Una luce nel mondo morto

 

di Mauro Baldrati

Questo viale deserto, grigio e tremebondo io lo chiamo la Prospettiva Cosmodemonica. E’ diritto, coi platani ai lati, marciapiedi senza pedoni, poche auto parcheggiate, pochi negozi. Non è neanche lungo, è un viale corto, il viale principale del paese fantasma merdacchioso di Mezzaluna.
Lo percorro tre volte, avanti e indietro, con la R4, cercando chissà che, forse di vedere qualche faccia conosciuta, poi rinuncio e me ne torno a casa.
Parcheggio la R4 alla cazzo di cane e entro nella mia vecchia casa a due piani, col piano terra disabitato e il giardino con le erbacce. Salgo le scale, entro nel soggiorno e metto un disco dei Devo a tutto volume. Sono grandi i Devo, i Maciste della New Wave.
Suonano il campanello. Mi affaccio alla finestra per controllare, perché se è qualche parassita che viene qua a scroccare lo mando al diavolo, ma mi viene un mezzo colpo. Sono le due sbarbe di Massa Lombarda, non so come si chiamano. Cioè, probabilmente me lo hanno detto, ma chi si ricorda.
Cosa vogliono? Bah, si sa cosa vogliono. Cosa vogliono di solito le sbarbe?
Scendo le scale e apro.
“Ohhh, ciao Toni!” fa la biondina, che è la più carina, anzi è proprio carina da matti. Anche l’altra, che è morettina, mi saluta, sorride, ed è carina pure lei. Guardo in strada. Non c’è nessuno. Come sono arrivate qua? Evidentemente le hanno accompagnate, poi hanno mandato il tipo o la tipa a fare un giro. Per essere sole con me, senza impiastri tra i piedi. Perché io, le sbarbe lo sanno, gli impiastri non li sopporto.
“Ciao Toni, come stai? Possiamo salire, ehhh?”
Un ehhh furbetto, da sbarba furbetta. Le faccio salire, ridacchio con loro, passo anche un braccio intorno alla vita della morettina, che ride.
“Ciao Toni, ce l’hai un po’ da fumare, ehhh?”
Ecco quello che vogliono sempre le sbarbe: da fumare. Hanno chiesto a un amico o un’amica di fare ventidue chilometri per venire qua a fumare. Lo sanno che ho il fumo buono. Le sbarbe hanno sempre le dritte giuste.
“Un po’ di fumo per le sbarbe, ehhh, Toni?”
Apro la cassetta rossa sopra il giradischi e tiro fuori il caccolo. Un bel troccolo di nero Manali fresco e profumato, fumo da sballo che viene da Rotterdam. Mi siedo e lo scaldo, lo sbriciolo e lo modello in tanti pallini che bruceranno di un fuoco fresco e fragrante che arriva dritto al cervello. La sbarba biondina mi siede sulle ginocchia. Mi passa una mano tra i capelli. Mi viene un leggero capogiro. Oggi va così, di capogiri.
“Mah” faccio, allusivo, “non so mica però se ho voglia di fumare”.
La biondina fa ehhh, mi si sdruscia addosso e appoggia le labbra fresche e umide contro le mie. Da dietro arriva la morettina che mi infila una mano sotto la maglia, lungo la schiena.
“Ohhh, Toni, dai, abbiamo una voglia di fumare… prepara questo cannone, fa’ il bravo. Non vuoi fare il bravo con le sbarbe?”
Ehhh?
Preparo un cannone da guerra e lo faccio accendere alla morettina. Tira una bordata golosa, poi un’altra e lo passa alla biondina.
“Ohhh, che buono questo fumo” fa, “ è divino”.
Mi passano il cannone, caccio un paio di tiri distratti, ma cosa può importarmi del fumo? Neanche lo sento.
Tocco una tettina della biondina. Lei ride, mi infila la lingua in bocca. E’ già partita. Anche la morettina è decollata. Mi sfilano la maglietta, mi baciano sul collo. Ci spostiamo sul divano, tolgo i pantaloni alla biondina, ammiro le belle gambe chiare, con la pelle di luna. La morettina tira dal cannone, lo passa alla biondina, ridono, si sfilano magliette e camicette, mi tolgono i pantaloni, mi tirano fuori il cazzo, che è già duro come un bastone.
No, è sbagliato, è ancora duro, da stamattina. A me talvolta, anzi spesso, fa così la roba. Mi viene duro come un sasso e non va più giù. Comunque va bene perché la biondina fa, prima di prenderlo in bocca: “osta com’è duro!”.
