La prima e le ultime volte
di Gaja Cenciarelli
Si voltò e fece l’occhiolino al sole, che si era spostato alle sue spalle. Era nascosto da una cortina di nuvole. Se ne compiacque: era l’unico modo per lei di tollerare e, in verità, di accettare l’esistenza del suo sfrontatissimo fulgore.
Tornata a guardare davanti a sé rifletté sul significato di quanto aveva appena fatto.
Aveva bisogno di comunicare il suo reale stato d’animo a qualcuno. A una creatura.
Percepiva la vita esploderle dentro: si guardò la pelle degli avambracci aspettandosi di veder erompere schizzi di energia da ciascun poro, di deflagrare e di andare in mille pezzi per il motivo più dolce: essere davvero. Dietro al parabrezza il cielo era sbrindellato dalle nuvole.
La bomba dentro di sé aveva iniziato a ticchettare dal mattino.
Perché quando era scesa dal treno c’era vento, un vento magnifico, e nemmeno una ditata, nemmeno una sbavatura mezza cancellata di sole. Era il dieci agosto ed era tutto grigio, di quel grigio gravido di promesse, un colore che è la fine e l’inizio, l’alfa e l’omega. E lei fremeva al pensiero di quella fine agognata da mesi, esultava all’idea di trovarsi lì, dove l’inizio – evidentemente – sarebbe arrivato prima.
Stava per scatenarsi un temporale.
«Ti piacciono i temporali?» chiese lui.
«Li adoro».
Cos’era il temporale se non un’esplosione di vita, un ruggito, un grido, un’affermazione di sé?
«Amo i temporali».
«Ne ero certo».
Perciò non si stupì quando, scesa dalla macchina, le prime gocce di quella fastosa esplosione d’acqua le accarezzarono i capelli, le spalle, le gambe. Erano tutte carezze appassionate di un innamorato riconoscente.
Le accolse con un sorriso soddisfatto. Sapeva che il suo era un amore ricambiato.
«Non so come tu faccia ad avere tante certezze sui rapporti interpersonali e sugli altri. La cosa mi affascina e mi spaventa».
«Sono solo abituata a guardarmi dentro, ad analizzare ogni minimo movimento. Più conosci te stesso…»
«No, tu sei un’entusiasta. Sembri una ragazzina. Io, invece, mi sento vecchio e stanco…»
Di colpo le era tornato in mente questo scambio di battute incastonato in una delle loro interminabili conversazioni.
Da quando era scesa dal treno il ticchettìo della bomba che racchiudeva in sé si era fatto assordante. Ancor di più quando aveva notato che non c’era quel sole insultante e invadente tipico dell’estate piena. Lei preferiva una presenza luminosa più discreta, appena accennata. Più consona al suo basso profilo, alla sua continua voglia di tuffarsi tra le pareti del corpo e della mente.
«È una giornata meravigliosa! Il cielo d’Irlanda!»
Solo quell’ultima parola bastò a spedirle un formicolìo in ogni zona del corpo, dai polpastrelli alle cosce, alla bocca. Persino agli occhi: li sentì sporgere in modo anomalo come a voler mangiare tutto ciò che vedeva. Dovette chiudere le palpebre per proteggerli e proteggere se stessa e gli altri dalla sua emozione.
«L’estate è finita, ormai».
«Non vedo l’ora che torni l’inverno. Che ricominci a far buio alle quattro. Mi sento già più forte, piena di energie».
Aveva sempre pensato che quel suo preferire l’inverno, la pioggia, il cielo scuro e incombente fosse l’incontrovertibile prova del suo lato oscuro. Ma proprio in Irlanda aveva capito che era semmai il contrario. Durante un’estate di angoscia profonda e di folle terrore si era resa conto che quel grigio non faceva che distruggerla, riducendola a brandelli. Era come se la natura la schiaffeggiasse, le mostrasse la sua fine, il nero che l’attendeva. E allora aveva compreso che, in genere, non aveva paura del buio, né dell’inverno, né dei temporali perché nella sua anima non c’era buio che andasse ad aggiungersi, a raddoppiare la neritudine esterna, risucchiandola, addolorandola.
Avevano mangiato con gusto.
Dopo che lui era andato a prenderla alla stazione erano passati a comprare il pecorino.
Le penne all’amatriciana le erano venute bene: come al solito le cose fatte all’ultimo momento e con pochissimo preavviso si rivelavano le più soddisfacenti. Si era ricordata di avere un corpo, di avere una lingua, di poter assaporare e deglutire. Si era dimenticata dell’acqua. Aveva pasteggiato a spritz e concluso il pranzo con un caffè al Varnelli. L’anice, in tutte le sue incarnazioni, era sempre stato la sua passione. Il suo profumo la inebriava, le dava alla testa: sentirlo era come scoperchiare il suo personalissimo vaso di Pandora.
Non aveva mai avuto alcun dubbio che quella fosse vita.
Fuori pioveva. Il temporale si era placato: il grido era diventato un sussurro.
«Vado a riposare un po’. A dopo».
