Io non sono qui
di Mauro Baldrati
Io non sono qui è un film che diventa bello, a tratti molto bello con qualche picco di bellissimo o addirittura di meraviglioso: all’inizio serpeggia l’inquietudine perché sorge il sospetto che si tratti di una copia di No Direction Home, il documentario con filmati originali di Scorsese: interviste veloci, tracce di concerti, canzoni, ritmo serrato, ma il tutto filtrato dalla finzione e dalla patina del rifacimento e della posa; poi però arriva una scena – uno dei picchi di meraviglioso – in cui il primo dei sei protagonisti che interpretano personaggi ispirati alla vita di Bob Dylan (perché è un film ispirato e non, come hanno scritto sbrigativamente gran parte dei recensori, su Bob Dylan, come se fosse una biografia per immagini), un ragazzino musicista di colore che viaggia sui treni merci come un lonesome hobo guthriano (e in effetti dice di chiamarsi Woody, e forse mente, proprio come mentiva Bob Dylan quando affermava di venire da città sconosciute – però potrebbe anche essere davvero lui, Woody Guthrie in persona anche se siamo nel 1959, perché i piani temporali, i registri narrativi si intersecano e si confondono in una autentica sfida psichedelica) suona la chitarra con due tipi, e noi riconosciamo Richie Heavens, lui, con la barba e una dentiera nuova sfolgorante (era già totalmente sdentato a Woodstock), e ci becchiamo un colpo di eroismo che ci mette immediatamente di buon umore; e finalmente il film parte, prende vita: la fotografia furiosa, con contrasti alla Avedon e restituzioni della swinging London di una bellezza struggente; i sei personaggi che agiscono, amano, delirano, alcuni che emergono dalla storia come veri e propri giganti, caricati di potenza letteraria e recitativa da grandi attori – soprattutto attrici, in primis una divina Cate Blachett che interpreta una riproduzione esatta del Dylan elettrico, pop, il Dylan di Higway 61 Revisited e di Blonde on Blonde – oppure Charlotte Gainsburg, la moglie di Robbie l’attore, bella, tormentata e triste – perché nelle varie storie che si alternano con ritmo incalzante i personaggi non sono tutti cantanti, c’è un poeta, un attore, un fuorilegge alla Billy Kid (Richard Gere), che come il ragazzino Woody potrebbe davvero essere una riproposizione a-temporale del Kid – le varie storie che si sovrappongono, che deterritorializzano una trama e un personaggio multiforme già deterritorializzati dalla Storia, proprio come Jude-Cate Blanchett che sprofonda nel cinismo e nella disperazione; Jude ossessionato da un giornalista che lo inchioda al muro delle sue responsabilità – lo accusa di essere incapace di provare emozioni “standard”, amore, odio, invidia –; ma forse Dylan è stato anche questo, un personaggio oggettivo e universale nelle cui canzoni milioni di persone hanno riversato emozioni proprie, amori, rabbie, mentre lui non sapeva esattamente chi e cosa era; non sapeva perché era, o non era, qui.
L’ho visto ieri. bello. Per quanto avrebbe avuto bisogno di qualche taglio. Costruzione sintattica del testo esplosa, inimmaginabile da un italiano. Vero è anche che in fondo si sarebbe potuto montare un po’ come ci pare, con quel materiale e quel linguaggio a disposizione.
Troppa indulgenza su certi periodi, su alcune vite di Dylan, in fondo. In generale concordo con l’analisi di Mauro.
La cosa incredibile degli americani è riuscire a fare mitografia con i viventi senza farne agiografia, e in contemporanea, fare storia, racconto, critica (ché Dylan, qui, non è solo incensato).
p.s.
qualcuno mi spiega una cosa? Il titolo è “i’m not there”. Io che sono uno scarpone l’avrei tradotto con “io non sono lì”, è stato invece tradotto in “Io non sono qui”. Secondo voi è un problema di assonanze? di cacofonie? Di ignoranza crassa?
io avrei tradotto: io non ci sono o io non ci sarò
tipo: noi non ci saremo dei Nomadi, we are not there
io sono altrove e so che intorno sono sbocciate le viole
Che figo che era il BOb!
