Fine settimana
di Giorgio Vasta
Andrea posò l’aculeo sul tavolo, tagliò una fetta di torta e la avvolse in un tovagliolo. Quando uscì di casa teneva l’involto in mano e subito vide Alice già lontana nella sera, sul prato bagnato di pioggia, al limite della cintura d’alberi dove cominciava il bosco. Lei gli fece un cenno.
Aspetta, gridò Andrea, e affrettò il passo facendo attenzione a non scivolare. Quando ormai era arrivato a pochi metri da lei rallentò e riprese un’andatura normale. Sentì rumore di fiato nelle orecchie e un odore di foglie nella bocca. Nella mano aperta, la torta si era sbriciolata un poco.
Andrea e Alice vivevano insieme da due anni. Lui era professore di storia, lei maestra d’asilo. Condividevano spese e interessi. Viaggiavano insieme, fumavano insieme, cucinavano insieme piatti di loro invenzione. Il loro era un legame moderatamente solido, fatto di ferro e sabbia, di precise intenzioni e di altrettanto precise esitazioni. Lo sguardo era nitido, raramente ironico. La violenza era come un bambino in castigo in un angolo. Il sesso era un meccanismo collaudato: lui le leggeva una storia alla luce della lampada mentre lei lo fissava in silenzio; poi lei si voltava su un fianco dandogli le spalle, chiudeva la testa tra le braccia e sorrideva; lui smetteva di leggere, chiudeva il libro, lo posava sul comodino e la guardava; le carezzava piano la nuca e le spalle, percorreva con il palmo della mano la schiena nuda e con l’indice ispezionava il solco tra i glutei fino a quando lei si voltava dal suo lato, lo tirava a sé, lo baciava, liberava una mano e spegneva la luce. Altre volte lei lo guardava parlare seduta sul letto, la schiena appoggiata alla parete, le ginocchia raccolte tra le braccia; lo guardava e faceva un rumore strano con la bocca, una specie di piccolo fischio, un sibilo; poi batteva la punta dell’indice sul labbro superiore e sembrava volesse dire qui, qui.
Andrea e Alice vivevano tranquilli. Quando di sfuggita si vedevano riflessi nello specchio del bagno – al mattino, mentre si preparavano per andare al lavoro – restavano sorpresi a guardare, si giravano l’uno verso l’altra e accennavano un sorriso.
Avevano preso in affitto una casa nella periferia della città, e durante la bella stagione trascorrevano il fine settimana in collina, in una piccola casa che i genitori di Alice avevano messo a loro disposizione, facendo lunghe passeggiate tra gli alberi, leggendo e dormendo fino a tardi. Nel corso dell’ultimo fine settimana Andrea e Alice avevano passeggiato più a lungo del solito nel bosco vicino casa percorrendo vecchi sentieri, arrestandosi soltanto quando grossi cespugli spinosi impedivano di proseguire. Alice aveva raccolto mandorle e noci dagli alberi e ne aveva tirata una ad Andrea per gioco. Andrea le aveva fatto cenno di smetterla e avevano ripreso il cammino. La sera del sabato, all’imbrunire, avevano visto uno scoiattolo sbucare da un cespuglio, guardare fisso davanti a sé strofinando le zampe sul muso, restare, aspettare, voltarsi indietro e scomparire nel folto del cespuglio. Sulla strada del ritorno Alice aveva trovato un aculeo nell’erba e lo aveva voluto portare a casa. Camminando dietro di lei, Andrea aveva guardato la massa di capelli castani oscillare sulle spalle a ogni passo e svanire lentamente nel buio. Restava visibile soltanto l’aculeo bianco che Alice teneva in mano come una bandierina. A casa, mentre preparavano la cena e la televisione trasmetteva il notiziario della sera, Alice non aveva risparmiato il suo sarcasmo nei confronti dei cugini di Andrea, che a trent’anni non lavoravano ancora e non sapevano cosa fare della loro vita. Andrea la ascoltava sorridendo un poco, le mani impegnate a sbucciare, a tagliare, a rimescolare. Dopo cena avevano guardato un film ed erano andati a letto. Aveva cominciato a piovere e sotto le coperte pesanti avevano fatto l’amore e sembrava di essere dentro il vento e nella pioggia, e nel rumore del vento e della poggia si erano addormentati, e nel cuore della notte Alice si era svegliata urlando finché Andrea non le aveva stretto le mani e l’aveva abbracciata; lei si era calmata e si era addormentata di nuovo con gli occhi bagnati. Al mattino aveva smesso di piovere, Alice ricordava poco del sogno notturno e Andrea aveva scherzato su quelle volte in cui non ci si ricorda di cosa si ha paura. Dopo aver fatto colazione avevano portato due sdraio sul prato davanti casa. Alice aveva preso il suo libro e si era seduta a leggere mentre Andrea, messi gli occhiali, correggeva alcuni appunti. Un signore distinto con la barba bianca era passato lungo il viottolo oltre il prato. Sembrava molto affaticato e si asciugava la fronte con un grande fazzoletto azzurro. Poco dietro veniva un cane dal pelo rossiccio che stringeva in bocca un bastone da passeggio. Andrea aveva sollevato gli occhi dai suoi fogli e aveva guardato quella strana coppia di passanti. Ad Alice non aveva detto niente e aveva continuato a guardare il signore e il cane allontanarsi fino a scomparire tra gli alberi. A ora di pranzo Andrea aveva preso della legna per accendere un fuoco all’aperto. Gli piaceva strofinare le mani sulla corteccia, sentirla staccarsi dai ciocchi, ma era dovuto correre in casa perché aveva ricominciato a piovere. Avevano mangiato un po’ di torta che Alice aveva portato dalla città e avevano cominciato a prepararsi per il ritorno. Guardando la pioggia rompersi sui vetri Andrea aveva ripreso il discorso di avere dei figli. Alice era rimasta in silenzio respirando forte. Muoveva le mani come se infilasse qualcosa nella cruna di un ago. Faceva dei nodi a un capello. Il capello si era spezzato, Alice lo aveva lasciato cadere, si era accesa una sigaretta e aveva soffiato il fumo sul vetro.