Lei era rimasta seduta davanti alla scrivania. La musica si diffondeva dolce e bassa dalle casse del computer. Era, anche quella, simile a una carezza. Dopo che lui era scomparso dietro la porta della camera da letto, il salone era piombato nel silenzio. Non c’erano luci accese, non ce n’era bisogno: alla sinistra della scrivania una grande portafinestra proiettava il chiarore della tempesta appena passata, una luminosità avvolgente e calda come un abbraccio, annegata nell’acqua. Dietro al vetro della portafinestra il cielo era screziato dai rami verdi e tremolanti di un pino. Lei aveva guardato il computer e poi fuori. Nella sua mente erano nate frasi e parole e aveva respirato a fondo.
Non aveva mai avuto alcun dubbio che quella fosse vita.
Era stata sfiorata dal pensiero che quella precisa posizione, quell’esatta postazione fosse il bozzolo della creatività, un hic et nunc unico che l’aveva penetrata e che lei aveva immediatamente riempito di se stessa, marcando tutto quanto la circondava con lo sguardo. Uno scambio equo di sapori e di umori, si era detta.
Il qui e l’adesso – secondo la canonica scansione del Tempo – sarebbero passati. Tra poco lui si sarebbe svegliato, sarebbero usciti, sarebbero andati nel Luogo. Eppure.
In qualche modo – lei ne era stata certa – quel momento, come molti altri, sarebbe stato infinito.
Così quel sole, comparso timidamente, quasi temesse di disturbare, in un certo senso le aveva fatto compassione. Era come se si sentisse a disagio, pur avendo tutti i diritti di stare dove stava.
Non come lei, che si sentiva esattamente al suo posto. E forse il senso di quell’occhiolino era proprio lì: «Su col morale!»
Aveva sempre pensato che la parte più bella di un viaggio fosse proprio il viaggio e non l’arrivo. Ché quando si fermava, dopo aver marciato tanto, si sentiva sempre un po’ vuota.
Adorava viaggiare in treno, con la musica nelle orecchie. Adorava camminare e imprimere se stessa nelle strade e nei vicoli del centro storico di Roma. Adorava viaggiare in macchina, cantando e piegando le parole alle sue circonvoluzioni mentali. I pensieri si muovevano assieme a lei.
«Ormai è evidente: quando parlo ti cala una saracinesca davanti agli occhi, il tuo sguardo diventa fisso e rispondi in automatico – o meglio, taci» sorrise lei.
E proseguì.
«Noi non comunichiamo più, te ne rendi conto?»
Lui annuì, ridacchiando.
«Non sto scherzando: è vero!»
«È vero, è vero!» approvò lui, con un’espressione seria che, solo in quel caso – e lei lo sapeva – era indice del suo divertimento.
«Tu non mi ascolti più, non mi ascolti mai davvero…»
Lui fece mh-mh con l’angolo della bocca rivolto all’insù.
Il sorriso di lei si allargò.
Stavano andando a Senigallia, un Luogo che le agitava dentro pensieri e omissioni.
Nella sua mente si sovrapposero immagini e ricordi e – di colpo spettatrice – si vide, affacciata al terrazzino di una camera all’ultimo piano del Palace, quattro mesi prima, a guardare la spiaggia, il mare, l’amica che, a sua volta, avrebbe dovuto presentare un romanzo, di ritorno dalla passeggiata mattutina che avrebbe voluto fare lei. E invece quei passi le erano rimasti incollati ai piedi. Era rimasta sul balcone a fissare il mare, il suo mare, il mare dei ricordi, della sua giovinezza. Era rimasta a fissare la se stessa di vent’anni prima senza avere il coraggio di riabbracciarla, di riappopriarsene definitivamente per poi continuare a camminare. Era rimasta immobile. A ripensarci, adesso, si era sentita come imprigionata in una corazza d’acciaio. Impossibile gonfiare il petto per respirare, figuriamoci spostarsi.
Era tornata nelle Marche dopo circa vent’anni, per presentare il suo libro. Ora a distanza di quattro mesi era di nuovo lì, per un motivo completamente diverso. Due volte in quattro mesi. Due volte in diciassette anni. Ma stavolta sarebbe stata costretta a muoversi.
Quando imboccarono la rotonda di Senigallia, lei si girò a guardare il Palace: intravide, dietro al lunotto posteriore, la portafinestra dalla quale si era affacciata lo scorso 19 aprile. Chiuse gli occhi, li strizzò, per tentare di cancellare l’immagine di se stessa a occhi sbarrati davanti al mare, che fremeva per andare – si era sentita quasi una scattista pronta al via – ma che al tempo stesso aveva il corpo imprigionato in un no, in un’assenza. Sulle sue carni erano pesati quegli anni di iato.
Malgrado il buio dietro le palebre serrate ebbe netta la sensazione di essere riuscita a imprimere se stessa in quel Luogo in maniera indelebile, come quando andava a passeggiare per le strade di Roma, e la cosa la fece rabbividire di emozione pura. Nella mente le sfrecciò il pensiero di quello che stava per andare a fare. Riaprì gli occhi e cantò ad alta voce The Way You Look Tonight.
«Dio, com’è bella questa canzone. Non ti sembra che parli proprio di me, stasera?»
«Sei la solita» disse lui, scuotendo la testa divertito. «Ti immedesimi sempre in tutto».
