Diorama dell’est #4
di Giovanni Catelli
Hradec Kralové
Tu ricordi questi alberghi tiepidi, a cui tornare nell’alba, fumando piano sulle scale in attesa del giorno, disponibili alla luce, alla visione della vita, precari nell’altezza, sospesi, all’insegna sottile che sbiadisce d’azzurro, nell’ora del mattino che venera il silenzio, mi confortano, leggeri di vetrate, deserti, così giovani a sorreggere il presente, la mano furtiva che tradisce, ignari, del fuoco invisibile attraverso le case, nome lontano a devastare città, esercito d’ombre a pattugliare le strade, mi proteggono, dall’urto dei rimpianti, dal rumore, navi serene sui mari del passato, lievi di stagioni, polvere sommessa, ritorni, visite furtive, risvegli, voci di stanchezza, chiarori.
Siamo ancora sfuggiti, al nostro lento viaggiare, confusione fraterna del buio e dei giorni, la vita minuziosa ci disperde, nelle minime distanze che sbriciolano i mesi, ci diffonde, in uno sciame di gesti senza meta, ci solleva, dalla nitida ragione che traversa le apparenze, ci abbandona taciturni alle radici del mattino, allo stupore solitario di vedere l’attimo che viene.
Risaliamo dalle acque del sonno meridiano, con le ceneri dell’alba sparse nel silenzio, quando il gorgo laborioso delle ore già consuma la via dell’imbrunire, ci sorprende quell’ampiezza vasta e muta del ritardo, ci rallenta nello spazio le folate dello sguardo, si dilatano pareti a soffocare l’indolenza, navigano specchi nel risveglio senza nome, sale una fermezza di pietre nel respiro.
A.
Verso la fine degli anni novanta, alla stazione di Hradec Kralové, si poteva incontrare A.
Veniva da un piccolo villaggio, andava a Brno.
Le coincidenze di autobus e treni l’affidavano ad atri di passaggio, attese, ombre di pensieri.
A volte percorreva, lentamente, il corpo luminoso degli ingressi, oltre le panche affollate di rumori, fendendo l’energia sospesa degli arrivi e dei ritardi, sciami di pulviscolo accesi dal mattino, dense libagioni dell’affanno e del sudore, spesso ignota e sola, dividendo i flutti del silenzio, nelle sere vane della festa e dell’inverno, con la muta e tenue vita delle biglietterie, l’avara vibrazione dei tabacchi e del caffè, lo stanco risalire delle cifre ai tabelloni.
Passava, lentamente, lungo vetri, luci, manifesti, porte, rischiarava, forse, gli attimi segreti della pausa, l’interrompersi, ufficiale, della corsa irreparabile, dei gesti volontari, della regola di ferro, che muoveva le bilance, i contrappesi, le corone, ma spegneva la sua marcia nell’incanto, sospendeva un filo acuto di lancetta, si piegava nel chiarore alla solidità del varco.
Usciva, raramente, nei mattini lieti, nell’estate, sul piazzale vasto e vorticoso di bus e di corriere, non solcava i margini dell’aria, non gettava il passo al porfido allo spazio, costeggiava, la barriera fiduciosa, la tettoia degli autunni, l’ombra della folla, ritornava, sulla traccia inseparabile dei mesi, l’orma dell’istante, la perduta polvere del viaggio.
Ora non visito, più, la stazione, corro altre piazze alla fuga dei treni, vigilo rapidi orari d’affanno, perdo nel fiato la traccia dei volti, scendo lontano dal suo salutare, forse l’incalza il vago avvenire, già si dissolvono luci allo sguardo, crescono sale nuove all’attesa, scoccano limpide ore al quadrante, rare città le misurano il passo, come sapere nell’arido istante, come scavare la via l’occasione, traccia precisa che incontri un respiro, vogano quiete le cose al destino, cade segreto un rumore un fruscio, sfiora selciati fedeli al pensiero.
Periferia (Hradec Kralové)
Non torneranno più, gli amici lontani, dalle città imprecise della memoria, dai telefoni metallici di stazione, dalle grandi arterie di semafori ed incroci, così leste a ricondurli, nei pomeriggi assolati d’illusione, lungo i minuti sospesi prima del suono alla porta, quando l’attesa è colma d’ogni suo stupore : salivano, improvvisi e definitivi, come a ritorni perenni, da remote rincorse, vaghi tragitti nel dubbio, solcavano, la grande luce la piazza, l’ora desolata, la vana oscillazione del silenzio, animavano scale, perduti pianerottoli, già iniziava il raccontare, un distillarsi della vita lungo il viaggio, spazio disteso, innocente, ormai conquistato e sereno ; salivano, come ad anni spalancati, a silenziose promesse disponibili, piegavano la quiete minerale dei cementi, lo spessore intatto dell’aria nell’estate, lievitavano voci nel chiarore, s’affacciavano a rampe mai compiute, misteriosi graniti e vernici, sfinite biciclette di penombra ; salivano al saluto, d’una sagoma sottile, un cencio vivo, d’allegrie magliette sandali, un sorriso senza fuga, un lampo, di giorni già più lievi, gite, piazze luminose, primavere, un palpito, d’abbracci rincorse lietezze, fra i muri freddi e muti che s’inseguono, infiniti, nel futuro : come dire, adesso, a quali numeri perduti non rispondere, per chi temere la notizia del silenzio, l’annuncio che frantuma l’ansietà dell’ apparenza, da quali cieche stazioni arriverà, una parola che ricordi, un riso che s’affacci, una domanda che s’avveri lieta, già un risucchio vuoto, una pausa senza suono, fugge dal telefono, una sosta della vita prima della voce, una segreta risposta per chi è lontano, e ritorna, e non sa : ora s’illumina il vasto viale degli anni, già depredato di luci e stagioni, vane leggere impronte di vita, tragitti del corpo e degli occhi, smarriti richiami fermati dal gelo, come dar peso più ad una sera, come al cadere del giorno dai vetri, non si ripete il respiro alle stanze, non s’avvicinano sandali al buio, come più stringere dita irreali, ancora nel sonno rincorrere piano i perduti.
narri un esule viaggiare, denso di luce, poetico e avvolgente…
-… non solcava i margini dell’aria, non gettava il passo al porfido allo spazio, costeggiava, la barriera fiduciosa, la tettoia degli autunni, l’ombra della folla, ritornava, sulla traccia inseparabile dei mesi, l’orma dell’istante, la perduta polvere del viaggio.-
così viaggio anch’io…
è vero della densità, così densa che sono parole che viene da guardarle così, per come si mettono sul foglio, come per cercare soluzioni nei disegni, nelle virgole, nelle parole agganciate.
e poi mi piace che una sola parola possa arrivare da una cieca stazione. una sola.
questa scrittura mi piace molto, non mi è facile dire perché, l’impressione che riesco a dire è che mi fa perdere; mi porta a spasso, con quella cadenza che ogni tanto si avvita in endecasillabi continui, e mi lascia alla fine sospeso non so più bene dove.