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Dix-sept tentatives de poésie Canadienne

immagine-016.jpg Andrea Inglese

Tentativo Primo

Ecco Montréal così come l’ho lasciata. Una città che le mie sofisticate tecniche d’oblio hanno ridotto ad una semplice frase. “Non c’era la guerra.” (È più facile vivere qualche giorno in una città dove non c’è la guerra.) Questo è il ricordo più vivido, più certo. Posso essere stato manipolato, mi hanno magari rapito, per poi drogarmi, e attraverso ipnosi impormi alcune immagini o frasi fatte, e poi con sostanze non comuni hanno cancellato i ricordi del condizionamento, lasciando intatti solo quelli fittizi, ma comunque non ho visto morti, crateri per le strade, uomini armati ad ogni angolo, mezzi blindati fermi nei piazzali. È difficile anche per loro, per quanto possano essere astuti e progrediti medicalmente, neutralizzare le ramificazioni vaste, incontrollabili, di un’esperienza di guerra.

Ecco Montréal con il sole. Con le persone nella strade che camminano come in qualsiasi altro posto asfaltato del mondo. Ecco i negozi che vendono viti e bulloni, cavi elettrici, televisori, barattoli di sottaceti, macchine fotografiche digitali, pantaloni da uomo e da donna, riviste. Ecco i grattaceli, i taxi, i semafori, gli uomini sdraiati su dei cartoni, con delle bottiglie di plastica accanto che contengono il vino più economico della città. Fra poco, di questo passo, qualcosa di poetico, una frase, s’intrometterà nel discorso, arriveremo alla poesia, magari sbattendoci il naso, come quando si cammina su di un rastrello dalla parte del pettine di metallo.

Tutto quello che avevo da dire su Montréal, in realtà l’ho già scritto. Tutto quello che ho scritto su Montréal, compreso l’incontro con Dominique, è contenuto nel quaderno arancione L’Arganier senza righe. (L’Arganier è un albero favoloso dell’Africa e anche un nome che campeggia sulla copertina di una collezione di quaderni.) Di Dominique non scriverò niente, del fatto che ballasse a piedi nudi, delle sue braccia sensuali, delle sue bruciature di sigarette sull’avambraccio destro o sinistro, della stessa canzone dei Doors che selezionava ogni volta dal juke-box, della sua borsetta, del vino pastoso che abbiamo bevuto, e che ho offerto anche alla sua amica lesbica, del fatto che si presentasse come borderline, che parlasse del suo romanzo autobiografico, che il suo ragazzo fosse troppo ubriaco, e del mio desiderio, della mia sbronza quasi perfetta, di tutto questo non parlerò, non scriverò, nulla di tutto questo pigerò nel trasformatore poetico.

*

Tentativo Secondo

L’intento della poesia è quello di fare una frase semplice.
Ma per fare, materialmente, questa frase, bisogna prima, a propria volta, uscirne.
Uscire dalle frasi semplici è un lavoro molto complesso, lungo, rigoroso, scoraggiante, privo di rassicurante precettistica.
Non mancano i tentativi.
Le vie sono ardue, impervie, disseminate di tranelli, scenari dipinti, porte che si aprono su precipizi.
(Fosse facile anche solo
vederle, quelle uscite, magari da lontano,
grazie a delle scatolette luminose che promettono exit ausgang sortie!)

Perché una volta fuori, poi rientrare è un gioco.
Rientrando, si è già nella poesia.

Questo è il secondo tentativo di poesia canadese. Molte cose sono state presentite, alcune, molto poche, sono apparse, in una luce di mediocre evidenza. Quasi tutto manca. (È tranquillizzante, abbiamo consumato poco: le risorse poetiche praticamente intatte.)

*

Tentativo Terzo

Mi sembra che non stia andando per niente bene.
Che non stia andando per niente.
Che in questo modo nulla si muova.
Altrove, altrove. Per toni diversi, per altri colori.
[Ovunque altrove.
Con maestrie veraci, con pazienze altre, straniere,
[con minuziosità.
Mettendo versi, versando versi nelle frasi, facendo di una frase
[versi.
Versificando, di taglio. Altrimenti. Ben altrimenti, altrove,
[se ne fanno
a modo
non così.

Non si affronta così una poesia. Siamo ben lontani.

Fin da subito la manovra è apparsa corta, sospetta.

Non c’è canto. Manca la coerenza, la prospettiva, la gradazione, lo sfumato, il neretto, l’affondo, il ritmo convulso, lo scioglimento, la base, l’ampiezza formale.

È nelle fasi iniziali della poesia che maggiormente si è vulnerabili alla depressione.
La scrittura stessa è di per sé deprimente.
E più che mai nelle primissime righe.

La pretesa che valga la pena di scrivere
è di gran lunga la cosa più oscenamente deprimente che mi sia mai capitato di vivere.
Scrivere è sì una faccenda di uscire, ma di uscire dalla depressione, che l’atto di scrivere immediatamente impone come stato d’animo adeguato, autentico e permanente.
Con questa grave depressione che mi è piombata addosso, proprio ora, scarse
scarsissime
le speranze di parlare di Canada.
Per altro, nessuna speranza. E di nessun tipo.
Non rimane che il tentativo del sonno. Tentare il sonno
[come forma vincente di poesia
laddove la poesia s’impone come impossibilità e sconfitta.
[Dormire
per chi riesce
anche adesso
(almeno questo è possibile)

Questo è il terzo tentativo. Ma non si è avanzati in nulla. (Guadagnata un’insonnia.)