Una mia amica ha perduto un grado di vista durante l’allattamento. Capisci, il bambino le ha succhiato un poco di sguardo. Si è nutrito dei suoi occhi. Dicono che è una cosa naturale.
Lui teneva in mano l’aculeo e lo premeva con le dita facendo attenzione a non spezzarlo. Alice si era girata verso di lui e aveva sorriso.
Andiamo a fare una passeggiata prima di andare a casa? Non piove più.
Si era avviata senza aspettare.
Andrea si era portato una mano alla bocca per schiarirsi la gola e gli era parso di sentire un odore intenso. Si era annusato le dita. Aveva ripensato al cane e aveva guardato la torta sul tavolo.
Andrea camminava in silenzio. L’aria era umida e gli facevano male le gambe. Alice lo precedeva di alcuni passi. Stava fumando un’altra sigaretta e il filo di fumo si allungava lento alle sue spalle fino ad Andrea che sollevò la fronte e la guardò. Non era il momento, pensò, non è mai il momento quando si aspetta il momento, un momento. La testa gli si confuse. Vide la corteccia degli alberi, l’erba, le foglie rosse, gialle, le pietre. Avrebbe voluto trovare il signore con il cane ma erano passate troppe ore e stava facendo buio. Aprì il tovagliolo, poggiò la fetta di torta sbriciolata tra due grosse radici e sperò che il cane sarebbe riuscito a trovarla prima che le formiche l’avessero ricoperta. Alice si era voltata verso di lui, la sigaretta tra le dita. Nello sguardo, erba e pietre.
Più tardi, mentre viaggiavano in macchina diretti in città, Andrea aveva giocato ad associare parole. Uno sguardo di latte, gli era venuto in mente. L’aria dell’abitacolo odorava di foglie secche, di mandorle e noci. Andrea aveva continuato a guidare.
Arrivarono a casa quando era quasi mezzanotte. Alice decise di fare una doccia prima di andare a dormire. Andrea andò in camera da letto, accese il televisore, fece un rapido giro dei canali e spense. Si spogliò e indossò il pigiama. Andò in cucina, aprì il frigorifero e prese una mela e una pesca. Sbucciò la mela e la mangiò a pezzetti. Poi mangiò la pesca a morsi. Si spostò in soggiorno e aprì la finestra. Prese il freddo sulla faccia. Sul pavimento sotto la finestra c’erano delle piante in grossi vasi di terracotta. Toccò le foglie larghe e carnose. Sotto le dita sentì la polvere. Poggiò una mano sul davanzale: ancora polvere. Pensò di nuovo al cane e poi gli venne in mente Alice quando mangiava la frutta, lentamente, strofinando nel morso le labbra sulla polpa, e lo guardava assorta con gli occhi stretti.
Sentì il rumore dell’acqua che scorreva in bagno. Pensò ad Alice che gli faceva un cenno da lontano e lui non era sicuro se lei lo stesse salutando o se stesse cercando di fargli capire di non venire avanti; la vide – le mani sotto i gomiti, le braccia incrociate sul petto – mentre lo guardava senza parlare, si inumidiva le labbra, esitava, gli voltava le spalle e andava via; vide l’aculeo bianco che lei aveva trovato lungo il sentiero.
Il rumore dell’acqua era cessato. Sentì un fruscio provenire dall’altra stanza e andò a vedere. Alice era appena uscita dal bagno, aveva indosso l’accappatoio e strofinava i capelli avvolti in un asciugamano.