Ci stendiamo sul divano, ci voltoliamo, ci baciamo, lecco le loro passerine strette e profumate. Tirano ancora dal cannone, partono per l’iperspazio, mi vengono addosso come gatte, mi baciano, poi la biondina lo vuole dentro e io glielo infilo tutto fino all’elsa, lei fa “ohhh”, io pompo come un dannato e lui è un legno stagionato e lubrificato dalla sua passerina calda, poi la morettina vuole il suo turno, io mi stendo sulla schiena e lei mi viene sopra, la biondina mi bacia, mi sdruscia la passerina sulla faccia, poi la morettina fa “dai Toni sborrami dentro” e qui viene il problema.
Il problema.
Con la roba è una parola eiaculare. Si può stantuffare per ore e ore, ma lo spermaceti non esce, oppure esce quando gli tira a lui, magari senza uno straccio di orgasmo.
Però mi scoccia che non esca, così mi concentro al massimo, tendo i muscoli, i nervi, mi prendo la lingua della biondina che mi bacia come una ventosa e finisce che arriva una cosa forte, quasi dolorosa. Insomma, il classico orgasmo strampalato da roba.
“Ohhh” fa la morettina, che smonta da cavallo e si stende accanto a me. Anche la morettina si stende accanto a me, dall’altra parte, e sospira. Anche la morettina sospira, e anch’io.
“Ma è sempre duro!” fa la biondina.
Normale. Con la roba si può eiaculare ma lui rimane su a tempo indeterminato.
La biondina  fa “adesso tocca a me” e mi viene a cavalcioni. Fa “ahhh…” e chiude gli occhi. Fa “dai Toni sborrami dentro anche a me”, ma io sento, io so che non uscirà neanche una goccia di spermaceti in questa posizione. Così la ribalto sulla schiena e, tendendomi come un asse da muratore, appoggiandomi sulla punta dei piedi e sulle mani, riesco ad avere un secondo orgasmo che batte come un martello nei lombi. Mi accascio, con una vampata di sballo da roba che mi attraversa come una scarica di calore.
“Oh. Oh” faccio, sballato, scoppiato, disarticolato.
La morettina, intanto, ha rollato un altro cannone. Ridono, sgrignano spalancando la bocca.
Le sbarbe sono, sono sempre state e sempre saranno di una golosità insaziabile.
Faccio un giretto sulla Prospettiva Cosmodemonica, così, tanto per vedere se ci sono novità. Avanti e indietro due volte. La situazione è immobile, un’immagine in pausa.
Una foto.
Ma dove sono finiti gli abitanti di questo paese? Sono tutti morti?
D’un tratto lo vedo. Non c’era prima, ne sono sicuro. Inchiodo la macchina e scendo con la macchina fotografica, che porto sempre con me. E’ un cane di piccola taglia, disteso su un fianco. L’hanno spappolato, escono gli intestini, lo stomaco, tutto. Giace in una pozza scura. Lo inquadro, lo fotografo in bianco e nero con questa luce diffusa dai platani, con le ombre morbide.
Fotografo tutto ciò che è distrutto, rovinato: carcasse di auto, manifesti strappati, case diroccate, alberi secchi. Cerco la bellezza nella deformità e nella fine. Cerco la luce nel Mondo Morto.
Torno a casa e trovo la Pinina che mi aspetta davanti al portone. Ha appoggiato la bicicletta al muro e ha una sporta di plastica in mano. Appena mi vede ride. Ride sempre la Pinina. Ha un modo di ridere, con gli occhi che brillano e una cadenza trascinante, maliziosa, che eccita. Lo farebbe venire duro a un pettirosso la Pinina.
“Oi, Toni” fa la Pinina, “facciamo un giretto?”
Un giretto. Quando viene qua vuole sempre fare un giretto in macchina.
“Però prima beviamo un goccetto?” fa.
Apro il portone, saliamo le scale. La Pinina va diretta al mobiletto di fianco al divano, prende la bottiglia di Slivowitz che mi hanno portato dalla Yugo. Beve un lungo sorso a garganella. Ne beve un altro, poi me la porge. Anch’io bevo un sorso, perché sento qualcosa di preoccupante che mi serpeggia lungo la schiena, sulla nuca: è la roba che inizia a calare. E’ ancora presto, dannazione. Bevo. L’alcol aiuta, si connette con la roba, la tira su. Per un po’.
La Pinina ride rovesciando indietro la testa, scuotendo i lunghi capelli castani.
