Note a margine di Sfida infernale: l’epos nel western di John Ford

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di Luigi Metropoli

Ricordo un’intervista, di qualche tempo fa, una perentoria affermazione di Robert Duvall: “Gli Inglesi hanno Shakespeare, noi abbiamo il western”. Più che la desacralizzazione del più grande mito letterario anglosassone Duvall sottolineava l’importanza che il western riveste per il suo popolo, individuando in esso quanto di più tipico gli USA abbiano prodotto in ambito creativo: incarnazione del mito della fondazione, della storia di un paese, con la sintesi di più epoche sovrapposte, come in un’acronia da tempi preistorici in cui leggenda e realtà si fondono (e si fondano). Sintomatico che la più grande potenza mondiale abbia fatto del racconto visivo, più di quello orale, lo strumento per celebrare al meglio la “nascita di una nazione”: si tratta, piuttosto, di una “forma” (prima che di un genere) tipicamente americana (per cui si potrebbe parlare di doppia fondazione). Quando si parla di cinema (e in particolare di western), negli States, la percezione è completamente diversa dalla nostra, affondando le radici in un processo sociale se non addirittura antropologico: è cinema e molto di più (non esiste verosimilmente nei paesi europei un genere cinematografico che assolva le stesse funzioni del “mito della frontiera”: per rintracciare simili tratti fondativi, per noi europei, occorre retrodatare vertiginosamente l’origine, ma soprattutto cambiare forma d’arte e ritornare all’oralità della letteratura).
Il western è la Storia degli Stati Uniti, è il suo Medioevo che con John Ford giunge all’età classica. Tracciare la storia del genere americano per eccellenza, raccontarne i punti salienti equivale a raccontare non solo il cinema americano, non solo l’era in cui i film sono ambientati, non solo il tempo in cui quei film sono realizzati, ma significa ripercorre il “mito”, in chiave americana.
Il western è innanzitutto frontiera (anche temporale, stando a quanto appena scritto), confine, battaglie, conquista, stato naturale e/o umano, barbarico e/o civile, eroi, costruzione di una civiltà…
I “visi pallidi” civilizzatori assediano i barbari pellerossa, si appropriano di terre, tracciano confini con lo sguardo, respingono l’orizzonte.
Con Ford, dicevo, il western segna un passaggio al classico. Ford è l’Omero americano, il cantore.
Con lui il genere diventa maturo e di conseguenza si arricchisce di sfumature e ne guadagna in complessità. Ford è al di qua e al di là della frontiera: delimita aree tematico-formali, traccia perimetri, li distrugge, li ricompone. L’epos gli è proprio, è la sua cifra, ma lo rimodula. Cos’è Ombre rosse se non una divagazione su caratteri, psicologie, un ricamo su un assedio? Pensate a Tombstone nel 1880, in Sfida infernale: ci sono tutti i topoi di un poema classico: il viaggio (nostos) del protagonista Wyatt Earp, l’approdo in una terra nuova e ignota, l’uccisione, da parte di un clan opposto, del fratello più giovane, il giuramento sulla tomba, l’estraneità e l’ostilità di quella terra, il nemico, la vendetta, il rituale nella preparazione alla sfida sull’OK Corral. Infine la conclusione borghese, del tutto americana stavolta: l’integrazione e il possesso di quella terra straniera (e qui non è il ritorno di Ulisse ad Itaca, con tanto di eliminazione dei Proci, né l’assedio a Troia, bensì il riconoscimento dello status di cittadino americano, ottenuto tramite il sacrificio, la fede puritana nell’etica dell’ordine e nell’ideologia della produzione e del progresso, nonché l’affrancamento da uno stato di disordine iniziale).
