esplosa dalla corsa, sembra che vogliono inseguirmi ma io sono già nella bolla di luce verde dell’ingresso. Vuota. Non c’è, la mia ospite non c’è da nessuna parte, la mia ospite che si è fatta sputtanare milioni e una casa a Milano da Wanna Marchi e da sua figlia, non c’è più. Sono fuori nel freddo, l’autore con passato radiofonico che parla solo in napoletano impostato smette per un momento di complottare con quell’altro, deposita nell’aria un fiore di fumo di sigaretta che io attraverso e ride, rientro dal retro, un corridoio, un corridoietto, quattro minuti alla messa in onda, per venire masticato inghiottito digerito dall’intelligenza del direttore artistico. L’uomo delle previsioni del tempo è in piedi vicino a una scenografia di cartongesso a forma di conchiglia, anche lui assente, nell’uniforme dell’aeronautica militare e il ciuffo perfetto – l’amore televisivo di mia zia Renata sessantenne giù nella lontanissima provincia di Potenza.

Questa zia è la stessa che due settimane fa mi ha telefonato una mattina verso le undici e mezza, appena dopo la riunione di scaletta. Io stavo in una chiazza di sole freddo fuori dagli studi, finivo di fumare prima di rimettermi in macchina e tornare a via Teulada, dove c’è la redazione del programma. Mi chiede al telefono se per caso non ho addosso un pullover verde. Sì che ce l’ho. Allora ero io, urla: mi ha visto per mezzo secondo quando prima di lanciare la pubblicità hanno fatto la solita ripresa con la camera alta. In quel momento si vedono cameraman tecnici assistenti e redattori, che formicolano ai margini della mistica sfera di visibilità dello studio con gli sgabelli di plexiglass, i fiori finti, i tavoli apparecchiati con le primizie regionali in coreografia. Tra questi insetti ce n’era uno verde, zia Renata da Santarcangelo (PZ) ci ha riconosciuto il nipote, ma è stato un attimo, hanno mandato subito il jingle e per cui non era sicura. Quando gliel’ho confermato è felice e si sente che abbiamo costruito assieme a chilometri e chilometri di distanza qualche cosa di speciale. Poi mi chiede se posso procurarle il numero di quell’estetista che fa una rubrica dove insegna a levarsi la cellulite con le pietre di fiume.

La signora che per colpa di Wanna Marchi è costretta a fare due lavori – accudisce vecchi e pulisce le scale – è in effetti un ripiego. È venuta meno proprio ieri un’altra signora, che sente da un mangiacassette la voce di suo figlio morto in un incidente stradale. Quest’altra signora era di Brescia: ci eravamo preparati tutto per bene da una settimana. Le domande Che cosa ha provato risentendo la voce di suo figlio? Non ha mai pensato di rivolgersi a un prete? Cosa rimpiange di non essere mai riuscita a dirgli?, il biglietto del treno, le foto del ragazzo – bello, alto, faceva il cuoco: davanti a una ginestra al sole sorride abbracciato alla ragazza coi capelli cotonati, anche lei morta nell’incidente. Poi una colica, o un calcolo, e il pezzo è saltato.
In un giorno e mezzo ho rintracciato la pulitrice di scale accuditrice di vecchi, in causa da anni con Wanna Marchi per una questione di talismani, rogiti notarili, tribunali, malocchi ai figli; l’ho convinta, l’ho buttata su un Eurostar per Roma (lei che è nata in Spagna ma non si è mai mossa da Milano). All’inizio non voleva, rischiavo di non farcela. Poi però, signora, pensi a tutte le persone semplici che hanno passato i suoi stessi guai, noi di Uno Mattina ci teniamo moltissimo, siamo o non siamo il servizio pubblico? Pensi quante persone troveranno il coraggio grazie a lei di denunciare questi delinquenti. La mia ospite s’è presentata stamattina alle otto con la macchina della Rai che l’ha prelevata all’hotel convenzionato Clodio, come stordita, spettinata, aggrappata a una busta della Gs. Cinque anni di ricevute di avvenuto pagamento del canone Rai in una busta di plastica da farmi vedere prima di tutto.