La Pinina è la ragazza del mio migliore amico. Cioè, del mio migliore di adesso, di questo momento, perché le migliori amicizie cambiano nel tempo e nello spazio. Un mio migliore amico di dieci anni fa, quando eravamo hippies, non lo vedo da tre anni. E’ ancora il mio migliore amico?
La Pinina beve un altro sorso poderoso, poi fa “andiamo, dai”.
Usciamo, saltiamo sulla RE4, punto verso la campagna.
La Pinina dice delle robe, dice che è andata a fare la spesa, ride continuamente.
Io guardo i prati, il grano, i frutteti, penso che sto andando in campagna con la ragazza del mio migliore amico, e lui non sa niente. Però io alla Pinina non ho mai fatto alcuna richiesta, mai. Lei arriva a casa mia, beve la Slivowitz, ride, poi usciamo. 
Imbocco il sentiero nel boschetto e arrivo nella piazzola dove c’è la centralina del metano. Spengo la macchina. La Pinina ride come una matta, mi mette una mano sul cazzo, fa “osta della miseria è già bell’e duro”. Poi si apre la camicetta, tira fuori le tette. C’è da dire questo della Pinina: non è che sia bella, anzi, potrebbe essere definita bruttina; oppure, se lo è, la sua è una bellezza scalena con quegli occhi asimmetrici e il naso grande. Però ha il più bel paio di tette della Bassaromagna: grosse quanto basta, dritte, coi capezzoli gonfi. Me le sdruscia sulla faccia, sospira, intanto che me lo smanetta. Mi tira giù i pantaloni, mi viene a cavallo e se lo mette dentro. Rovescia indietro la testa, mi tira i capelli. Io sento la sua passerina calda, aderente, mi piace, però ho questa sensazione inquietante della roba che vuole calare ma non può, è tenuta su dall’alcol. Poi la Pinina esce, mi fa spingere indietro il sedile, si accuccia davanti a me e lo prende in bocca. Io mi abbandono sul sedile, chiudo gli occhi. Ha questa passione la Pinina. Questa deve essere la sesta volta che veniamo qui e, a parte la prima, le nostre scappatelle si sono sempre concluse con un rapporto orale.
“Dai, sborrami in gola” fa, con la bocca piena.
Non è così semplice. Lui è sempre duro, è come un ramo di quercia, ma non riesco a farlo copulare. La Pinina è brava, è una grande professionista, usa i denti, la lingua, succhia, lo lubrifica tutto e usa anche le mani, però per quanto mi tenda o mi lasci andare alla sua bocca non ce la faccio a eiaculare. La roba me lo impedisce. Però a un certo punto allargo le gambe fino a spaccarmi, mi godo al massimo la sua mano che mi massaggia le palle, l’altra che mi solletica la cappella, e anche l’ano, e vado con lo spermaceti. La Pinina geme e lo ingoia tutto, fino all’ultima goccia. Come voleva.
Mi accascio sul sedile, coi pantaloni calati, stremato, il cazzo sempre duro.
La Pinina ride, scende dalla macchina, si ricompone. Fa: “Dai Toni, vieni giù che voglio fare una cosa”. La guardo stravolto, sballinato, con gli occhi storti. Scendo faticosamente, gemebondo. La Pinina si inginocchia davanti al mio cazzo, lo fa dondolare. Poi apre la sporta di plastica e tira fuori una pagnotta. Col dito indice pratica un buco, in alto, e ci infila dentro il mio cazzo. Ride. Fa: “dai toni, pisciaci dentro”. Guardo il mio cazzo dentro la pagnotta. “Che?” faccio. “Sì, dai, Toni, fai una pisciatina qui dentro”. In effetti ho parecchia pipì, e dopo avere esclamato un paio di “osta della miseria!” la lascio andare nella pagnotta. Cioè, non è facile fare pipì in una pagnotta col pene eretto, devo spingere indietro il bacino e la Pinina lo allontana dal buco, guarda il filo di orina che sparisce dentro la mollica. Quando ho finito me lo sgocciola, soppesa la pagnotta. Ride.
Io mi tiro su i pantaloni. “E adesso?” faccio. “Lo… mangiate?”
La Pinina sembra pensarci su, fa: “Ma.. no, no”, come se una decisione, mangiarlo o non mangiarlo, valesse l’altra. Penso a lei e al mio migliore amico che mangiano la pagnotta inzuppata della mia pipì. Mi verrebbe da ridere, ma nel mio sangue scorre la roba, che non è tollerante con la risata. E’ trucida la roba.
La Pinina butta la pagnotta. La lancia già dal pendio. “La mangerà qualcun altro” fa. “I topi. Magari una bella topa”. 
 