Non hai sentito qualcosa? disse Andrea.
Cosa?
Un rumore… un fruscio.
Non ho sentito niente.
Alice tornò in bagno continuando a strofinare forte i capelli. Nell’aria c’era un odore dolce, pulito.
Quando Alice rientrò in camera aveva già indossato la camicia da notte. Andrea era seduto sulla sponda del letto, stava fumando una sigaretta e scuoteva la cenere in un bicchiere. Alice portò indietro i capelli umidi con un gesto nervoso.
Non puoi evitare di usare i bicchieri come posacenere? Lo sai che non sopporto che fumi in camera da letto prima di andare a dormire.
Andrea smise di fumare e gettò il mozzicone nel bicchiere, in mezzo alla cenere. Restò seduto sul letto. Si accorse di non sapere che cosa dire, di fare fatica a rispondere. Fissò la cenere nel bicchiere. Sul fondo c’era una goccia d’acqua. Si alzò in piedi, andò alla finestra, la aprì e tirò su la serranda.
Mi dispiace, non ci ho pensato. Tra poco non si sentirà più niente.
Prese il bicchiere e uscì dalla stanza.
Il corridoio era buio. Andrea strinse gli occhi e annusò l’aria. Restò in ascolto sulla soglia. A piedi nudi sul pavimento sentì il freddo salire dalla pianta dei piedi e attraverso le gambe raggiungere i genitali. Trattenne il fiato. Dopo un poco non sentì più niente. Si spostò in avanti con un braccio teso e la mano aperta di fronte al viso. Raggiunse la porta della cucina, trovò la maniglia, la girò ed entrò. Accese la luce. Senza guardare posò il bicchiere sporco di cenere sul bordo del tavolo e si avviò verso il frigorifero. Il bicchiere oscillò e cadde. Andrea si girò di scatto, guardò il bicchiere in frantumi e la cenere sul pavimento. Restò fermo, si accucciò sui talloni e raccolse i pezzi di vetro posandoli nella mano a conca. Con uno sguardo si accertò di avere raccolto tutti i pezzi del bicchiere, soffiò via la cenere dal pavimento e si rialzò in piedi. Con la mano libera prese una pagina di giornale da un cassetto e avvolse le schegge. Poi gettò l’involto nel secchio della spazzatura. Si guardò intorno. Aprì il frigorifero, prese una bottiglia di latte e una d’acqua. Versò il latte nel bollitore e lo mise a scaldare. Si sedette su una sedia e aspettò. Gli venne in mente che da bambino aveva dato un morso a un bicchiere di vetro. Ricordò la sensazione del vetro nella bocca, il sapore del sangue sulle labbra e nella lingua, la voglia di inghiottire il sangue e la paura del vetro in gola, la cautela con la quale sua madre, china su di lui, gli aveva tolto il vetro dalla bocca. Volevo sapere com’era, aveva detto lui quando gli era stato chiesto perché, e come.
Guardò il bollitore sul fuoco e rivide il suo avambraccio flettersi, il polso che si piegava, l’indice e il pollice che formavano un cerchio raccogliendo dal pavimento i pezzi del bicchiere. Pensò che avrebbe dovuto prestare più attenzione ai suoi gesti. Disporsi in attesa, in ascolto. A un tratto i muscoli del collo gli si indurirono e sentì la gola stringersi. Fece una smorfia e poi espirò con decisione. Si alzò dalla sedia e spense il gas. Aprì il rubinetto dell’acqua, tolse il filtro dallo scarico del lavandino e passò la mano sul fondo per far scorrere via lo sporco. Prese due bicchieri dal mucchio delle stoviglie da lavare e li sciacquò. Qualcuno gli aveva detto che una volta piatti e bicchieri venivano lavati proprio con la cenere, strofinandoli forte con uno straccio fin quando lo sporco non si dissolveva. La cenere era così importante da essere addirittura accumulata e conservata e gli venne in mente che la cenere era, nelle favole, il posto in cui si nascondeva l’anello o la chiave d’oro o il proiettile: il segreto, cioè, o la colpa.
Chiuse il rubinetto ma non strinse abbastanza. Versò l’acqua e il latte nei bicchieri, posò le bottiglie sul tavolo, sollevò i bicchieri fra le dita e con l’altra mano prese un piatto con dei biscotti secchi. Spense la luce e uscì dalla cucina mentre un filo d’acqua continuava a scorrere nel lavandino pieno di stoviglie.
Alice sentì, poi si rese conto, che Andrea la stava guardando. Aveva in mano un piatto con dei biscotti, nell’altra reggeva due bicchieri. Si mise a sedere sul letto e lo guardò da sotto in su. Non aveva niente da dire. Lui le offrì il bicchiere con il latte caldo e posò sul letto il piatto con i biscotti.