@ gianni biondillo
Probabilmente si tratta della solita mania della distribuzione nazionale che manipola tutti i titoli dei film con l’unico obiettivo dell’imbonimento. Quando non dovrebbe tradurre, traduce; quando dovrebbe, non lo fa, vedi C. Eastwood Flags of our Fathers (Le bandiere dei nostri padri è troppo risorgimentale?). Ma, pronunciato da un italiano, “of our Fathers” somiglia al borbottare di una cane che si acciambelli, quindi nessuno lo pronuncia e il film fa settantadue persone al botteghino. Io non sono lì (o là) suona male: con il cinesismo imperante a Venezia potrebbe essere interpretato come “Io non sono Li”. Non è così perentorio come there che dà l’impressione che Bob in quel posto non ha proprio nessuna intenzione di starci. Ma “Io non sono ‘in quel posto’”? come la mettiamo? Ecco “Io non sono qui”: grande aura di mistero, la fantasima di Dylan che si aggira fra i vivi, centoduemila spettatori in più. E’ solo un’ipotesi. IO NON CI SONO. Va bene.
… in fondo Bob Dylan non è mai stato da nessuna parte. Siamo noi ad essere sempre andati da lui per ascoltarlo. He’s not here, there and everywhere…
Bob Dylan aveva questa inclinazione a mentire, e anche a rubacchiare. Insomma a impossessarsi di cose luoghi e persone con destrezza, senza farsi beccare. Lo faceva per esempio con i dischi degli altri: non ne ha mica fregati pochi! Non vedo l’ora, dopo aver letto la biografia scritta da Sounes, di vedere questo film, mentre il documovie di Martin Scorsese me lo sono perso: lo potrò recuperare?
Ma dov’è che si cerca sempre qualcosa o qualcuno? Qui o lì?
Freghiamocene dell’inglese, la lingua italiana è questa volta molto più puntuale e precisa.
IO NON SONO QUI. Procedendo a tentoni, direi che è proprio “qui” che io non sono mai stato e mai vorrei arrivare, mentre “lì” c’ero un attimo fa e forse ci tornerò uno di questi giorni.
Ma chi è che non è qui? Bob Dylan o l’autore di queste note?
Non fa differenza: io è sempre quell’altro.
Ha ragione Gianni Biondillo, gli americani sono proprio bravi “a fare mitografia con i viventi “.
Prendendo a pretesto Bob Dylan, potremmo dire che è proprio grazie a un qualcosa del genere che questo straordinario artista è riuscito a riscattare la propria libertà.
IO NON SONO QUI. E là c’è soltanto un qualche vicario di passaggio.
Bisognerebbe tenerlo presente, visto che a parecchi di noi potrebbe capitare in dono un sosia di Bob Dylan.
Certo, lui non è qui, lui è dentro
la sua musica
l’armonica a bocca mi porta…
Tutto vero. Visto il film stasera e confermo tutto.
@Robilant
sono cinque minuti che rido a leggere nel tuo commento “pronunciato da un italiano, “of our Fathers” somiglia al borbottare di un cane che si acciambelli,”, Non so perchè ma il paragone tra l’English dell’italiano medio e il cane borbottante mi fa ridere da morire e ho le lacrime agli occhi. Sarò scema? comunque anche tutto il titolo flegovauarfadars fa molto canino. :))
Bella meditazione sul traduttore-traditore.
Davvero, è il cane di un mio amico che borbotta sempre qualcosa prima di andare a dormire e sono convinto che una volta ha pronunziato il titolo del film. L’altro, “Lettere da Iwo Jima”, lo sto insgnando al gatto, ma ha difficoltà con la parola “Lettere”
Robilant
@robilant
Robilant anche l’immagine sonora del gatto che miagola JwoJima mi ha fatto morire dal ridere. Cosa avrò? un periodaccio sicuramente. ,)
Ti prego Robilant, scrivi un commento tutti i giorni che tira su meglio di un tiramisù.
non è questo film straordinario, anzi.
qui e là scivola volentieri nel brutto, nella ripetizione, nell’inutile, nella noia.
ma la tesi che sottende tutto il film è interessante: la sinistra americana di cui si propone una visone a più facce – sarebbe interessante discuterla – muore già negli anni sessanta.
è già spacciata con l’elezione di nixon, che è del ’69.
ho identificato tre citazioni testuali da Otto e mezzo di fellini.
Sì, una riflessione sulla sinistra storica americana, sulla sua fine, sull’importanza della musica di Dylan che sembrò tanto più importante quanto più si percepiva quella fine di quell’esperienza più culturale che politica, ma anche di quel modo di pensare.
Una parte del paese aveva annientato fisicamente l’altra. I due Kennedy, Martin Luther King, Malcom X e parecchi altri erano stati uccisi.