Mentre torniamo in paese, in fretta perché la Pinina deve comparare un altro pane, penso che è tardi e sta per tornare la Franca, la mia fidanzata ufficiale. E’ venerdì, arriva stanca morta da un paesotto della Bassaferrarese ancora più merdacchioso di Mezzaluna dove la sua azienda ha preso un lavoro. Vorrà farsi una doccia, mangiare rilassata, andare a letto e fare l’amore. Intanto la roba sta calando, la sento che mi scortica vivo, mi succhia il calore, mi prosciuga il midollo.
Sono le tre. Non riesco a dormire. Non ho dormito, perché non è autentico sonno la catalessi sconvolta dai pruriti e dalle semi-veglie della roba. Non si dorme, né si sta svegli. E’ un non-sonno, un non-tempo.
Davanti a me, sul tavolo, ci sono due contenitori di plastica, scatolette col coperchio per conservare gli alimenti: quella di sinistra contiene una trentina di pillole bianche, i sonniferi. Me li ha dati il Pippo, un tossico che ha tentato e ritentato, inutilmente, di smettere. Dice che, se uno vuole affrontare il grande viaggio senza rivolgersi alla sanità pubblica, dove ti schedano, e in barba al segreto professionale in un paese merdacchioso come Mezzaluna dopo cinque secondi tutti sanno tutto di tutti, i sonniferi sono fondamentali per resistere ai terribili dolori muscolari, ai mal di testa e all’insonnia feroce che subentrano all’astinenza.
Nella scatoletta di destra ci sono tre etti di brown sugar purissima, che ho comprato a Rotterdam col Manali un mese fa. Venti milligrammi al giorno suddivisi in tre schizzi rendono quanto un grammo di roba comprata sul mercato.
A sinistra c’è il salto nel buio, c’è l’ignoto.
A destra c’è la Prospettiva Cosmodemonica tremebonda, la Prospettiva interminabile.
A sinistra c’è la sofferenza, l’incertezza, c’è la spinta per tornare indietro.
A destra c’è la caduta sul piano inclinato, la certezza del non-ritorno.
Stanotte devo fare una scelta.
Non ho mai fatto una scelta, non mi sono mai posto il problema.
Franca mi ha dato l’ultimatum: o ne esci, o me ne vado.
Intanto dopo avere fatto l’amore con lei mi è finalmente andato giù. E’ a riposo, morbido, caldo, rilassato. Non ho dovuto concentrarmi, né mettermi in tensione. E’ più potente della roba, la Franca. Io la voglio, la Franca.
Nondimeno è forte, fortissimo il desiderio di farmi uno schizzo notturno. Forte è il richiamo del flash, o della sua idea. Perché non c’è più flash, solo la palpebra pesante, la testa che cade in avanti.
Guardo le scatole.
Stanotte devo fare una scelta.
Cerco una luce. Una luce nel Mondo Morto.