Grazie. Avevo proprio bisogno di mangiare qualcosa.
Alice soffiò sul latte, ne bevve un sorso.
Mi dispiace per prima.
Non importa.
Lo sai che quando sono stanca reagisco male anche per cose da niente.
Non ha importanza, può capitare.
Alice guardò Andrea in piedi davanti a lei. Aveva i capelli tagliati corti che lasciavano scoperta la fronte. Si passava il palmo della mano sulla barba rada. Alice gli sfiorò il braccio e lo fece sedere. Gli posò una mano sul ginocchio, con l’altra gli coprì il polso. Ecco, pensò Andrea, ecco. Piegò la testa di lato e la guardò. Alice gli sorrideva calma, sull’orlo delle labbra un velo di latte. Andrea abbassò gli occhi. Pensò al signore distinto e al cane con il bastone in bocca. Pensò all’andatura impettita del cane, alle orecchie che si rizzavano quando sentiva qualcosa, alla testa che si muoveva a scatti – sempre attento, allerta – il bastone stretto in bocca, l’impugnatura da un lato, il puntale dall’altro. Pensò che ad Alice non aveva detto niente.
Andrea mosse le labbra. Alice credette che stesse per dirle qualcosa.
Sì?
Andrea alzò gli occhi, la guardò meravigliato.
Cosa? No… niente.
Alice mangiava i biscotti. Li prendeva uno a uno dal piatto, senza guardare. Li spezzava con un morso, lentamente li sgretolava dentro la bocca, inghiottiva. Era seduta sul letto, appoggiata con la schiena contro la parete, le gambe incrociate. Andrea era andato in bagno a lavarsi le mani, un filo di luce trapelava dalla porta socchiusa. Alice guardò la radiosveglia sul comodino. Scostò bruscamente il piatto dei biscotti e allungò le gambe. I piedi le facevano male. A quello destro sentiva un dolore come un crampo e allora lo piegò in avanti per decontrarre il muscolo. Fece per accendersi una sigaretta ma subito la tolse di bocca e posò l’accendino. Fissò la porta del bagno. Non riusciva a pensare.
Andrea rientrò in camera, sollevò il bicchiere con l’acqua dal comodino e bevve un sorso. Vide la carne della mano, la rotazione del polso. Sentì la pressione delle dita sul bicchiere. Ad Alice tremava la bocca.
Vieni a letto?
La sua voce era ispessita dal latte bevuto.
Quando Andrea si distese sul letto, Alice spense la luce e restò immobile. Cercò di respirare piano. Avrebbe voluto cacciare via il milione di formiche stretto nella testa e quel rumore che le impediva di pensare. Mosse le labbra in silenzio e le sentì di vetro, taglienti. Cercò di ricordare qualcosa ma non sapeva che cosa ricordare. Si toccò una gamba. Sentì in bocca la carne della lingua. All’improvviso si girò verso Andrea e cominciò a baciarlo sugli occhi, sulla fronte, su tutta la faccia. Gli strofinò una mano sul petto, gli morsicò la pelle. Quando Andrea rispose al suo abbraccio, Alice strinse gli occhi e un fuoco secco e silenzioso bruciò le formiche nella testa.
Andrea era disteso su un fianco. Il lenzuolo era avvolto in se stesso su un lato del letto. Il sudore raffreddava sulla schiena.
Alice aprì la porta del bagno e sorrise divertita. Vide gli spazzolini nel bicchiere, gli asciugamano appesi alla sbarra di metallo smaltato. La porta era rimasta accostata, allora Alice la chiuse bene. Sentì lo scatto della porta che si chiudeva, il suo perfetto allinearsi tra i margini della parete. Con un movimento leggero si sfilò la camicia da notte, prese da un ripiano un fazzoletto di carta e lo passò sul ventre e nell’incavo tra le gambe. Mentre si puliva le sembrò di andarsene, di tornare indietro. Ebbe la sensazione di strofinare via dal corpo tracce di gesso e le parve che la pelle, da un momento all’altro, dovesse stridere alla frizione. Non sapeva spiegarsi come e perché, e allora, ancora sorridendo, portò il fazzoletto al viso e lo annusò.
Era montata sulla bilancia accanto alla vasca da bagno e giocava a far oscillare l’ago restando in equilibrio prima su un piede e poi sull’altro. Guardò in basso la fila di numeri scorrere fin quando sentì la testa pesante e gli occhi le si velarono. Allora dovette scendere dalla bilancia e sedersi sul bordo della vasca. Chiuse gli occhi e subito le venne in mente il sogno della notte prima. L’immagine, adesso, si componeva nitidamente. Si trovava su di una spianata che somigliava a un acropoli e c’erano dei grandi recipienti di legno, come dei tini, alti e larghi quanto l’altezza di un uomo. Sapeva che erano pieni d’acqua scura e il vento soffiando la faceva gorgogliare e creava increspature sulla superficie. Camminava per i sentieri formati dalle convessità dei recipienti e quello che adesso la sorprendeva era che, pur essendo consapevole di camminare saldamente su un livello inferiore, lei, nel sogno, aveva avuto paura – anzi, l’assoluto terrore – di cadere dentro l’acqua.