Ma Sfida Infernale è molto di più: all’epos si aggiunge il tragico e finanche la commedia. Il western è il genere perché ne diventa la summa. Con questo film del ’46 Ford fa sì che il genere si transustanzia, subisca un metamorfico accrescimento di quelli che erano i suoi luoghi e i suoi temi: già non si guarda più alla nobiltà d’animo dell’uomo bianco e al suo candido desiderio di trovare un fazzoletto di terra. Non vi è più nulla di rassicurante: scontri tribali, morti violente, bari, alcolizzati, bande criminali. Sfida infernale sancisce la conquista e la fine della tranquillità western. Con questo titolo si pongono le basi della ricerca del genere su se stesso. È ricerca dell’identità a più livelli: quella di Doc Hollyday, il medico annichilito dall’alcol, che recita Shakespeare nella più abile dimostrazione dell’impossibilità di un umano e utopico lirismo nelle lande selvagge del West (e soprattutto impossibilità di conciliare la ricerca, lo scavo di una profondità umana con la logica dell’utile).
È la ricerca dell’altro, il tortuoso viaggio in uno spazio e un tempo, non più fisico, del protagonista (un John Wayne in gran forma) del più tardo Sentieri Selvaggi (1956), altra tappa significativa, altro trapasso, altra metamorfosi: dall’epos omerico a complessità sofoclee se non addirittura pre-deleuziane.
È l’elegia dei “tempi andati” (dell’instabilità? dell’anarchia? dell’eterna frontiera?), altrimenti cosa rappresenta la Monument Valley, da sempre sullo sfondo?
Il western diventa un saggio, il ripensamento delle sue forme e dei suoi contenuti. Come sarebbe stato possibile,altrimenti, scavare un abisso così profondo a sfondo della figura di Doc Hollyday, personaggio intimamente tragico, contornando la sua vita con la presenza della bella mezzo-sangue Chihuahua? E cosa dire del ruolo del teatro (che vede ancora protagonista Doc) e della poesia? Come sarebbe stato possibile inarcare un’ellissi così spiazzante e disorientante su un simile personaggio (nemmeno protagonista, per giunta, dal momento che è il grande Henry Fonda col suo Wyatt Earp a tessere le fila della storia!) in un western, mettiamo, precedente agli anni ’30, prima ancora di Ombre rosse? Ecco, delle simili digressioni, un simile personaggio avrebbero ragione di essere in un western degli esordi?
E soprattutto cosa rappresentano queste digressioni tragico-elegiache in un genere che nasce epico e tale dovrebbe restare?
Epos, tragedia, elegia si fondono. Film di avventura, di azione, di sotterranei scorrimenti carsici che provocano smottamenti, micro-fratture, fenditure, film di vite sospese, spaccati sociologici e storici. Tutto questo è John Ford.
Soggiace al racconto filmico una volontà, quasi shakespeariana, di fare del genere una grande cornice per inserirvi tutti gli ingredienti della vita, tale che la forma si fluidifichi e si rilasci in un’osmosi continua con i contenuti. Il risultato è un flusso espressivo rigenerato, mai statico, in evoluzione centrifuga che generi microstorie in equilibri narrativi, tematici, formali prima impensabili.
Non so quanto sia azzardato, tuttavia Ford è il Kurosawa americano, o meglio Kurosawa è il Ford giapponese: il racconto corale, lo sguardo da antropologo e analista insieme, ma profondamente umano nel saper cogliere la complessità e tragicità del singolo, l’epos (western in Ford; “eastern”, da samurai, in Kurosawa) in cui il moto orizzontale del racconto si traduce in un contrappunto della scansione ritmica in verticale, la varietas stilistica all’interno di un genere apparentemente individuato; insomma, un’espansione totale del genere che esonda e rifluisce con relitti di altre aree (beninteso, resta una sostanziale differenza: l’ineluttabilità del fato nelle vicende degli eroi di Kurosawa si distanzia dall’etica del self made man fordiano).*
La frontiera è metafora non decrittabile di una complessità fondante, forse allegoria di un non più razionalizzabile piano del reale, così come le articolazioni shakespeariane e pirandelliane emesse dalle imperscrutabili volontà/fatalità dei samurai kurosawiani.
L’epos sporcato di ‘900 di un maestro del cinema.