«Ah, quindi non è vero, secondo te? Non mi hai nemmeno detto che sto bene…»
«Sei uno schianto. Faranno a gara per invitarti fino alle tre del mattino e io starò lì a godermi lo spettacolo».
«E comunque se mi immedesimo un motivo ci sarà…» ribatté lei.
«Mmm. Belle gambe. Hai visto la donna che è appena passata?»
«Cosa?»
L’iPod passò alla canzone successiva.
Lei riprese a cantare, tentando (senza riuscirci) di non dar peso alla sua battuta: stavolta era Cinque giorni.
Perché probabilmente il suo corpo stava funzionando come doveva, come avrebbe sempre dovuto.
Per questo aveva fame, per questo beveva accorgendosi di sapori di cui non aveva mai nemmeno sospettato l’esistenza. Per questo ripensando a quella donna affacciata di fronte al mare, ora era certa che si sarebbe mossa, che sarebbe scesa tuffando i piedi nella sabbia. Che avrebbe camminato senza pensarci un attimo fino alla fine della forza, fino all’inizio dell’appagamento.
Perché il suo corpo funzionava come doveva, lì?
Ma forse non esisteva un unico lì, forse i Luoghi erano più di uno, microcosmi in cui tutto era bilanciato alla perfezione per lei, che non aspettavano altro che accoglierla al loro interno, come ultimo tassello mancante.
L’euforia che le stava dando il vino rendeva i colori più accesi.
La stessa sensazione provata in macchina, e prima ancora, quando era davanti alla scrivania, accanto alla portafinestra. Forse il suo corpo funzionava come doveva perché stava al suo posto. Stava dove voleva stare.
Come se si fosse incastrato – clic – con l’ambiente circostante. Come se fosse la tessera di un puzzle che era andata a incastonarsi in uno spazio vuoto. Lo spazio che gli spettava. I movimenti del corpo erano naturali e logici. Le mani che si sollevavano per portare alla bocca la tartina o il panino o il calice non incontravano resistenza esterne. L’aria era dolce attorno a sé, era benevola. I movimenti interni al corpo erano dolci. Mai come in queste situazioni l’ignoto le appariva amico, l’attesa rossa di qualcosa di vivificante.
«Le farai una foto?» chiese il loro comune amico, che li aveva accompagnati a prendere un aperitivo una volta arrivati a Senigallia.
«Ci vado per questo. Non me lo perderei per niente al mondo. Ho organizzato tutto nei minimi particolari».
«Come sarebbe “ci vado per questo”?» s’inalberò lei, gli occhi un po’ lucidi per via del vino.
Erano le nove e un quarto e il cielo era già buio.
Il loro amico li aveva salutati, erano rimasti soli. In macchina avevano raggiunto il luodo dell’appuntamento. La serata stava per iniziare.
Avrebbe dovuto muovere il suo corpo.
La sala era pronta, ma non c’era ancora nessuno.
All’orizzonte ampi squarci di lampi gialli spaccavano lo scuro.
«Sta per scatenarsi un temporale».
«Che meraviglia!» disse lei, dimenticando per un attimo il motivo per cui era lì e che la agitava oltre ogni umana immaginazione.
«Attenta a non cadere con quei tacchi…»
«Non potremmo tornare a casa?»
«Se vuoi ti riporto direttamente alla stazione, così riparti per Roma».
Lei mise il broncio.
«Perché mi tratti così?»
«Non ti sto trattando male. Ho organizzato tutto questo per te e adesso fai la vigliacca?»
«Ma mi vergogno… davanti a tutti…».
«Ti passerà».
«Sono anni che non metto più i tacchi».
«Bene. Ottimo motivo per ricominciare».
Lei guardò la piscina che si intravedeva dalle porte a vetri della sala. Guardò il cielo in lontananza che si strappava come una tenda nera e pensò a quante volte lo aveva visto lacerarsi così fino a diciassette anni prima, in riva al mare, un po’ più a sud di Senigallia. Erano le stesse immagini, gli stessi luoghi, lo stesso profumo di allora, delle ultime volte.
«Lo avresti mai detto che sarebbe successo qui? Dopo soli quattro mesi dalla prima volta che sei venuta a Senigallia?» sorrise lui.
«Mai. Non avrei mai potuto immaginarlo. Dopotutto ti ho conosciuto qui. Non sapevo niente di te, nemmeno che avessi questa passione».
Tra breve sarebbe stata costretta a muovere il corpo.
Il temporale gli andò incontro sull’autostrada. Erano quasi le due del mattino.
«Hai freddo? Ti spiace se tengo il finestrino abbassato?»
«No, per niente».
«Se sei stanca puoi anche dormire».
«Non sono stanca. Ho solo i piedi ridotti in poltiglia…» disse lei, ridendo. «Abbiamo ballato per due ore e mezza consecutive. Anzi, mi hai fatto ballare».
«Eri qui per questo. Cosa credevi? Che ti avrei riportato a casa dopo mezz’ora?»
«In effetti con te è stato tutto più spontaneo e naturale. Il maestro con cui mi avevi fissato la lezione era troppo ansiogeno. Mi si intrecciavano i piedi, avevo paura di sbagliare e puntualmente sbagliavo».