Provò ad alzarsi. Sentiva le mani intorpidite. Le strofinò l’una contro l’altra e batté il dorso sulle gambe. Aprì il rubinetto, le mise sotto l’acqua fredda e le guardò bagnarsi. Alzò gli occhi verso lo specchio e piegò la testa di lato. Sentì freddo alla nuca e alla schiena. Si asciugò le mani continuando ad ascoltare lo scroscio dell’acqua. Passò l’indice sull’orlo arrossato degli occhi, sopra le palpebre. Strofinò piano due dita su una tempia e sullo zigomo, pizzicò la pelle sotto gli occhi. Alla luce al neon dello specchio le sembrò che la sua pelle fosse diventata friabile, sembrò potesse andare via strofinandola un poco, soltanto grattandola con le unghie. Le venne in mente Andrea con il pezzo di torta sbriciolata in mano, Andrea che posa la torta sotto un albero e si muove piano, e non la guarda mai. Ebbe la sensazione come di un brusio che montava dal fondo della gola e crescendo sorgeva alla bocca. Chiuse il rubinetto di colpo e si appoggiò al bordo del lavandino.
Andrea aveva tirato su il cuscino e lo aveva messo contro la parete. Stava seduto e continuava ad annusarsi le dita, il palmo delle mani, il dorso fino ai polsi. Alice tornò in camera e si appoggiò con un ginocchio contro la sponda del letto.
Che cosa stai facendo?
Andrea pensò che non avrebbe dovuto essere lì; pensò che quello non era il luogo giusto, non era il momento. Prese il bicchiere dal comodino e bevve a piccoli sorsi. Provò il vetro con le labbra, con i denti. Tirò un respiro profondo: sentì in bocca il sapore di ruggine dell’acqua. Pensò che non aveva voglia di parlare.
Senti, disse, le mie dita fanno ancora odore di legno.
Sollevò una mano verso Alice che la annusò. Lo fissò.
Non si sente niente. Solo nicotina.
Si guardarono. Alice gli strinse le dita, si inumidì le labbra, esitò, guardò una piega del lenzuolo.
Andrea sollevò un poco la testa dal cuscino, poi la riabbassò. Era disteso sulla schiena. Guardò Alice che dormiva rannicchiata accanto a lui, le sue natiche gli premevano contro il fianco. Era notte fonda. Provò ancora a chiudere gli occhi, a rimanere immobile. Sentì una vena pulsare sul collo. La toccò, ebbe l’impulso di strapparla. Deglutì. Ascoltò i rumori del traffico notturno, lontano. Si sollevò sui gomiti, vide un riflesso di luce sullo schermo buio del televisore ai piedi del letto. Facendo attenzione a non svegliarla, scostò il suo corpo dal corpo di Alice.
A piedi nudi uscì dalla stanza, raggiunse il soggiorno, cercò l’interruttore sulla parete e accese la luce. Si sedette contro il bracciolo della poltrona. Aveva voglia di uscire ma non se la sentiva. Non aveva voglia di leggere, e poi gli occhiali erano rimasti di là, sul comodino, e non voleva tornare a prenderli per non svegliare Alice. Si accese una sigaretta e pensò di ascoltare la radio. Passò da una stazione all’altra fino a fermarsi su una voce maschile, intensa e persuasiva, che discuteva di scienza. Andrea si domandò chi, a quell’ora di notte, stesse ascoltando quel programma. Adesso la voce alla radio stava parlando di assorbimento, del modo in cui alcuni organismi, virus o formazioni astrali, riuscissero ad assorbire organismi più deboli. Non si trattava di un vero e proprio fenomeno di parassitismo, diceva, in quanto l’organismo più debole, se non fosse stato assorbito da un altro organismo, non avrebbe più potuto esistere e il suo ciclo vitale sarebbe stato interrotto. Attraverso l’assorbimento invece, il suo ciclo vitale veniva integrato in quello dell’organismo più forte.
Andrea guardò la radio. Cercò di immaginare la faccia dell’uomo che stava parlando. Cercò di ricordare la faccia di tutte le persone che conosceva. Ridusse il volume della radio fino a un brusio.