(La foto è di Mauro Baldrati)
 

40 COMMENTS

  1. Letteratura, in senso deteriore.
    Si vede che hai avuto poco a che fare con la roba.
    Se la “rota” fosse quella che descrivi, cazzo perennemente duro e fighette che se lo contendono, non si capisce perchè uno dovrebbe smettere.
    E’ con mitologie d’accatto come questa, che nei Settanta molti hanno seguito il pifferaio, e non sono più tornati.

  2. a quanto mi risulta è vero che la roba non fa “venire”: è di per sé un orgasmatico ottundimento.
    l’eroina fa star bene, dimenticare tutto, anestetizza la coscienza.
    detto questo, aggiunto che accompagna all’inferno e che fa male, il racconto mi sembra buono, racconta una tragedia plausibile in modo scorrevole e divertente.
    a me sembra scritto per amore della scrittura piuttosto che dell’eroina.
    ma questo lo sa mauro

  3. Manali. Ce n’eravamo dimenticati. Manali e maiali. Una bella filosofia da schiavi. Col sottofondo dei Devo. Brrr.

  4. Grazie a Cristiano, hai colto bene alcune cose.

    Binaghi, lettura molto superficiale la tua, e credo di sapere anche perché, leggendoti qua e là: sei accecato da un furore di rinnegare il tuo passato (quello almeno cui hai accennato ogni tanto), per approdare a una fede integralista, spietata e superba. Di sicuro non ti metterò al corrente delle mie esperienze, che sono solo affari personali. Poi gli effetti della “roba” che, lasci intendere, hanno avuto su di te, non sono universali.

  5. Baldrati, l’unica cosa spietata qui è l’utilizzo che fai delle mitologie underground per scrivere brutti racconti, fuori tempo massimo.
    Una cosa come questa non sarebbe passata neanche su Re Nudo, trent’anni fa.

  6. A me non pare che ci sia compiacimento. Piuttosto, il personaggio che viene fuori è brutale, degradato, perso in una disperazione e un’apatia vuota, inumana, senza un barlume di luce.
    Non è il tipo di letteratura che preferisco, ma mi sembra che le intenzioni siano tutt’altro che morbose o celebratorie.

  7. Sono in parte d’accordo con Sergio.

    Per Binaghi, dove sia qui “l’ideologia” underground è un bel mistero, comunque a te le suddette ideologie underground ti mandano letteralmente fuori di testa, le butteresti tutte sul rogo, gli stessi roghi dove, ai tempi d’oro, quelli come te mandavano gli eretici e le streghe; riguardo a Re Nudo, mentre tu commettevi peccato su quel giornale io pubblicavo i miei testi su Frigidaire, dove invece ti avremmo pubblicato subito, c’era un inserto che si chiamava “Vomito, trimestrale di antiletteratura”; perdio, uno che qua e là scrive “togliti dai miei coglioni di cattolico” avrebbe avuto il titolo altisonante di “Teologia di Superbone”.