*La vicinanza del western con il cinema di Kurosawa può essere più chiaro se si pensa alla versione “americana” de I sette samurai, diventati in mano a John Sturges I magnifici sette, pena però la perdita di mordente, carattere e soprattutto lo sfaldamento di quella varietas narrativa e stilistica che rende vivo, pulsante, impareggiabile il capolavoro del regista giapponese ponendolo, a ragione, fuori da una individuabile categoria cinematografica (va da sé che Sturges non è Ford e il suo cinema si riduce ad un compitino canonico ben eseguito e nulla più).

37 COMMENTS

  1. Be’, il cerchio direi che si chiude se si pensa che alla base di PER UN PUGNO DI DOLLARI – pioniere di quella straordinaria rilettura in chiave europea dell’epica americana che furono gli spaghetti-western – vi sia proprio Yojimbo di Kurosawa (anche se quest’ultimo l’aveva a sua volta mutuato da Red Harvest – Piombo e sangue, un ottimo romanzo di Dashiell Hammett datato 1929).

  2. Gli inglesi hanno Shakespeare, gli americani il western – giusto! ma non va dimenticato che entrambi hanno in comune la Bibbia…

  3. purtroppo il rapporto tra cinema di Kurosawa e western rischia di essere una banalità critica – ricordo al proposito un bell’articolo di Vito Zagarrio…

  4. Shakespeare aveva la spada laser di Star Wars.
    “Ford è il Kurosawa americano”, “Soggiace al racconto filmico una volontà, quasi shakespeariana”: all’autore mandatelo a servire hamburger di mucca pazza da Mc Donald’s.

  5. Tu, invece, amico (di chi?), puoi andare solo in posto ben preciso: vuoi che te lo indichi?

    Perché non provi a spiegare? Secondo me, non ne sei capace. Mentre invece, ci scommetterei, risponderai con un altro “schizzettino” a questa mia osservazione.

    Ciao, vanzino.

  6. Certo che ‘sto tinosfila è sempre pronto a madare gli altri da qualche parte, eh? Un professionista del mandamento.

  7. La sequenza in cui Victor Mature interpreta il tubercolotico Doc Hollyday che ascolta rapito recitare Shakespare è antologia. E Fonda è un Wyatt Earp monumentale, roba che Costner dovrebbe vergognarsi per averci provato. E il bianco e nero di quel film è un capolavoro non ripetuto.
    Però quando si parla di Ford, Capra, Hawks, Hughes, si omette, quasi sempre, di parlare del ruolo delle Majors, degli studios e, soprattutto, degli sceneggiatori che scrivevano i film e delle star che li interpretavano. Forse erano loro i veri autori.

  8. Senti, occì, io non mando, indico. C’è un po’ di differenza, non credi? Comunque, ammesso che la cosa ti interessi, io non mi chiamo “tinosfila”, ma Tino S(alvatore) Fila, per gli amici “sfilatino”. Comprendi? Sfi-la-ti-no! E non sono *’sto*, perché, a quanto mi risulta, non sei ancora passato nella mia panetteria.

    E poi scusa, oppì, sei per caso tu l’amico di “amico” (di chi?)?

    Al quale “amico” devo porgere le mie scuse per non averlo riconosciuto subito e averlo scambiato per il “vanzino”. Infatti, lui altri non è che il “Mutandini” in incognito. O forse il “Miobraghetti”. Venuti, in ogni caso, a prendere appunti per il prossimo aggiornamento.

  9. Quando chiedono a Tinto Brass se la sua passione per i culi non lo ha portato a fare cinema monocorde e di facile scrittura, se non erro risponde sempre che John Ford aveva come lui la passione per i culi, solo che preferiva quelli dei cavalli, e che cmq era un gran regista…
    Lorenz

  10. Qualcuno spiega che cosa sta cercando di dire Tino? Avete un linguaggio in codice in questo posto?

  11. Senti, amico (di chi?), ma ci sei o ci fai?

    Entri in questo thread e scrivi:

    “Chi ha scritto questo pezzo non sa di cosa sta parlando. Che sfacciataggine!!!”

    Come biglietto da visita non c’è male: uno si presenta come meglio crede, con la faccia che utilizza quando si rade, o con quella che accarezza con dieci piani di morbidezza. Tu hai scelto la seconda, ma sono affari tuoi. Io, come lettore del tuo commento, mi aspetto che tu spieghi, almeno per cenni, perché l’autore del pezzo debba considerarsi un incompetente e cos’è che lo rende sfacciato. Niente.

    Non contento del nulla che hai lasciato in forma di commento, torni alla carica con un bell’insulto:

    “… all’autore mandatelo a servire hamburger di mucca pazza da Mc Donald’s.”

    E qui cominciano a girarmi i coglioni di brutto, perché stavolta non solo non spieghi il tuo schizzettino di merda, ma mi costringi, contro la mia volontà, a sentirmi coinvolto in prima persona, avendo io espresso apprezzamento per il post.