La prima volta che sono entrato in uno studio televisivo vero è stato lo studio di Uno Mattina: quasi tre mesi fa, a ottobre, dopo l’estate delle nostre lauree, la mia a giugno e Perla, la mia ragazza, a luglio. Le nostre tesi discusse in un caldo che spellava, lei che torna da quattro mesi a Barcellona la notte prima della mia discussione: ci siamo messi insieme a gennaio tre giorni prima della sua partenza poi lei aveva la borsa di studio per la tesi all’estero e perciò è dovuta tornare per forza in Spagna. Sicché la vado a prendere a Ciampino, è minuscola sotto lo zainone da interrail, sbaglio l’imbocco del raccordo per tornare a casa, non riusciamo a dirci quanto ci siamo mancati, e che ormai ci amiamo, a casa scopiamo immediatamente, siamo un po’ impauriti di tutto questo bene non richiesto, il giorno dopo mi laureo, due mesi dopo siamo in Portogallo in una tenda da campeggio sempre nudi per tre giorni di fila, l’oceano di fronte la muraglia di rocce dietro, la spiaggia che muore in cielo. Più oltre l’oceano, da settembre in poi, i nostri due futuri si sporgeranno sull’orlo del mondo del lavoro, fare televisione, fare giornalismo, prendere finalmente una forma sociale, integrarci, farcene qualcosa con quest’urgenza dei nostri rispettivi talenti, le rispettive vocazioni e ambizioni che abbiamo nutrito e covato con studio e con coscienza negli anni, anche se proprio adesso che ci siamo, l’estate il Portogallo il nostro amore i nudisti, misteriosamente, sembrano aver narcotizzato tutto.

Il tavolo con i cornetti i maritozzi i thermos del tè caffè le buste di latte Centrale di Roma i tramezzini tonno e maionese. Il catering che ingiallisce dall’apertura degli studi all’alba. Eccola in fondo al corridoio l’ospite, a venti stronzi metri da me, tre minuti dalla messa in onda e lei che si sbriciola tranquillamente addosso il suo croissant con la nutella. Le telefonavano a casa a orari assurdi, l’una, l’una e mezza di notte, per minacciare di morte lei e i suoi figli se non gli intestava subito quella casa a Milano. Sul divanetto scricchiolante che sta di fronte alla produzione stamattina le ho spiegato che era importante innanzitutto non fare il nome di Wanna Marchi per una questione di privacy. Lei non sembrava convinta: diceva che il servizio pubblico è il servizio pubblico. Siamo o non siamo il servizio pubblico? Ma mentre argomentava è passata Monica Maggioni e automaticamente la mia ospite ha cominciato a agitarsi sulla poltroncina, il cuoio squittiva mentre dieci metri più in là Monica si versava con gesto da mezzobusto il caffè. La mia ospite (adesso cerco di urlarle: “Signora! Signora!” per il corridoio, ma la voce mi esce sbracata) non poteva credere che aveva davvero i capelli così rossi. Sì, Monica ce li ha davvero così rossi, ma l’importante era non fare assolutamente il nome di Wanna Marchi, questo era molto importante, per una questione di privacy e perché sennò andavamo in galera tutti. Anche Monica? Sì, signora, probabilmente anche Monica.

A praticamente due minuti dalla messa in onda e delle voci alle mie spalle che mi chiamano – o forse è solo il riverbero della volata – io penso solo a quello, il pupazzo biondastro a venti quindici dieci metri da me, la mia ospite che rischia di farmi bucare e fottere sul nascere il mio futuro nel mondo della televisione. Eccolo là Il Mio Futuro che mastica il suo croissant con la nutella, quattro anni di università, un anno di anticipo sul piano di studi, e lei nemmeno si è accorta che le sto franando addosso. Eccolo dove si risolvono i miei ventiquattro anni appena fatti, una laurea col massimo, una tesi sull’Isola dei Famosi, un direttore artistico che per me è dal primo momento la televisione incarnata e il doppio paterno, e mi fa terrore. Buchiamo, forse no, forse non buchiamo. Le grido di andare in studio, e nel momento esatto che la vedo voltarsi, squittire, mollare il croissant ciancicato e muovere il corpo idiota verso il fonico che lontano sventola il laccio del radiomicrofono, in quel momento so che non bucheremo, so che la televisione non mi ha ancora inghiottito.