Lui abbozzò la sua tipica espressione divertita, come di chi la sa lunga. Era un atteggiamento della bocca a metà tra il sorriso semplice e la risata. A lei piaceva.
«Allora? Che ne pensi del tango?»
«Lo adoro!» rispose entusiasta.
«Lo sapevo. L’ho sempre saputo». Il tono di voce era calmo, la sorrisata, come la definiva lei, era la stessa di prima. «E sei leggera. Se non avessi sempre paura di cadere… quando smetterai di averne sarai un fuscello».
«Credo sia stato giusto averlo ballato con te, per la prima volta. Ballato… mi correggo: provato, ecco. Tu hai ballato».
Silenzio. Solo le carezze un po’ violente del temporale sul parabrezza. Insistenti e appassionate.
Le facevano male le caviglie. I piedi.
Amava quel dolore.
«Da quanto tempo non facevi le tre del mattino?»
«Da… be’ dall’ultima volta che sono andata in discoteca… strano, ora che ci penso è successo proprio a San Benedetto. Diciassette anni fa. La sera di Capodanno».
Era un dolore bellissimo e terribile. A terrible beauty is born.
«Vedi? Mai dire mai» disse lui, stranamente serio.
Lei aveva imparato a riconoscere i suoi improvvisi cambi di umore, la virata repentina – e che proprio perciò, all’inizio, le era parsa angosciante – verso la serietà, la bolla di nero nulla che gli si imponeva di colpo, i momenti in cui erano troppi i pensieri di ogni genere che gli premevano dietro agli occhi. Aveva imparato anche a capire quali fossero, questi pensieri.
(«Tu e le tue certezze, io mi sento così vecchio…»).
«Ti sembro il tipo che dice mai? Ti sembro il tipo che si arrende?» rispose lei, sorridendo divertita.
Anche lui tornò a sorridere.
«Insomma… ogni volta che vieni qui mangi, bevi, ridi, fai tardi… sembra proprio che tu inizi a vivere» disse.
Lei si sistemò addosso la giacca di seta. Lui aveva finito di fumare e aveva tirato su il finestrino. Il temporale non accennava a placarsi. (Bene, pensò. Bene. Chissà quale sarebbe la colonna sonora ideale per questo momento, si chiese senza nemmeno sapere da dove le fosse spuntato fuori quel desiderio folle.)
Il profumo dell’abitacolo e della pioggia e del sigaro e la strada bagnata davanti. Il buio.
«Non ho mai avuto alcun dubbio che questa sia vita».
(Immagine da: Scent of a woman – di Martin Brest)
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bene. brava.
bis.
e.
ma quello lì è proprio Al Pacino?
è il mio idolo!
Ah….che profumo nell’aria!
Bellissimo!
Scusa Gaja, ho letto adesso il racconto,
l’atmosfera che crei è invitante, sento il sapore dell’anice in bocca, e una lieve sinfonia si diffonde nell’aria…robusta e straziante, leggera ma piena.
La Moldava, forse…
Amava quel dolore
Molto bello e “trattenuto”
ma che deriva da vibrisse libri sta nazione. “Percepiva la vita esploderle dentro”. “La bomba dentro di sé aveva iniziato a ticchettare dal mattino.” Ma si può anche essere solo dei lettori mica dobbiamo scrivere proprio tutti in Italia.
che voglia di ballare un tango così….
Mi sembra che il fulcro del racconto sia la morte, la fine, della protagonista e del suo mondo. Le banalità e le futilità sono un termine di confronto, è ovvio, con il buio, con la vita più volte nominata, che richiama la non-vita. Bello perché angosciante, senza spiragli di speranza.
Un fotoromanzo Lancio, con, protagonisti: Luciano Francioli e Luisa Rivelli, oppure Jean Marie Carletto o anche fate voi… Andrebbe bene anche per “Intimità” o “Confidenze”. Perfino “Bolero” e “Grandhotel” l’accetterebbero… La calza, ecco, la calza, bisognerebbe tornare alla “conocchia”, a filare, a fare “i servizi” a casa, occuparsi dei bambini e del marito, cucinare, spazzare, lavare i piatti…
forse bisogna conoscere la prima volta nel tango letterale, per capire la metafora. è un racconto minimalista, senza pretese (consapevoli) espressive, che procede da un fatto preciso, io so che è così, ma ha una significativa ellissi sulla prima volta, cui si allude soltanto. il dolore fisico, reale, è ciò che resta di qualcosa vissuto come un sogno e sicuramente un rito di passaggio. il tango apre e chiude delle fasi: ciò detto senza enfasi e senza inutili misteri sulla sua pur “terribile” natura. brava, gaja, per me il tuo racconto è un regalo.
E voi maschietti, caro Di Costanzo, sempre fuori a domare i cavalli selvaggi a mani nude! A pescare i tonni a mani nude! Ad arare la terra a mani nude!
E poi tornare a casa tutti puzzolenti, e dire “hei bella, voglio una bistecca alta quattro dita”.
Viva il maschilismo! Viva l’intelligenza!
mi sa che Lucy ci ha colto!
bel commento!
:-)
la donna per di costanzo è sempre “di servizio”.
Bravo Ruggero, io l’ho pensato e tu l’hai scritto!
Gaja carissima, a me non dispiace. Forse sì, la storia è trattenuta.