Il film sembra dirci che ad ucciderli era stata la stessa logica che aveva portato, meno di un secolo prima, Pat Garrett a eliminare l’amico William Bonney, su commissione degli interessi dei proprietari terrieri, impersonati proprio da quel governatore Wallace che fu l’autore del romanzo Ben Hur.
L’America che era stata unita per un secolo e mezzo, nella speranza di giustizia e felicità democratiche, nell’impulso anarcoide e individualista alla libertà, si era spaccata, e una parte, su commissione di interessi economici ormai planetari, aveva fatto fuori l’altra metà.
Dylan aveva capito che la partita era persa, che non gli interessava rappresentare i perdenti, farsi ossificare nel cliché che gli avevano affibbiato e si divincolava affermando la propria libertà di autore di fare quello che cazzo gli fosse sembrato più opportuno.
Mi è sembrato che il film dicesse: è impossibile sapere cose veramente ne pensasse Dylan, chi egli veramente sia stato e sia, e tutto sommato nemmeno ce ne importa molto.
L’unica cosa che davvero importa è che l’America che lui cantava agli inizi, sia morta, che non esista più.
Cose poi davvero fosse questa sinistra d’America, “l’altra America”, come la chiamavano i giornali, è un altro paio di maniche.
La mia generazione ne fu affascinata, ma mai ne fu convinta.
per snaporaz:
di citazioni felliniane ne ho indovinate due:
1) la gente nelle macchine, in fila, con le bimbe che sbattono sui vetri.
2) dylan appeso chagallianamente ad un filo.
la terza qual è ?
mi piaceva il dylan rimbaud nel film. Mi addormentavo ogni tanto, ma mi sembrava un buon modo questa dell’attenzione fluttuante per seguire lo svolgimento onirico del film. Viene da pensare che è un film assolutamente inattendibile ed antibiografico, ma proprio per questa sua inattendibilità losca e menzognera è quanto di più dylaniano ( e dylaniato) possibile. Certo che dopo aver visto ‘no direction home’ certi calchi sono davvero indigeribili.
l’impossibilità di identificare dylan viene sottilmente colta proprio da peckimpah, che in pat garrett and billy the kid gli fa interpretare un personaggio chiamato “alias”, uno che c’è e non c’è, che partecipa e non partecipa, che se gli chiedi una cosa ti sorride e non si capisce se ti prende per il culo oppure no, uno che essenzialmente osserva, anche se gli capita di lanciare un coltello a favore di billy.
quel film è riprova dell’arte somma di peckimpah, ma anche di quella di dylan: ambedue concorrono ad una delle scene più toccanti della storia del cinema, quella in cui slim pickenz muore sulla riva del fiume.
i pezzi strumentali di dylan, poi, sono geniali.
Il film non è mai la sua storia. Cosa giudichiamo qui, il personaggio Dylan o la ‘ristoria’ della sua vita pensata da Haynes (il film)? In ogni caso le due cose non coincidono: come sempre in Haynes la patina di falso sperimentalismo è in realtà il film ‘scrittissimo’ di un mediocre sceneggiatore. Più cerca di disorientarsi e più si fa meccanico. L’esatto contrario del personaggio Dylan.
Lorenzo
io, per dire, non sto “giudicando” nulla.
ll film comunque vorrebbe raccontare Dylan, lì prende il suo fuoco. Sennò è quasi niente, bella tecnica bella ed il solito fuso semina-sentenze.
La scena della balena, la scena del treno, la scena del palloncino, quella della bambina nel feretro, quella della giraffa, un rimbaud (?) catastrofico. Le altre tutte trasformazioni del docu-film di Scorsese e materiale annesso.
Allora, se mi prendi per l’anima, me la rendi. E voglio sentire quello che questo pazzo ed intelligentissimo eroinomane ha Scritto, voglio il suo suono e che il film ci entri proprio, lì. Ma la Blanchett meritava proprio tutto per la sua imitazione, meglio di una Guzzanti, e le interviste alla finta Baez e agli altri, bella infilata di professionalità. Poi?
Io dico che in questo film non c’è Dylan. E invero, la cosa più bella la dice con “Io non sono qui”. Geniale.
O un film sulle tribolazioni delle star, ecco, è un film sulle tribolazioni delle star, qui tutte le citazioni felliniane tornano. L’intervista dell’imberbe critico superinformato, l’agente del critico lontano sulla salitella, la bella (Alice?) nel boschetto che strega e ammalia.