    Ma quello che me li fa girare a una velocità supersonica, è il tuo successivo intervento:

    “Io ho spiegato e tu non hai capito. Ma siete tutti così qui?”

    Ma che cazzo avresti spiegato, tu, amico (di chi?)? E quel “qui” che cosa sta a significare? Che se c’è un idiota in questo sito, automaticamente tutti gli altri, autori e commentatori, lo sono? Scusa: ma tu chi cazzo sei?

    Ecco quindi spiegato il linguaggio cifrato, anche se mi meraviglia il fatto che uno studioso di cinema come te non sappia poi decrittare un semplice messaggio, nemmeno tanto subliminale. Vuoi che sia più chiaro?

    Bene, al tuo avvocato, il dott. O.C., che era corso in tua difesa, io non ho fatto altro che ribadire che ti avevo mandato affanculo. Oh, scusa, non è proprio così: ti avevo solo indicato il posto dove andare: affanculo.

    Chiaro, adesso?

    E, permettimi.
    Se, come hai potuto constatare, “qui” siamo tutti “così”, perché non te ne torni “lì”? Sì, proprio lì, nel posto di cui sopra.

    Eccoti accontentato, anche se tutto ciò mi costa la moderazione, o la quarantena, o l’espulsione. Vedi in che guaio mi hai cacciato? Ti bastava spiegare, con molta semplicità, perché quel pezzo non regge.

  12. Non ho nessuna intenzione di metterti in quarantena. Se tutti i commentatori fossero come te l’aria di questo posto sarebbe più pulita.

  13. Gran bell’articolo, di classica misura, direi, in cui ogni parola è pesata e meditata. E’ così che si dovrebbe sempre parlare di cinema. Ottimi gli accostamenti Shakespeare-western, western-USA, Ford-Kurosawa e giustamente Ford al centro come “classico” nel western e nel cinema americano. Illuminanti anche gli spunti sui singoli film. Grazie a Luigi, e a Franz per averlo proposto.

  14. Innanzitutto, in calce a un articolo che pone questioni così interessanti su cui discutere, le piccoli querelles private andrebbero lasciate perdere.
    Il cinema western americano è sicuramente una parte dominante della cultura USA, e per certi aspetti credo che abbia pure maggiore rilevanza delle opere di Poe o di Faulkner.
    John Ford ci mostra lo spirito americano come nessun altro ha saputo fare, e ci permette persino di capire la società USA del terzo millennio

  15. 1) L’articolo è quanto di meglio si possa dire sul western
    2) Spiace solo che non citi “Un dollaro d’onore” di Howard Hawks
    3) L’epica è dei popoli giovani, la tragedia di chi ha una tradizione da rimpiangere: per questo samericani e giapponesi possono fonderle in due grandi narratori (che giustamente vengono qui avvicinati). Noi europei no, perchè siamo solo decrepiti.
    4) “Amico” non capisce un fico

  16. a Clementine che chiede se il Bardo maneggiava la pistola: stando a Baz Luhrmann sì.

    a Ottomarco che dice che Ford incarna come nessuno lo spirito yankee: bisogna proprio avere la toppa sull’occhio per affermare ciò!

    a Binaghi che si lamenta per la mancanza di Hawks: e hai ragione, anzi ragionissima, perché Ford è stato scavalcato a destra da Hawks, a sinistra da Peckinpah e tutti e tre han preso la paga dall’Eastwood del Cavaliere Pallido e dello Straniero senza nome (Leone fuori quota perché non americano).

  17. Dài, O.C., non prendertela, non fare così. Alla fin fine, si tratta di un titolo professionale. E in un paese come questo, può sempre venir buono.

    Pensa che anche a me, quando faccio le consegne al mattino, qualcuno dice: “Grazie, dottore”. Dottore, capisci?

    Sciàu.

  18. Vorrei ricordare che J. Ford è stato il primo regista americano a far fare la parte dei pellerossa a generici o caratteristi nativi americani.
    E in Ombre Rosse non potrò mai dimenticare i dieci secondi in cui, all’inseguimento della leggendaria diligenza, un indiano fiero ed abilissimo su di un cavallo al galoppo sfrenato ricarica la sua carabina Sharp e spara.
    Una ripresa bellissima ed una dignità di guerriero veramente alta, rara.