  8. baldrati, ormai è più che chiaro, tu non ti arruolerai mai tra i cavalieri jedi per combattere, insieme a noi (*), l’impero del male e la morte nera

    (*) “noi” sta per io, la principessa leyla, luke skywalker, (h)an(o) solo, maestro yoda, topolino, topogigio, braccio di ferro, olivia, minnie, bip bip e speedy gonzales

  9. Baldrati, non fare il furbo. Continui a buttarla sull’ideologico ma io alla fine ho detto che il racconto è solo brutto. Non c’è psicologia vera nei personaggi, nè allegoria di tipi, solo caricature.

  10. racconto molto buono. siamo stufi di narrativa che racconta le idee. le idee sono morte. quel poco di narrativa che resiste agli urti dei media è fatta di esperienze al limite raccontate con un linguaggio al limite.

    saluti,
    rs

    ps: nuove liste alla nitroglicerina su http://www.gammm.org

  11. Maestro, perché mai? Io sono per il trionfo del Bene (veramente c’è anche topo gigio?).

    O Binaghi, ma quale furbo. Se tu mi dici semplicemente “il racconto non mi piace” io ascolto e non ho granché da aggiungere. Tu invece hai postato un primo commento di una rozzezza unica, hai parlato di mitologie underground “fuori tempo massimo”, hai usato un racconto per buttare fuori i tuoi fantasmi.

    Ruggero, una lista di grazie.

  12. Quelli di Re Nudo
    Quelli di Frigidaire
    Quelli che ce l’hanno moscio
    Quelli che ce l’hanno duro

    Un titanico scontro fra eretti

  13. the o.c.: quasi tutta. dietro al racconto/romanzo c’è sempre la paura dell’autore di non saperne abbastanza.

    underground: in un certo senso, anche se la preghiera è solo il primo passo verso la dannazione.

    saluti,
    rs

  14. mah..
    io non ci ho visto nè tragedia, nè problematiche droghesche, nè mitologia underground, nè degradazione.
    Anzi, mi è venuto da ridere a leggere di tutte queste biondine, morettine, passerine strette e profumate e donnine un po’ morbosette pronte a far sesso in modo allegro, furbetto e compiacente con l’uomo di turno un po’ disperato ma sempre italicamente eretto. Se non sbaglio ne ho contate quattro in un giorno. E chi è questo?!
    Più che altro ci vedo il sogno erotico dell’italiano medio.

  15. sono rimasta molto impressionata da quell’erezione sempre presente, e dalla difficoltà ad eiaculare, deve essere abbastanza fastidioso!
    Spero tanto di non essermi mangiata quel panino!;-)

  16. straelena: in verità il sogno erotico dell’uomo medio, italiano e non, si chiamava mazari-sharif, manali o buddhagrass. Sotto quella cappa di nebbia, come per incanto, si materializzavano i fantasmi più intimi di tutti i volenterosi maialetti, sbarbi e sbarbe, che vi si sottoponevano. Con un po’di fortuna gli esiti erano spesso molto simili a quelli descritti nel racconto. Ehhh?
    Non so perché quell’epoca così gioiosa e divertente venga ora descritta con toni scandalizzati dalla beghina o dal baciapile di turno. Oppure con colori da tragedia nelle sceneggiate sociologiche televisive (abitare a Ibiza nel 1975 era un inferno: una terra martoriata dalla f…!).
    Forse per colpa dei coglioni che abboccarono all’amo del bromuro di stato. Mitologie? Ideologie? Ma fatemi il piacere. Quelli erano coglioni e basta.

  17. @robilant: vorrei far finta di aver capito cosa hai scritto per sembrare à la page, ma in realtà non ho capito niente. Please translate.