Andrea era seduto in poltrona. Strofinò forte le dita con un fazzoletto, le annusò ancora, le allontanò e cercò di capire se sentiva o no l’odore. Avrebbe dovuto essere un odore spesso, vegetale, odore di terra, di radici. Provò ancora ad annusare ma non era sicuro. Solo nicotina. Nascose le dita nella mano, la mano in grembo. Pensò all’odore delle foglie, delle noci. Poggiò la testa sulla spalliera della poltrona e cercò di rilassarsi. Batté le palpebre, chiuse gli occhi.
Percepisce la resistenza della luce nei fili elettrici. Percepisce la resistenza della luce nei fili. La resistenza della luce. La luce nei fili. Andrea aprì gli occhi di colpo e si alzò in piedi. Si diresse verso un mobile, rovistò in un cassetto e tirò fuori una candela. Si abbassò sui talloni, aprì uno sportello e guardò dentro; spostò alcuni utensili, cercò sotto ogni cosa. Si rialzò e andò in cucina. Aprì un cassetto, frugò, ne aprì un altro, cercò dentro, lo lasciò aperto. Sbuffò e si guardò intorno. Afferrò una forma di pane da un cestino e tornò in soggiorno. Conficcò la candela nella forma di pane, la accese e la posò sul tavolo basso accanto alla poltrona. Schiacciò l’interruttore sulla parete e la luce si spense. La fiamma trovò l’equilibrio e rischiarò la stanza. Andrea si abbandonò sulla poltrona. Con il palmo della mano premette la vena che aveva ripreso a pulsare sul collo, fino a quando tutto rallentò, i muscoli diventarono liquidi, gli occhi si chiusero, la fronte si distese. Si addormentò. Fuori aveva ricominciato a piovere. La pioggia batteva secca sulle strade, sui muri delle case, sulle ringhiere, sulle pozzanghere sotto i marciapiede. Rumore di pneumatici sull’asfalto bagnato.
Alice si era girata sullo stomaco, la testa schiacciata sul cuscino, il respiro lungo e pesante, le labbra asciutte. Nel sonno tirò su il lenzuolo che era scivolato in fondo al letto e si coprì.
Uno stridere lungo di freni per strada. Uno schianto.
Andrea si svegliò. Serrò le dita sui braccioli. Non si mosse.
Il centro di un incrocio tra due strade periferiche. Tracce grigio scuro di frenata sull’asfalto. Un piccolo furgone scoperto ribaltato, il lato destro compresso al suolo, su quello sinistro una profonda incavatura all’altezza del posto di guida. Una
ragnatela di vetri sul parabrezza. I pneumatici inerti nell’aria. A pochi metri di distanza dal furgone, un automobile: il paraurti anteriore completamente rientrato, la lamiera del cofano accartocciata contro l’abitacolo, le strutture del motore spaccate e incastrate l’una nell’altra. Sui tagli della lamiera frammenti di vernice bianca. Il parabrezza esploso, i tergicristalli spezzati. Lo sportello anteriore destro parzialmente divelto. Polvere di vetro sotto la luce bianca dei lampioni. Aria secca, cenere. Nell’abitacolo il corpo di un uomo riverso sul volante, le braccia lungo i fianchi, la testa piegata di lato, immobile. La camicia lacera, intrisa di sangue. Un gonfiore tra le scapole: una sacca carnosa o un ispessimento dell’epidermide. Un’abrasione a raggiera sul torace, l’anca frantumata contro la struttura metallica dello sportello. La pelle degli zigomi e della fronte tesa contro le ossa del cranio, una tumefazione scura alla tempia, pelle strappata sotto l’occhio sinistro. Un nodo di vene in rilievo su un lato del collo e sul dorso delle mani. Frammenti di vetro penetrati nella cute del volto e delle mani, sotto le unghie. La carne delle labbra ancora piegata nel sorriso indotto dalla proiezione contro lo schienale. Sangue secco sui sedili. Sul pavimento dell’abitacolo un ombrello nero, giornali, una borsa di materiale sintetico, un pettine d’osso, biscotti. Sotto il cruscotto spalancato una torcia elettrica, fazzoletti di carta appallottolati, un pacchetto di sigarette, fotografie, monete. L’aria penetrava sottile nell’abitacolo.
Andrea si svegliò per la gran sete. Nella luce fredda del mattino che penetrava attraverso la finestra aperta gli sembrò che la sua pelle fosse diventata bianchissima. Si alzò dalla poltrona e andò in cucina. Sulla tavola gusci rotti di noci e gherigli, semi schiacciati, mandorle verdi. In un piatto bucce di mela, noccioli di pesca. Bevve un bicchiere d’acqua a lunghi sorsi. Dal rubinetto chiuso male si allungava un filo d’acqua che si rompeva nella conca di un cucchiaio. Strinse forte il rubinetto e tornò in soggiorno. In un angolo di penombra, quel che rimaneva della candela continuava a bruciare con un piccolo crepitio e la cera aveva formato uno strato circolare sulla crosta del pane. Soffiò sulla fiamma. Sentì un brusio, si avvicinò alla radio e la spense. Negli appartamenti vicini i primi rumori del mattino. Dietro ogni parete un cigolio di maniglie girate, un trascinarsi di passi e di voci, il sibilo del gas sotto il caffè, il gorgogliare delle condutture.