    Mai dimenticare poi che John Ford non era un americano di vecchia data, ma di recente origine irlandese ed era molto legato alla sua Irlanda, se posso dire: era molto europeo.

    MarioB.

  19. Infatti, oltre a capolavori celebrati come “Furore” o “Sentieri selvaggi”, nessuno può dire di conoscerlo se non ha visto “Un uomo tranquillo”: meraviglioso atto d’amore al suo paese d’origine. Chi osa giudicare questo un film minore ce l’ha piccolo.

  20. Intanto ringrazio Franz per aver inserito questo mio articolo di qualche tempo fa.

    “purtroppo il rapporto tra cinema di Kurosawa e western rischia di essere una banalità critica – ricordo al proposito un bell’articolo di Vito Zagarrio”.
    Caro Giuseppe (Panella), hai ragione, tuttavia è un rischio tanto considerare le affinità quanto non citarle per niente. E’ ovvio, poi, che le differenze siano sostanziali (ne ho indicata una soltanto), ma quanto alla rappresentatività “nazionale” e alla preponderante peculiarità epica dei loro film, tanto Ford quanto Kurosawa non possono non essere accostati tra loro.

    Valter, hai citato uno dei western che amo di più: Un dollaro d’onore, ma in questo caso, semplificando molto, l’aggettivo “crepuscolare” ci sta più che “fondativo”.

    Per Bruno:
    “Però quando si parla di Ford, Capra, Hawks, Hughes, si omette, quasi sempre, di parlare del ruolo delle Majors, degli studios e, soprattutto, degli sceneggiatori che scrivevano i film e delle star che li interpretavano. Forse erano loro i veri autori.”
    Vai a toccare un punto chiave dell’intero cinema hollywoodiano. Qui tuttavia occorrerebbe un libro a parte.

    Un grazie a chi commenta (apprezzando o meno).
    Nessuno è perfetto ;)

    Luigi

    PS
    un caro saluto agli amici Giorgio (Morale) e Marco Saya!

  21. va bè che se non hanno lo specifico filmico non sanno nulla, però, ciaruffoli, prenditi una bella vacanza…

  22. ‘Azzzzz!!! E chi se lo sarebbe mai creso!!!! C’è anche lui, il famoso teorico de noantri dello ‘sprechifìco frìmmicco’!!! Il celebre direttore dei “Cahiers du Cine – mah!”!!!

    Devo proprio segnarmela, questa. Un giorno anch’io potrò raccontare ai miei nipoti: in quel post, quando apparve Lui, io c’ero!!!

    Metropoli, mi permetta un consiglio: se vuole uscire dal dilettantismo, legga e mediti il commento n.30: è così che si fa critica, e non solo cinematografica. Non trova?

    Però, che pen(n)a, ‘sti poràcci in egorama.

  23. Tino S. Fila, ha ragione, seguirò il consiglio.
    Tuttavia il thread mi diverte.
    So che Ciaruffoli ha scritto un libro su Kubrick. Magari un giorno lo leggerò. Se la prosa ha il taglio che mostra al commento 30 sarà accattivante.

    Ad ogni modo, viva le certezze e chi ne possiede.

    non credo che quest’articolo fosse esattamente critica cinematografica. Infatti, lei Tino, argutamente scrive, cinematografica e non solo :)
    Mi sembra un approccio più trasversale.

  24. il western di leone (come tutto il western-spaghetti) è semplicemente orrendo.
    oltre che filmicamente ributtante, gli manca l’etica.
    perché è italiano.
    morricone ne è il degno commentatore sonoro.

  25. Beh, lei è troppo buono.

    Veda, anch’io ho scritto un libro, su commissione delle mie coinquiline (età media: ottanta/ottantacinque anni) e con la benedizione del prevosto che le ha accompagnate l’anno scorso a Rimini, dove si sono esibite, in spiaggia, in abitini similadamitici: “Il tanga e l’immortalità dell’anima”. Lei crede che questo faccia di me un esperto in materia di ‘costumi’ (e mo’ ce vo’!) sessuali della terza e, volendo, anche della quarta, età?

    Ma ‘glissons’, come dicono i lettori dei Cahiers du Cine-mah!