  18. straelena:
    si chiamava = ai tempi, più o meno, in cui si svolge il racconto
    Mazari-sharif = hascisc introvabile dai tempi dell’invasione sovietica in Afghanistan
    Manali = hascisc
    Buddhagrass = marijuana thailandese non più di questo mondo
    Sotto quella cappa di nebbia = quando si fumava insieme in luogo chiuso
    i fantasmi più intimi (dal francese “phantasmes”) = fantasie erotiche
    i volenterosi maialetti = anch’io nel numero
    gli esiti erano spesso molto simili a quelli descritti nel racconto = si finiva a scopare in numero superiore a due
    Ehhh? = chiedi a Baldrati
    coglioni = quelli che si grattano, non in senso scaramantico: quelli che si grattano perché sono fatti di ero
    f… = f…
    bromuro di stato = eroina
    Sarò onorato se potrò darti ulteriori delucidazioni (ora che mi hai ridotto come un didascalico idiota)

  19. se non ci mettevi la spiegazione non capivamo davvero nulla. voi sessantotardi non avete mica inciso sul mondo, anzi.
    se poi per andare con due signore bisognava prendersi quella roba poveri voi. a me basta il mio “fluido erotico”, modestamente.

    saluti, nonostante
    rs

  20. scusi la domanda ma, quanti anni fa è stato scritto?
    le R4 non sono più in circolazione da parecchio…
    io avevo il 2 cavalli a quei tempi…
    Ah…Bei tempi!

  21. Non parlo di signore, ma di mutevoli creature uscite dal pennello di un preraffaellita e ritornate chissà dove.
    Già, poveri noi.
    saluti, nonostante l’invidia

    p.s. nel sessantotto avevo 11 anni.

  22. robilant:
    cavolo roby, non bastava dire che ai bei tempi quando vi facevate una canna tutti insieme in cameretta c’avevate le fantasie erotiche? preraffaellite ok, ma pur sempre erotiche.
    Sempre onorata di decriptare i tuoi commenti. (avvisami quando intervieni :-)

  23. @straelena
    :) prometto ;)
    @ruggero solmi
    no. però mi sarei dato al bere se mi avessi salutato.

  24. in una parola: vecchi.
    tutto e tutti.
    dal racconto alla battaglietta nei commenti.
    di trent’anni fa c’è di peggio solo l’esaltazione nostalgica che ne deriva.
    fortuna arrivo tardi a commentare.

  25. Seguo con piacere (e divertimento) tutti i commenti. Vorrei chiedere in particolare a Andrea Tozzini, perché ha toccato un argomento ricorrente, cosa significa “vecchio”: ho appena letto un libro di Valerio Massimo Manfredi ambientato in Grecia durante il colpo di stato dei colonnelli, ci sono le contestazioni studentesche, l’impegno politico, è vecchio? Bisogna inserire degli elementi di contemporaneità come il precariato, lo schifo per politica, i telefonini, per scrivere? In questo senso “Tre metri sopra il cielo” ha, nella sola prima pagina, una decina di marche modernissime di abiti, auto; anche “Caos Calmo” ha i suoi bei riferimenti agli ultimi modelli di auto, moda ecc. Immagino che siano moderni. Poi, mi sfugge del tutto la definizione di vecchio riferita ai commenti.

  26. non ci provare.
    non è per una questione di linguaggio che ho inveito contro il tuo pezzo, che torno a definire vecchio – come del resto la tua risposta sottolinea. Vedi, il problema che tu poni è certamente una cosa attuale; già scrivere: “[..] K. prese il telefonino, digitò lettere corrispondenti al suo umore, poi tacque.” è qualcosa che fatica a entrare nella diciamo letteratura. Ma tu non fai questo e non sei vecchio per questo.
    Vedi, è chiaro da molto tempo che ciò che di qualsiasi cosa interessa è, aldilà della profondità di questa tal cosa, le tracce residue che emergono, emorragiche, tra una riga e l’altra – diciamole ductus. Ma tu hai preso una manciata di anni, hai preso molto Andrea Pazienza, qualcosa di Arancia Meccanica, e forse Sonia di Delitto e Castigo, impastandolo in una maniera affatto anestetica. Vecchio è da intendersi nel senso del passato, di vissuto, di imbellettato e rimestato. Qui ormai tutti sanno cos’è la droga. Il commento di robilant delle 20.00 circa di ieri sera ha illuminato decentemente la questione finto oscena che viene fuori dal pezzo. Tu hai avuto una buona illuminazione, forse di sera, mentre eri felice, e ti sei detto “una luce nel mondo morto” – pensando poi di farci un racconto: ma credo avrebbe meglio funzionato come verso d’una qualche poetica forma in versi.
    Mi scuso per il ritardo col quale rispondo ma non avevo molto interesse e diversi altri impegni.
    Continua così,
    A.