Quella bomba… falla esplodere! ^_______*
Baciòti.
Lòra
Di Costanzo c’ha da conoscerle, le Donne!;-)))
Ballare un tango sfiorando con la fronte la sua fronte,
in un movimento di
avvicinamento e allontanamento
calore e ventata
sfregamento di coscia e
volteggiamento d’estasi nell’aria…
Danse Magique!
vaglielo a dire a questi ometti qua…
Specifico solo che “trattenuto” sta per “con esitazione” ovvero uno dei fulcri della coreografia tanguera. Quando si invita la ballerina ad un movimento in una direzione trattenendola per poi sorprenderla con una nuova direzione o con una “parada”. Ma in questo consesso letterario ho parlato anche troppo di tango e quindi mi scuso e torno a ballare.
Sì, è Al Pacino in ‘Scent of a Woman’, rivisitazione ammericana di ‘Profumo di Donna’..of course..
Freme il corpo
cola sudore
percorsi di lingua sinuosa
– mi scavi –
Nel buio l’argento riveste la pelle
Sei dentro la luna sei dentro la febbre
negli occhi felini respiro che batte
movenze di tango Sei dentro il mio ventre
e lento ti espandi..
Diablo de la noche, diablo del deseo.
Hai ragione, “Ana”: le conosco bene le donne! Le nostrane hanno affidato i servizi domestici a povere disgraziate che per poche decine di euro al mese possono adeguatamente spremere e sentirsi anche superiori, tanto signore… Elsa aveva Lucia Mansi, sempre in ritardo tranne il giorno in cui la salvò dal tentato suicidio; Anna Maria aveva sua sorella Maria che si occupava della casa. Ma Elsa e Anna Maria almeno scrivevano cose decenti, memorabili, necessarie, utili…
Io per “trattenuta” intendevo dire semplicemente ” non rivelata del tutto ”
anche perché di tango non ne capisco un’acca. Gaja, secondo me, ha creato nel racconto dei suggestivi “punti di risucchio”. Sono arrivata alla fine con un po’ di languore nello stomaco, ma probabilmente l’autrice voleva questo, mi sta bene e lo rispetto.
La bomba invece era per certi signori che commentano con acredine.
^_______^
è vero: ci sono donne, e uomini, che se la menano e se la tirano col tango… ma grazie a dio il tango non è quella cosa che molti credono di vedere da fuori: non è erotismo, e non ci sono maliarde… quelle che ballassero, uso apposta il condizionale, da rosa in bocca, finirebbero per diventare una caricatura. come dice art, questo però non è il luogo adatto per parlare di tango, soprattutto, se permettete, veramente a sproposito.
parlate di letteratura, che è meglio. ma magari con un filino di rispetto e umiltà. gaja è l’ultima arrivata, che io sappia, solo nel tango… e ha saputo rendere con lievi tocchi un’esperienza che va molto al di là dell’imparare i primi passi. a qualcuno che parla di tutto, dalla letteratura alle donne, con troppa sicurezza (…) farebbe bene impararlo: perchè non è un ballo e basta: esige un rispetto della donna, un darsi che comporta delle implicazioni umane più profonde. senza sesso, erotismo, malìe e tutta la paccottiglia rodolfolavandina che ci è stata costruita sopra.
:*-)
Gentile dott. Di Costanzo, in quanto appartenente alla categoria delle nostrane mi sento chiamata in causa e provocata a risponderle che io sono una “donna di servizio” per buona parte del mio tempo, in cambio di vitto e alloggio, al momento, in quanto disoccupata, per una di quelle famiglie che non si scelgono, ma si subiscono piuttosto, e che in questa terra desolata dove tutte le utopie sono estinte, l’unico pretesto plausibile che sono riuscita a darmi, in attesa di emigrare, è proprio quello di scrivere qualcosa di decente, necessario, utile; pertanto, la pregherei, cortesemente, di non intimorirmi con le sue pietre di paragone. Grazie. (;-)
“No, tu sei un’entusiasta. Sembri una ragazzina.”
E’, come sai, quello che ho sempre pensato di te.
Un abbraccio.
Bart
per di costanzo la donna è come il salame. “nostrana” se è “di servizio”, “ungherese” se è pornoattrice, “milano” se se la tira, “felino” se è maliarda e ballerina di tango…
“L’anice, in tutte le sue incarnazioni, era sempre stato la sua passione. Il suo profumo la inebriava, le dava alla testa: sentirlo era come scoperchiare il suo personalissimo vaso di Pandora” è da Premio Strega(se tale onorificenza non fosse ora ormai solo un trucco per allocchi non recuperabili,di quelli fatti con le polverine coloranti del piccolo prestigiatore,come da manuale. L’unico premio per cui vale la pena di combattere,lo sappiamo tutti,è il Baghetta con le sue mille luci. Per quello sarei pure disposto a disfarmi)
Ecco, lo immaginavo. Uno stupido commento da troll e si perde subito il senso della cosa e della misura. Mi spiace, perciò scusatemi se parlo del racconto.
L’ho letto da due punti di vista, come appassionato della lingua italiana (che troppi usano solo per leccare il gelato italiano :) e come tanghéro.