    Anch’io sono molto divertito da questo thread. Essenzialmente per una ragione. Sulla quale ho un po’ riflettuto (in genere non è il mio mestiere, non sono molto versato in materia, ma di tanto in tanto capita anche a me), e gliela espongo, non prima di averla avvertita che mi sono riletti tutti i commenti, in particolare alcuni (cfr. n.30 et similia), per evitare qualche abbaglio di riflesso.

    Io credo che i suoi “critichi” (sì ha letto bene!) non abbiano nemmeno sfogliato il suo scritto, solo un’occhiatina un po’ qua un po’ là, alla ricerca della parola o dell’espressione sghemba sulla quale, poi, avrebbero costruito i loro arzigogoli ortofrutticoli, se qualcuno, non ricordo più chi (che dio lo benedica, comunque!), non li avesse ‘simpaticamente’ affanculati.

    Non so se ricordo bene (capirà, anche questa non è una delle mie attività preferite), ma mi sembra di aver sentito dire, forse da una delle nonnine di cui sopra, che le parole (in questo caso, in forma di ‘titolo’ del pezzo) contengono l’essenza (meglio non esagerare, via), il senso, delle cose (in questo caso, il ‘pezzo’ stesso).

    Dunque, mi corigerà si sbàlio, ma nel titolo lei, più o meno, dice: prendendo spunto da “Sfida infernale” di John Ford (“note in margine”), provo a proporre qualche riflessione (lei può permetterselo) su una delle possibili ricezioni dell’epos nella contemporaneità, in particolare presso una cultura, nello specifico quella americana, che, priva, per ovvie ragioni, di una “tradizione orale” salda e canonizzata, se l’è costruita attraverso l’immaginario cinematografico, del quale il western, e i suoi topoi fondanti, vogliono rappresentarne, se non una prosecuzione, una sorta di surrogato.

    Ho letto bene il tutto? Credo proprio di sì. L’intelligenza del suo testo poi, ha avvalorato questa ipotesi: grande coerenza tra tesi ed argomentazione, tra tema enunciato e svolgimento. Punto. Ecco perché, pur senza entrare nel merito delle sue affermazioni, ho esordito dicendo che il pezzo era bello e ben costruito. Mi sarei aspettato tutto, quindi, tranne un excursus tra il tecnico e il teorico sulla particolarità delle riprese o simili, perché, pur essendo materia interessantissima, avrebbe rappresentato una palese contraddizione rispetto all’enunciato. Poteva rientrarci, e in qualche punto ciò è avvenuto, ma sempre nel rispetto del rigore argomentativo. Il cui contenuto si può condividere o meno, ma non è questo il punto. Lo diventa, sotto forma di discussione, nel momento in cui tu ti trovi di fronte a una serie di “domande” specifiche, non a delle boutades da avanspettacolo simlbagagliniano.

    Ecco quanto. Capirà (per lei è facile, immagino; io, invece, ho problemi anche in questo settore ‘produttivo’), quindi, perché poi uno si incaxxa come una iena…

    Piuttosto, appena ha del tempo da perdere, e visto che ne ha già perso abbastanza, magari, a leggermi, perché non (mi) illustra meglio quel punto del suo testo in cui, a proposito di “Sentieri selvaggi” (che titolo osceno, tra l’altro, a fronte dell’originale), parlava di passaggio “dall’epos omerico a complessità sofoclee se non addirittura pre-deleuziane”? Ecco, “pre-deleuziane” in che senso?

    Grazie, comunque.

  26. Il suo ultimo commento, Tino, coglie in pieno ciò che volevo dire scrivendo “approccio trasversale”.

    In riferimento a Deleuze:

    in Sentieri selvaggi (sì, titolo piuttosto fuorviante in italiano, ne convengo) il protagonista si trova di fronte all’altro-da-sé (le letture psicanalitiche del film sono fin troppe) che stavolta non è più solo il pellerossa, ma un’apertura che si situa, in una dimensione soggettuale, nel solco del diverso-sé-stesso. In ciò i risvolti sono anche politico-sociali.
    Avrei dovuto scrive “deleuze ante litteram” o inconsapevole, ma ora il pezzo è già là.
    Ovvio però che Ford è un conservatore, su questo niente da aggiungere.

    buona giornata

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