In quel momento – per una volta – sono convinto che è proprio questo quello che volevo, e sempre in quel medesimo momento qualcosa mi sbatte in bocca. È un braccio umano in corsa, uno schiaffo improvviso e violento. Immediatamente sento il salmastro del sangue tra i denti, le orecchie che fischiano e una specie di rospo in gola. Mi piego in due, mi è salito tutt’assieme il soffocamento. Un uomo è uscito come un treno da una porta di gabinetto sbracciandosi, ora mi si accosta, si scusa dello schiaffo, dice che non mi ha visto, scusa eh, pure io però potevo stare più attento. Non è niente, niente, vorrei dire, ma senza fiato non ci riesco, e poi con la gola che mi si è richiusa, la carne aperta in bocca. L’importante è che la signora è andata in studio. Luca Giurato è piegato su di me, mi chiede scusa un’altra volta, dice che non l’ha fatto apposta, vabbè, però ora deve andare, è già lontano, tra un minuto si va in onda, dice la sua voce esagerata giù per il corridoio, scusa, dice, scusa, rischiamo di bucare e allora appunto sono cazzi. Appena trovo la forza gli arranco dietro azzoppato come sono.

Quel giorno non abbiamo bucato. Anche se il pezzo l’ho seguito tutto il tempo con un fazzoletto premuto in bocca da dietro le telecamere. È così che si fa: bisogna gesticolare, sbandierare fogli, e se possibile anche una lavagnetta per dare indicazioni a Luca e all’ospite. Luca poi le ha fatto quasi tutte le domande che avevo scritto, un crescendo studiato a tavolino: C’è stato un momento in cui lei si è sentita veramente perduta? Perché per anni non ne ha parlato con nessuno? Aveva paura delle ritorsioni, o semplicemente si vergognava?
La signora, per conto suo, è stata bravissima: a ginocchia strette sulla poltroncina, la gonna di panno grigio, rispondeva a bassa voce. Risposte sofferte e mai troppo lunghe, i silenzi, un tono penitenziale con alle sue spalle le foto della sua casa estorta dai ciarlatani. Una diva della disperazione suburbana: si dischiudeva davanti a Luca Giurato come un fiore gonfio, sembrava non aspettare che quello da tutta la vita. Farsi portare per mano da Luca attraverso tutte le sue disgrazie, l’atto di vendita della casa, gli assegni non trasferibili, le ore e ore e anni di scale sfregati, di vecchi imboccati a pappina, di telefonate alle due di notte. Insomma, bene: vedevo il direttore artistico da una parte dritto come un fuso. Buon segno: a due minuti dalla fine era perfetto. Tutto così bene, lei così televisiva, che sembrava finto, quindi vero: e l’avevo fatto io.

Ecco, in quel momento pensavo proprio questo: partendo dal mio liceo classico, dalla passione da sedicenne per Moravia, con la mia ostinazione asinina oggi ero riuscito finalmente a mettermi nel cuore della rappresentazione e ne manovravo una rotella. Eravamo io, la mia sensibilità, la mia formazione umanistica assieme alla signora truffata da Wanna Marchi, chiaramente malata di televisione. Dovevo essere contento. Eppure c’era in mezzo, tra noi, un mondo. La mia ospite – e solo da dove stavo, ai bordi della sfera, me ne potevo accorgere – portava la televisione incarnata, impossibile da scindere da lei stessa. Tutta la televisione vista e creduta le ritornava fuori dal corpo come un sudore, in quel momento: era la prima volta in vita sua che ci finiva dentro ma dava l’impressione di ricongiungersi con qualcosa che le vibrava in corpo da sempre, quotidianamente, su ogni gradino dove passava l’ammoniaca, in ogni ruga dei suoi anziani assistiti. Probabilmente la mia ospite ora che si apriva con Luca Giurato – uno dei suoi eroi – era lei stessa al naturale come non lo era più stata dall’istante puntuale del suo concepimento.