Il tema della “prima volta” viene trattato in modo delicato, visto solo per pochi attimi, immerso in una atmosfera densa, dai colori solidi e che non lascia al lettore lo spazio per divagare ma lo inchioda a fissare il quadro dipinto dall’autrice.
Una tale determinazione nel portare il lettore a “vedere” e “sentire” ciò che vuole… Gaja dev’essere fiera del risultato!
Ho visto commenti mirati alla possibile limatura di una frase, due forse. Bene: sono critiche positive, vanno rispettate e ci si deve meditare sopra quando si riprende in mano la penna!
Personalmente ho gradito poco il ripetersi di “portafinestra”, ma sono malato di sinonimite e non faccio testo ^____^
Come tanghéro poi, vittima della stessa felice malattia che accomuna persone provenienti da culture diverse e da ogni angolo del pianeta… beh, permettetemi: *sento* ciò che è stato volutamente lasciato inespresso, ed anche quel qualcosa che non è stato ancora compreso e digerito dall’autrice.
Si, è vero: chi non prova ha difficoltà a capire. Il tango mette a nudo il vero carattere, ti sottopone ad ardue prove che destrutturano l’egocentrismo, la fanfaronaggine e il serpeggiante timore di *essere*.
Ti costringe ad accettare un ruolo per raggiungere la libertà, ti insegna il significato della parola dialogo, che è ascolto dell’altro ma senza giudicarlo.
Mi spiace sottolineare, come il pregiudizio e lo stereotipo convivano allegramente rafforzandosi a vicenda nella mente degli stolti.
Mi permetto di consigliare infine, ad ogni uomo che nella vita si imbatta nel tango, di provare. Sperimentatelo, smettete terrore e preconcetti e scoprirete *come*, *quanto* siete (oso la parola) “maschi”.
Se “non avete le palle” per sperimentarVI… continuerete a macinare pregiudizi. Inadatti temo ad una vera Nazione Indiana.
Abrazos (il miglior augurio da/per un tanghéro)
A;)
Brava Gaia!
Riscoperta delle scoperte!
Bacio, MPia
Apprezzo il commento di Ta;)nghéro.
Anche se non credo sia solo il Tango ad offrire queste possibilità di autoanalisi che, comunque, vengono prese in seria considerazione non certo dal “tanghèro/a della domenica” (ogni categoria ha i suoi adepti all’acqua di rose, caro amico, bisogna farsene una ragione.) Alla luce di quanto dici, ed è molto interessante, mi è balenata un’idea circa il racconto di Gaja (l’autrice poi, potrà essere più o meno d’accordo, il mio è solo un modesto spunto di riflessione che non ha nulla a che vedere con la valutazione del suo scritto). Se un tanghéro/a, nel racconto, ha la possibilità di cogliere questa similitudine così spiccata tra tango e vita, ebbene è un peccato che ad un lettore ics, tipo me che ballo come Napoleon Dynamite guidata solo da un istinto tribale, non si diano almeno le coordinate per decifrare quei passaggi che rimangono “non rivelati del tutto”. Non so. Si potrebbe arrivare a questo lavorando su una figura in particolare del tango per creare una inequivocabile chiave di lettura di tutto il racconto e farlo girare intorno ad essa? E’ un’ipotesi di confronto. Personalmente, ripeto, mi va bene anche la sensazione vacua con cui l’autrice mi lascia (perché anche l’incomprensibile, il “volutamente lasciato inespresso” è fonte affascinante di riflessioni.) Sullo stile di Gaja non discuto perchè mi pare argomento sterile e molto soggettivo (il mi piace/non mi piace, che noia!) Ci sono scrittori affermatissimi capaci di scrivere delle ovvietà di proporzioni cosmiche eppure la fanno franca. Scorticare l’autrice mi sembra davvero gratuito.
Brava Gajetta.
Dimenticavo! Di Costanzo ho la lavapiatti rotta, ha qualche ora disponibile?:-)
Mi piacciono la pacatezza e l’acume di Laura. E sono daccordo con l’idea di creare delle coordinate, una mappa del territorio tanghéro per non adepti. Purtroppo l’è un difficile compito anche per un iniziato come me! Quanto ci sarebbe da pensare, scrivere e scrivere senza mai arrivare ad una conclusione:)
Purtroppo poi chi si affaccia alla porta del mistero, chi è alla sua prima volta non possiede alcuna nozione su *come* realizzare un aiuto al lettore.
In effetti c’è una bellezza particolare propria del momento iniziale, lo stupore bambino con cui ci si avvicina al singolare mistero che affascina.. bello sarebbe poter scambiare il risultato di certe elucubrazioni. Specie se sarà qualcosa di leggibile.
Perciò Laura, porterò in seno la tua richiesta… se ne verrà qualcosa di buono, se riuscirò a realizzare e scrivere qualcosa che segua la direzione da te indicata (e magari sia adatta al “mercato” dei liberi lettori) *forse* riuscirai a leggerla:D
Godo all’idea che qualche riga possa scatenare le ire di flamer e censori, ma ancor di più di leggere commenti come i tuoi.