*

Tentativo Quarto

Sul fondo trasparente di una barca, su di un fondo di vetro si mostrano, scorrono, come nella luce azzurra della telecamera, scie frastagliate di coralli, a colori cangianti. Il movimento è lento, ma sicuro. I remi sono sollevati, negli scalmi. È il mare che viene verso la barca, navigando lento da ogni lato.
Ma non è Canada.
Sri Lanka forse.

Ancora una vacanza, un barlume di vacanza rimasto in memoria, in isolamento, sospeso nel vuoto, e facilmente associabile con qualsiasi altro ricordo o frase. O puro spaesamento televisivo (un documentario di Jacques Cousteau), o sussulto di vecchio acido, scoria chimica non disciolta. Graffi mentali che si somigliano, si attraggono, nenie che qualcuno ha sussurrato anni fa, o qualche diapositiva trovata a terra, o la telepatia degli insonni, o il riverbero delle voci nei sogni più lenti.

La poesia è quando la vacanza, finalmente, si rivela impossibile.

La presenza del mondo soleggiato, ritagliato a fiori e frutta, un ingombro idiota.
“Profitta, dai profitta”: gli occhi
si spingono intorno,
a cercare un geco, una radice d’albero, un accoppiamento
[di grandi cavallette,
un muschio viola sul mattone o l’ardesia,
tutto trovano, e continuano a mancare
di qualcosa,
il turista bucato, come un soffio di vento vacuo
lo traversa,
tutto il costruito trofeo
di dettagli scelti,
tutto il mosaico di lontananza e antichità
il soffio lo spazza di continuo,
il turista bucato
è un buon poeta.

Il turista cammina radente ai muri, chiuso nella sua colpa.
Non è stato all’altezza del turismo.

Ad esempio: l’oblò di un aereo Airfrance, come fosse a suo modo il fondo trasparente di qualcosa, e in un azzurro violento e deserto, si muove anch’esso un poco, sfila di traverso, sul bordo inferire una scia di nuvole, né bambagia né neve, un bianco scintillante, asciutto, roso o traforato. Che qualcosa si muova, è la condizione perché viaggio ci sia, perché la scrittura sia immagine fedele del viaggio, nell’impossibilità di dire quello che nel viaggio è accaduto. Ma quell’accadimento oscuro che è il viaggio si fa percepibile, per il lettore, nel movimento, non oculare, ma analogico, somigliante, come in iposcènio, larvato.

Tutto, in poco tempo, in pochissimo spazio, è stato mosso, e subito, inutilmente, riparato, ricollocato, fermato.

Il tentativo di poesia è un genere letterario? È un piccolo complotto letterario?
È una forma affidabile, con sufficiente contenuto, sufficientemente civile, ma sciolto, audace, non ideologico? È un piano efficace, con bersagli precisi, e argomenti armati, sottintesi letali?

Al quarto tentativo, maggiori speranze. La tattica del movimento accennato. Forse un diversivo.

//

(Da Re: viste sulla letteratura e le arti, luglio 2007)

(Foto dell’autore)

10 COMMENTS

  1. cosa ci può essere di più ghiotto, per un tesserato di NI, di un articolo come questo che poetizza il processo di gestazione di un testo poetico?

    Invece, caro Andrea, il tuo articolo andrà deserto o pressochè

  2. sembrerà strano ma leggendo questo pezzo mi è tornato alla mente un vecchio film: “Fantastic voyage” in cui un’equipe medica veniva minuaturizzata per eseguire una operazione al cervello direttamente dall’interno del corpo.
    Questo testo, molto bello, mi ha dato la stessa sensazione. Un viaggio dentro la poesia in cui cambia la prospettiva e la dimensione di quello che si vorrebbe dire.
    Aggiungo che nel film ad operazione completata, il sommergibile e il suo equipaggio verrà espulso attraverso una lacrima.
    grazie
    lisa

  3. a massey
    correggo il “che poetizza il processo di gestazione ecc.”, che “poeironizza il processo di gestazione”… (lo sguardo poetico è quel che rimane quando anche il turista intelligente fallisce il turismo…)

    a Pepper:

    blank

    a lisa
    è un film che amo molto, visto la prima volta da bambino, rivisto recentemente e ancora piaciuto, e poi, si, la lacrima, un’espulsione assai “poetica”…

  4. >laddove la poesia s’impone come impossibilità e sconfitta.

    qui vedo le radici di questi tentativi, e di più, un’ ultima essenza del viaggio della scrittura come uno sguardo fisso nel buio. I miei complimenti, per quello che possono valere.

  5. Ma per fare, materialmente, questa frase, bisogna prima, a propria volta, uscirne.
    (…)
    Perché una volta fuori, poi rientrare è un gioco.
    Rientrando, si è già nella poesia.

    {continuando a “poeironizzare” il processo di gestazione}

    Oh non ne sarei così sicuro… innanzitutto bisogna cercare di non perdere la chiave.
    E poi dipende da come hai lasciato la “stanza” prima di uscire.

    Pulita, ordinata come certe camere di campagna con il letto alto, le coperte bianche e le persiane accostate.

    Oppure in disordine con le finestre spalancate che sbattono, le pentole sul fuoco, i rubinetti aperti e una donna spettinata che piange in un angolo.

    Spaventosa come quella del castello di Barbablù con i pezzi sanguinanti delle mogli appesi a i ganci, che solo ad aprire la porta ti viene un colpo.

    Con la porta stregata che ti ci vuole una formula magica da ripetere tre volte e non è “apriti Sesamo”.

  6. In ogni caso, una volta fuori, sarai d’accordo che il metodo dell’effrazione fradolenta rimane quello più sicuro e diretto?

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.