Potevo capirla. Io stesso, per aver rischiato di non farcela e esserci riuscito pelo pelo, sentivo in quel momento convergermi felicemente addosso anni di sforzi ostinati. L’avevo voluto, l’avevo desiderato, e adesso c’ero. Avrei dovuto sentirmi anch’io sostanza solidale dell’immagine, e invece il sentimento di me era evidentemente più grezzo, più imperfetto e insomma di una realtà meno vera di quello della mia ospite. Perché? Una parte di me mi diceva che era un’ingiustizia: la televisione meritava me, non lei, perché io la televisione certo la capivo, l’avevo studiata, io ne avevo riconosciuto consapevolmente l’importanza, la sintomaticità rispetto alla mia epoca, io non la signora che ci si era solo strofinata contro. La televisione meritava me, non lei, perché io ipotecavo il mio futuro al mezzo, in fin dei conti io rinunciavo a una carriera accademica, a un qualsiasi mestiere puramente intellettuale e all’innocenza. Non era giusto. Ma la televisione sceglieva lei, era chiarissimo: si vedeva da come le tremava il labbro di sotto quando Luca le chiedeva di lanciare un messaggio a quanti come lei rischiavano di perdersi incantati dagli specchietti di questi maghi. E lei taceva per un attimo, sul vidiwall appariva il suo faccione lasso, gonfio, e poi lo sguardo bovino tremolante in camera: “Non fatelo. Voglio dire solo questo: sono dei delinquenti (pausa) Non dategli retta, ecco (pausa) Non ho altro da dire”.

Era perfetto, era quello che i quintali di libri sulla televisione da me doviziosamente studiati e sottolineati chiamavano lo specifico televisivo, era quello che io non sarei stato mai. Infatti quella domanda non l’avevo scritta io. Luca Giurato l’aveva improvvisata e la signora aveva improvvisato la risposta.
Tutto da manuale.
Quando la voce della mia ospite finì di smorzarsi, Luca rimase fermo, terreo. Ci furono dei secondi di lutto a altissima tensione, pregiatissimi. Solo il ronzio dei gruppi elettrogeni in studio. Mentre, intanto, a me, cominciava a gonfiarsi il labbro spaccato.

13 COMMENTS

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    ‘Ecco, in quel momento pensavo proprio questo: la mia ostinazione asinina oggi ero riuscito finalmente a mettermi nel cuore della rappresentazione e ne manovravo una rotella. Eravamo io, la mia sensibilità, la mia formazione umanistica assieme alla signora truffata da Wanna Marchi, chiaramente malata di televisione. Dovevo essere contento. Eppure c’era in mezzo, tra noi, un mondo. La mia ospite – e solo da dove stavo, ai bordi della sfera, me ne potevo accorgere -‘

    imparare ad avere un distacco, da certe forme morbose di attrazione televisiva, da certe situazioni ambigue e costruite, è un compito non facile.

    guardare meno la televisione e vigilare di più, credo sia più saggio.

  2. bene Peppe, però non ti sei fatto invitare alla Conferenza Degli Scrittori Che Parlano Di Televisione. Dove ci sono Scurati, Giuseppe Genna e Francesco Piccolo che è un po’ come dire gli avatar che avremmo sempre voluto essere.