Abrazos
A;)
Io posso solo dire che ho “visto” e “sentito” attraverso le parole di Gaja le mie stesse emozioni… come averle vissute di persona…
Brava Gaja (ma prima o poi il tuo cavaliere dovrà far ballare anche me, d’accordo?…). Ciao
Grazie a: Enrico, Carla, Art, Nina, Frontline, Lucy, Ada Castorino, Cappuccetto Rosso, Ruggero Solmi, Laura, Ana, Luisella, Barbara, Malena (il tuo è stato uno splendido regalo), nostrana, Bartolomeo, diamonds, tA;)nghéro, Maria Pia, Stefania, Ramona.
Grazie a chi mi ha scritto in privato o in altre sedi esprimendo il suo apprezzamento.
Alcune osservazioni mi hanno colpito in modo particolare.
Quella di Frontline, ad esempio. Una sorta di rivelazione.
A Laura (cui sono debitrice di tanta, arguta attenzione) chiedo: sapresti dirmi da cosa è provocato il tuo languore? Mi interessebbe approfondire la questione. Se alludi al “non detto” allora sì, è vero, l’ellissi – così definita da Lucy (che ringrazio di nuovo per la sua perfetta analisi) – era proprio voluta. Il tango è un atto – anzi, un movimento – simbolico, nel mio racconto. Fortemente simbolico. Per questo ho preferito ricorrere alla dissolvenza.
Di sicuro la danza racchiude in sé un tale potere evocativo che il suggerimento di costruire un racconto su una figura di tango che funga da chiave interpretativa affascina anche me. Non era questa la mia intenzione, però, di conseguenza ho “glissato” sull’episodio.
tA;)nghéro: da traduttrice la tua malattia affligge anche me. Impazzisco per evitare le ripetizioni. In questo caso ho scelto di ribadire una parola per sottolineare la separazione della protagonista dal mondo esterno, luogo che, dopotutto, lei “vive” solo da spettatrice, dietro al vetro (perlomeno in quel momento).
p.s. Ramona: è più che giusto e – mi pare – doveroso. Con me è stato già troppo gentile e disponibile. Ora alzo i tacchi (è proprio il caso di dirlo) e mi dirigo a torturare altri cavalieri ;)
Last but *absolutely* not least, grazie al mio carissimo, splendido Franz che mi ha ospitato su Nazione Indiana.
[e se ho dimenticato qualcuna/o perdonatemi (anche per gli eventuali refusi: ho scritto di fretta). Fatemi un cenno: tornerò presto su questi schermi a presentare la mia riconoscenza a chiunque abbia scordato ;)]
Un abbraccio a tutti.
Gaja, perfetto. Come ho detto nel mio secondo commento, se le tue intenzioni erano quelle, a me (lettrice) vanno più che bene perché avere il languore è meglio di niente (altrimenti significherebbe non aver provato granché, giusto?) Il resto dei miei commenti sono nati dopo aver letto Ta;)nghéro che indubbiamente ha aperto un TangoMondo e io, stupita e appassionandomi, tra te e lui, ho fatto tanto d’occhi da produrre pacifici “dunque”, “se” e “ma” (anche con la SPERANZA di rimanere in… topic). La mia attenzione è così per tutte le cose e/o persone da cui ricevo e il mio modo di ringraziare è partecipare con entusiasmo perciò Grazie ma non c’è niente da ringraziarmi ^____^.
Due righe lampo per:
Ta;)nghéro. Grazie per le cortesie. Ogni cosa che ignoro attirano la mia attenzione e, da perfetta “ignorante”, faccio domande ed esprimo perplessità con la speranza di capire meglio e di più. Se addirittura ti sono servita a qualcosa, meglio così, no?
Sparkling. Per me poteva essere tango, valzer, cha cha cha, il ballo di San Vito, ma scusa, qual è il problema? La setta, gli adepti… ma che dici? :DDD E perchè parli al plurale? Parli a nome della Sparkling Family? E’ OVVIO che ci sia vita in molte altre attività e ci fidiamo, grazie per la dritta. Dilettarsi di letteratura, dici. Dilettare è sinonimo di divertimento. Sappi cogliere il dilettevole, allora. Dire “non mi piace” è legittimo, per carità, ma penso che vada argomentato con un minimo di rispetto per chi comunque oltre ad aver scritto un racconto, ha deciso di esporsi e condividere senza chiedere niente a nessuno.
E poi, perdonami, ma quel tuo “vuoto pneumatico di un’emotività mediocre”… uhhhh….