Andò alla finestra e guardò fuori respirando il freddo. Lontano, oltre un groviglio di strade periferiche, gli parve di vedere una forma confusa, un incastro, qualcosa di aspro, di violento ma rigido, una violenza immobile, senza respiro. Si sforzò di guardare meglio ma i suoi occhi erano stanchi per il sonno cattivo e non era sicuro di quello che vedeva. Ebbe la sensazione che il suo cane trotterellasse giù in fondo alla strada con il bastone in bocca ma si rese conto che era assurdo, era troppo stanco, e distolse lo sguardo.
Andò in camera da letto pensando che il fine settimana era finito e che tra poco avrebbe dovuto lavarsi, vestirsi, andare al lavoro, aspettare. Alice dormiva ancora. Aveva la testa fuori dal cuscino ed era rannicchiata con le braccia strette tra le ginocchia. Il lenzuolo si era definitivamente sfilato dal fondo del letto e giaceva in un grumo sul pavimento. Sul comodino un tascabile aperto sul taglio, un bicchiere con del latte secco sul fondo, un piatto, biscotti. La sua attenzione fu attratta da qualcosa di chiaro sul comodino oltre il corpo di Alice. Fece il giro del letto e tirò fuori da sotto il tascabile l’aculeo. Era sottile e appuntito, e Andrea lo tenne nel pugno, l’estremità aguzza dritta in alto. Lo guardò in controluce. Trasalì sentendo Alice che cambiando posizione nel sonno aveva liberato un respiro compresso nel petto. Si voltò e vide il suo collo, un orecchio, la pelle sottilissima della fronte e delle palpebre. La pelle di vetro, pensò, Alice di vetro. Strisce sottili di luce filtravano dalle serrande abbassate cominciando a rischiarare la stanza e Andrea, per un istante, vide nella trasparenza la parte più profonda del bosco dove l’intrico di rami e foglie trattiene più a lungo la notte e un pezzo di torta stretto tra due grosse radici e formiche nere che a migliaia lo scavavano dentro nel buio.
[1997]
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Bello, come la morte. Non sapete scrivere qualcosa di decente?
Questo blog, a dirla tutta, da quando ha cambiato organico, o se volete, da quando è iniziata la sua seconda vita ha perso quella caratteristica serietà di prima, quello spirito incrollabile del fare letteratura guardando alla vita anche. Più di tutto l’emozione che provo visitando queste pagine ora è: un enorme tristezza.
Non che prima fossi un assiduo lettore, mi limitavo a saltabeccare così, come adesso, però non so, ecco arrivo sulla homepage, alla mattina, alla sera, così senza leggere, e sempre senza errore arriva questo scurirsi del cuore. Dovevo dirlo.
oh piccino. lui non legge, saltabecca, e si intristisce. dài piccino, vai a divertirti su altri siti, che il web è grande. vai su da bravo.
Non avevo fatto caso: brutto e triste. Sarà per quello che scrivete.
La segretaria ce l’avete, uno scheletro nell’armadio?
Senti caro zombi, come vedi sei fottuto.
Il caro zombi naturalmente è l’amico dei bersagli assisi. Sei anche un caro zombi che scrive sul suddetto? Ho toccato la punticina che duole, il nervetto, così che il bullo s’aizza e risponde con gli urletti di una maestrina? Mi viene male.
la tristezza che avvolge il racconto è bellezza di sguardi, di gesti, di cose non dette, palpabili come il silenzio…quando viene ascoltato.
Le formiche sono spesso presenti, nei tuoi scritti, quasi a simboleggiare l’avanzare di un tempo che divora i nostri desideri.
i sogni che ci parlano, visioni che si aprono, osservando, dalle tue parole.
すべての人間は、生まれながらにして自由であり、かつ、尊厳と権利とについて平等である。人間は、理性と良心とを授けられており、互いに同胞の精神をもって行動しなければならない。
Da tempo, il perché sono fatti miei, non leggevo nazione indiana. L’altro giorno, non avendo tempo di leggere a video ho stampato, essendo molto interessata al tema, la serie di Giorgio Vasta su editor e case editrici. Una delle interviste aveva qualcosa come 48 pagine. I commenti, penso. Va bene lo stesso, la discussione sarà sicuramente anche lì. Mi dovete due terzi della carta e due terzi della cartuccia che ho usato per stampare.