  27. “Vedi, è chiaro da molto tempo che ciò che di qualsiasi cosa interessa è, aldilà della profondità di questa tal cosa, le tracce residue che emergono, emorragiche, tra una riga e l’altra – diciamole ductus.” Chissà co’hai voluto dire con questo.
    Comunque non hai risposto. Non starò certo a difendere il racconto (ci mancherebbe), però secondo te avrei preso pezzi di passato e li avrei incollati imbellettando (ma che significa imbellettando), tra l’altro, dici, Andrea Pazienza, dimostrando di conoscerlo molto superficialmente (Andrea ha raccontato soprattutto gli studelinquenti, che non c’entrano un accidente). Credi che questo cut-up non sia diffuso in letteratura? Quanto S.Tommaso, Erasmo e altri ha messo Umberto Eco nel Nome della Rosa (li ha addirittura campionati)? Ma qui siamo nella teoria. Poi dici: “Qui tutti sanno cos’è la droga” embé? Io ho raccontato una favola, mica ho trattato di droga. Guarda, tu sei il primo a non avere le idee chiare, perché il “vecchio” in letteratura non esiste. Forse qualcosa ti ha offeso, schifato, sii sincero invece di imbastire delle teorie.

  28. La parte del mio commento che hai citato virgolettata è assai chiara. In ogni modo, intendevo quello Derrida intendeva, ovvero che non è testo quello che deve emergere da uno scritto che si voglia arrogare la presunzione d’esser letto; si sa bene, si “sente”, è una questione appunto emorragica, ciò che viene fuori quando leggo qualcosa non è certo la storiella bella e messa lì.
    Smettila di citare nomi importanti senza motivo, la tua erudizione non m’interessa fino a questo punto.
    Sei tu che non vuoi sentir ragioni e per difenderti cominci con la tecnica dei paragoni che, se permetti, è abbastanza puerile. Quello è vecchio? io non parlavo di quello, ma riferivo il mio dire al tuo linguaggio. Così nel pezzo come nei commenti. La bagatella tra te e quell’altro di cui non ricordo il nome è assurda, finta, sembrate la stessa persona.
    Inoltre, cosa vuol dire imbellettare? Hai presente 1984 di Orwell quando Wiston racconta di essersi scopato quella puttana? che all’inizio gli sembrava una “normale” puttana, ma poi s’accorge che in realtà è vecchia, vecchissima e brutta, e nonostante ciò se la fa? Ecco. Disponi ordinatamente i personaggi. Il lettore è Winston Smith, lascio a te concludere il resto.
    Non mi toccare Pazienza. Non hai colto affatto ciò che intendevo, ma non mi stupisco, giacché non avevi compreso la questione dell’imbellettatura. Di certo tu non copi lui, tanto meno qualsiasi altri che ho e hai citato – copiare è l’arte degli artisti. Dai, vuoi dire davvero che non avevi in mente Penthotal e un po’ di Fiabeschi? Ma quelli erano belli perché fuori del modo (ripeto: modo) cui avevano a che fare, il tuo Toni no, è uno la cui storia non merita niente – e mi è dispiaciuto scrivere l’ultima frase e non so perché. Lasciamo stare il discorso sulla droga, cavartela dicendo che hai scritto una favola è stata una bella mossa.
    Chi o cosa è vecchio?
    Il vecchio è la letteratura stessa, questo mi schifa e offende. Ma tu che credi ancora negli scandali cerchi ovunque qualcuno che si volti quando svarioneggi (è una parola dialettale romana, significa proprio il tuo racconto).

    Ciao,
    A.

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