un saluto
ieri sera avrei voluto replicare all’ultimo commento di sparkling, mi prudevano le mani… mi sentivo però di cadere nella trappola di un ragazzino prepotente e dispettoso (/a?) che la sa sempre più lunga degli altri. ma ci ha pensato laura, che ringrazio, che ha usato le parole che avrei usato io. soprattutto in campo letterario, sul tema del diletto: se in una critica prevalgono o dominano del tutto i toni aspri e beffardi vuol dire che la persona prova un disagio extra-letterario, non causato dalla qualità del testo in esame. se una cosa non ti piace non ti arrampichi su formule come quella citata da laura (vuoto pneumatico etc.), lo dici e anche con garbo, formulando un’analisi serrata e motivata di tipo stilistico e contenutistico. quanto alla setta, non essendo settaria, e amando in primo luogo gli esseri umani, poi la letteratura e poi il tango, ci tengo a sottolineare, e non vi importunerò più, che queste tre cose (mille altre mi piacciono) hanno un legame sottile e dialettico che “tanghèro” ha molto ben illustrato. il tango, l’ho già detto nei miei commenti, è una cosa a parte: nessun ballo contiene il suo tremendo miscuglio. ti infastidisce? lo dice una che tende a smontare i testi letterari, i comportamenti umani, e l’ambaradàn tanghèro irridendolo, quando serve. perciò non ci sono nè sette nè religioni. piuttosto: non avvilire un luogo d’incontro come questo trasformandolo in un’altra occasione di NOI e VOI. la letteratura è una grande casa comune, scusate la banalità della definizione: c’è posto per chi legge, chi scrive, chi critica, per chi non la pensa come noi, per chi sembra un’anima gemella… ma quando si fa ognuna di queste operazioni dobbiamo avere la mente lucida e priva di pregiudizi, farci un po’ da parte, metterci nei panni degli altri. un po’ come nel tango, insomma.
questo tipo di analisi, sparkling fire, potevi fornirla prima, quanto a non detto ci dai dentro anche tu. in linea di max posso essere d’accordo sulla facilità del tacere rispetto al dire, ma illustri poeti, keats in testa, suggeriscono che il silenzio sia poesia per eccellenza. l'”ellissi voluta”, da tanghèra, ce l’avrei messa anch’io, ti continua a sfuggire il suo perché… e continui a banalizzarne la scelta…a chiamare in causa il tango e chi lo balla… ora che ti sei per me chiarita donna (lo sospettavo per certa stizzosità nei confronti dei “luoghi comuni femminili”: le donne sono le peggiori nemiche delle donne) penso che ci sia un po’ di invidia, sotto sotto, inconscia, per quello sgambettare fulmineo che trovi così macchiettistico. riappropriarsi della vita sì, e anche di una dimensione dimessa e silenziosa, non gridata, debole, “femminile”.
nessuno mi convincerà mai che non ci sia della nobiltà nel non essere donne forti. soprattutto oggi. io non sopporto la scrittura femminile “forte”. e sono una tosta, di quelle di cui si dice, bestemmiando il genere, che hanno le palle. ma adoro gli uomini dolci e le donne tenere.
e, quando scrivono, la loro sensibilità. che ha molte forme.
forse il racconto di gaja era più per tangueri? può darsi. vede giusto, anche se per il momento un po’ s-centrato, laura, quando propone una chiave di lettura per chi non balla il tango. ma, ripeto, non erano queste le intenzioni della cenciarelli: la prima volta era, se ho capito, un paradigma di mille altre prime volte e di ultime, che nella vita si susseguono. avevo parlato del tango come apertura e chiusura di fasi. lo confermo. ma resta parola vuota per chi si ostina a vederlo “da fuori” e, per giunta, carico di stereotipi.
un’ultima cosa: ti farebbe bene provarci, ma devi rinunciare alla forza: lì “comandano” gli uomini che, però, sono al “servizio” delle donne. un continuo paradosso. te l’ho detto: è una cosa ingarbugliata e disarmante e faticosa come la vita.
Cara Lucy, bel commento davvero, sono d’accordo su tutta la linea. Pieno, sodo, sostanzioso. “Virilmente Femminile”, ecco! Un gran bel dessert.
Hai tutta la mia stima.
anch’io donna, ma molto più vicina alla versione femminile di sparkling, mi dispiace, ma anche per me ‘sto racconto non ci prende o semplicemente non mi prende. dell’altra opinione.
e poi non è vero che è un racconto per tangueri, del tango c’è solo il buco da quando indossa i tacchi alle 3 del mattino in due righe, è proprio tutto il resto che non mi appartiene, sarà che noi casalinghe abbiamo perso l’abitudine alle liale ;-)))
Concordo con nostrana: non è *affatto* un racconto per tangueri, e comunque non solo. Ma, francamente, il paragone con Liala mi sembra del tutto fuori luogo. I gusti, d’altra parte, son gusti. ;-)
liala c’entra una pippa/bauda, quando qualcosa non piace al popolino colto ecco tirato fuori il fantasma della comasca.
popolino mi piace assai,
occhio a nominare i fantasmi della comasca!;-)))
e poi, piace, non piace, imparate ad esibire le vostre opinioni!
Ruggero Solmi, qui non si parla di pippe!
liala? io non ho visto aviatori con gli occhi azzurri, né belle ricche sedotte abbandonate… un po’ di odori e di sapori vi turbano? meglio le casalinghe all’inferno? la depressione che lenta svuota l’anima e il frigorifero? le partigiane buonanima coi calli? le sibille barricadere? ma la vedete la vita intorno? è fatta di un tremendo niente a cui tutti chiediamo perchè.
senza evocare il fantasma di proust, un sapore è molto spesso, e un odore ancor di più, il filo del gomitolo da dipanare.
e poi ne parlate come se si trattasse di un romanzo! ci mancherebbe che un racconto avesse quella intensità-densità che richiedete! esiste anche la leggerezza: la superficie non è mai propriamente superficiale.
a me piace intra-vedere, sono per le letture che posso interrogare, non per quelle che mi danno le risposte.
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