Questo racconto é scritto benissimo, secondo me. Non vengo presa dai percorsi mentali, dal testo che diventa comunicazione, di Vasta, ma apprezzo molto il suo lavoro compositivo.
‘il mistero della vita
penetra nel mistero della morte,
il giorno chiassoso
tace davanti al silenzio delle stelle.’
Rabindranath Tagore
Vasta scrive alla maniera delle formiche
le formiche costruiscono….
…finiscono schiacciate dalle sole
E’ un racconto stupefacente.
Mi è piaciuta l’esattezza e la lucidità di questa narrazione. Il rapporto tra due persone, due mondi, due solitudini. Racconta in dettaglio eppure non dice, in dettaglio, cosa ricavarne. Non suggerisce risposte.Ognuno faccia da sè. Trovo che Giorgio Vasta sappia scrivere davvero bene. Non so perchè altri lo abbiano chiamato un racconto triste. Più che altro l’ho trovato denso. Certo ognuno ha la propria opinione, e il diritto ad esprimerla. Resta il fatto che c’è modo e modo di esporla. Certe battute trovo siano cattive, e non servono a nulla e a nessuno. Io la penso così.
Purtroppo la grande maggioranza dei blog è funestata da commentatori inutilmente polemici, frustrati o semplicemente stupidi nel loro astio personale, immotivato ed irrisolto verso chi scrive e chi commenta.
Ma c’è un sistema per non alimentarli, ignorarli come ignoreremmo la battuta acida o la sfida dell’ubriaco al bancone del bar: non ce l’ha con noi, ce l’ha con sè stesso e con i suoi personali fantasmi.
Quanto al racconto, mi suona nuova la valutazione di un testo letterario in base alla tristezza o all’allegria che suscita nel lettore.
Ho apprezzato molto la capacità di raccontare sentimenti e situazioni attraverso la minuta descrizione di gesti, oggetti e piccole azioni. Dice bene Chapuce: palpabile come il silenzio quando viene ascoltato.
La violenza implicita in ogni volgarità gratuita, soprattutto quando anonima, serve unicamente a chi la esercita: per dimostrare a se stesso di essere ancora vivo.
Che miserabile vita, però. Che squallore di esistenza.
Mi vedete d’accordo: “La violenza implicita in ogni volgarità gratuita, soprattutto quando anonima, serve unicamente a chi la esercita”.
Cato è un genio. Se ne deduce che tutti gli anonimi sono primedonne stupefacenti.
Molto bello rilassate solitudini,quotidianità,alienazione,estrema accuratezza nella descrizione dei particolari,il particolare che narra,bello il ritorno della immagine del cane col bastone in bocca,come l’immagine,immaginata, delle formiche che divorano,nel bosco,all’alba le briciole.Veramente bello.
il sitting targets qui sopra è un volgare imitatore. occhio che ti controllo.
il sitting targets che dice di essere originale è un imitatore.
La volgarità è tutta vostra signori miei! Evviva gli zombi!
Purtroppo la grande maggioranza dei blog è funestata da commentatori inutilmente polemici, frustrati o semplicemente stupidi nel loro astio personale, immotivato ed irrisolto verso chi scrive e chi commenta.
Evviva gli zombi! Che miserabile vita, però. Che squallore di esistenza.
Inutile ribadire che la tristissima figurina qua sopra, in pieno delirio schizoide, non sono io. Purtroppo, intuendo di chi possa trattarsi, mi fa, se possibile, ancora più pena.
Qualcuno gli spieghi, però, che in rete solo gli ustionati psichici si permettono di assumere l’identità degli altri, fosse anche un’identità virtuale come un nick.
Comunque, auguro al mentecatto in questione di mantenersi nei limiti della decenza, visto che Cato è il mio cognome e vi si risale facilmente attraverso l’IP. Nel caso, chiederemo a chi di dovere di controllare il suo.
Hai dei problemi, giovane imbecille: curati.
E’ nel costume insultarvi l’un con l’altro?
@ Cato
Tu lo conosci quel “mentecatto”? Ne parli come fosse tuo fratello.
Ci conosceremo presto, signor amico. Con te e con lui. Ti va l’idea?
Continuate pure a giocare. Ma da soli.
Farewell.
Grande Giorgio Vasta, davvero!
Si legga oltre, si comprenda oltre.
Complimenti, e tanti: un racconto che pare condotto al ralenty, attraverso un fluire parcellare e minuzioso, che sembra preparare uno sconquasso
sei un marpione!
a me mi pare troppo giusto. il giusto che rende finto, il giusto che attorciglia, il giusto che disumanizza. non c’è umanità, solo finzione. non c’è discussione o movimento. a me mi pare che ci sia solo narrazione e niente pancia, niente umanità. mancano i fili del budello.
ci son spazi aperti e sudore frio: un inferno.
giusto come il gelo, come un sudore freddo. mi pare.