  3. Molto bello. Talvolta ho anch’io a che fare con la Tv – ho fatto pure l’assistente di studio -, rendi molto bene l’idea. Ultimamente c’è su un canale Sky – purtroppo non ho Sky e non l’ho mai visto – una (credo) fiction che parla di autori di fiction depressi per la schifezza che stanno realizzando (“io ipotecavo il mio futuro al mezzo, in fin dei conti io rinunciavo a una carriera accademica, a un qualsiasi mestiere puramente intellettuale e all’innocenza.”)
    Un sacco di gente che lavora in Tv si sente esattamente così.

  4. marco, il canale è fox, la fiction è boris, la produzione si chiama wilder, su youtube ci sono delle clip. è vero che un sacco di gente, soprattutto in zona autoriale, fa tv per ripiego sperando di andaresene il prima possibile. però c’è pure una vasta messe di gente che lo fa perchè gli piace tanto proprio quella “forma morbosa di attrazione” che a altri fa orrore. non lo so, io trovo luca giurato una delle cose più sessuali dai tempi di disco bambina di heater parisi… comunque, cri, scurati genna e piccolo in realtà sono i vecchi teletubbies che cercano di salvarsi dalla disoccupazione.

  5. Già, già. Infatti, a un sacco di gente piace il lavoro facile, sporco, immediato del produrre due ore e mezzo al giorno di prodotto seriale che arriva in tutte le casa d’Italia, intorno al quale girano un fottìo di soldi, che garantisce a migliaia di persone una celebrità che altro che effimera: è piacevolissima, suppongo.
    Non so, dipende. E’ vero che quello dello straneamento è un problema soprattutto degli autori. Ma è del tutto comprensibile: nel paragone con molte altre attività intellettuali, il “fare televisione”, forme morbose d’attrazione o meno, ne esce con le ossa rotte.

  6. “a un sacco di gente piace il lavoro facile, sporco, immediato del produrre due ore e mezzo al giorno di prodotto seriale che arriva in tutte le casa d’Italia, intorno al quale girano un fottìo di soldi, che garantisce a migliaia di persone una celebrità che altro che effimera: è piacevolissima, suppongo.” – non sempre, non necessarimente produce soldi e fama. non sempre, non necessariamente è un lavoro sporco. Di certo non è un lavoro facile. A qualcuno piace farlo, e basta. con sacrifici e rinunce. senza volere a tutti i costi darsi arie da intellettuale. si puo’ vivere bene anche senza.

  7. invece, cara emilia, bisogna dire le cose come stanno: la letteratura è più forte della televisione, che a sua volta è più debole del cinema. la radio sta approssimativamente tra cinema e televisione, con il teatro che si piazza di poco dietro la letteratura, e non si lascia raggiungere dal cinema. a paragone della tv, risultano più deboli solo i fotoromanzi, la prostituzione e la settimana enigmistica, che ne esce con le ossa rotte.

  8. Più forte… dipende dal metro di paragone… come impatto collettivo è purtroppo piu forte la televisione della letteratura; per quanto riguarda la qualità, parlando in termini assolutamente generali e generalistici, in Italia, la letteratura è piu forte della televisione sicuramente e nel senso di migliore. In altri paesi non è così, ci sono dei “prodotti” televisivi che possono battere la letteratura, anzi, spesso la letteratura, la narrativa, attinge da quei prodotti tv, che diventano letteratura. In Italia questo non succede perche’ c’è assoluta approssimazione nell’approccio al mezzo televisivo che è, per l’appunto, un mezzo che va riempito di contenuti. ma è un discorso vecchio quanto il cucco…

  9. Caro Peppe questo pezzo tutto cuore mi piace assai. Certo, certe cose le possono scrivere solo ex-dipendenti, ex-interni o tuttalpiù ex-dispendiosi consulenti – tipo che Saxa e’ un contenitore di umanita’ impazzite, di fannulloni, di casi umani, di simpaticissimi cialtroni, di raccomandati, di rispettabili professionisti e di pischelli che a forza di portare caffe’ rispettabili lo diventeranno. Di scrittori, pero’, neanche l’ombra, specie nel parcheggio ospiti – hanno potato tutti gli alberi.

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