Brevi danze
poemetto in ottave di endecasillabi e una sestina lirica
[ 1997 – 1998 ]
di Francesca Tini Brunozzi
I
Io sono nata con questi due fori
su nella testa all’ingresso del cuore
e poi anche con questi altri due fori
giù nella pancia all’uscita del cuore.
Io non so cosa è dentro e cosa è fuori
da me se entra e poi se ne esce l’amore
ma io so che poi resta questa traccia
muta del terzo buco sulla faccia.
II
Mi ricordo: ero gravida e sola
scalza sull’uscio di casa accecata
dalle cicale e più senza parola
giù sulla fissa pianura essiccata
dall’abbandono; la mano sorvola
e oscura sopra la fronte abbagliata
e punta l’orizzonte desolato.
Non ricordo se l’ho solo sognato.
III
Sia compiuta la volontà divina
che tu non possa vedere mai più
me che ero la vergine Madonnina
tutta tua mio bambinello Gesù;
come col Cicciobello da bambina
ti ho premuto contro il ventre laggiù
per replicare questo primo incesto
che tu hai sognato fin da troppo presto.
IV
Bambino lontano quanto mi pesi
(sempre un po’ di più giorno dopo giorno)
dentro a questi occhi rimasti un po’ offesi
ci cresce oramai soltanto più scorno.
Orbata di te di sedici mesi
vorrei darti luce col tuo ritorno:
ma mentre rinasci dalla ferita
nel mentre che esci sei già a miglior vita.
V
Per le sale dell’anima e del volto
rapida è la ricerca del ritratto.
Lo specchio dello sguardo che si è tolto
rapisce nel miraggio contraffatto:
chi osserva cosa chi osservato è colto
repentino nel costo del riscatto;
simulacro orientato nell’inganno
replica nell’assenza al primo danno.
VI
L’altro è ormai altro. È già altro da me.
Ho deciso: non avrò più rispetto
per l’altro come ho già fatto con me
voglio si capisca che sia un dispetto
quel che c’è da fare qui ora con te
uno sull’altro tu io io e il tuo letto.
Ma faccio difetto per questa sera
e lascio il tuo tetto ma tutta intera.
VII
Succede a volte all’ora del sonnecchio
di alzarsi in volo verso Porta Susa
già porto dentro il fischio nell’orecchio
per presagio di nevralgia diffusa.
Ferma rifuggo il vischio dello specchio
mai non mi volto al torto di Medusa
corro via il rischio dell’ultimo lampo
e riparo molle in porto allo scampo.
VIII
In questa condizione catatonica
da fine estate sono qui a Torino
ma non per adorare la veronica
e a tre isolati dal suo sacro lino
io lascio la mia sindone sardonica
di fondotinta sopra il tuo cuscino
per ricordare a me che ancora esisto
io fatta come lui di carne oh Cristo!
IX
Al principio del nostro ultimo giorno
o alla fine (non ci capisco un cazzo
di niente di questo eterno ritorno)
mi sono ritrovata in mano un mazzo
di asparagi e rugiada tutta attorno
come in un film porno schizzando a razzo
spargendo perle da sinistra a destra
sui raggi a pentagramma alla finestra.
X
Vibro la lingua perché ti ricopra
gli occhi rapido varano accecato
dal desiderio di salirmi sopra
a quattro zampe da sauro arrapato
geco cieco che non sia che tu scopra
proprio ora quanto ti sei innamorato
di una lucertola appena scoperta
dietro la porta rimasta un po’ aperta.
XI
Si avvolge dentro la testa a spirale
il suono di questo nome – Vanchiglia –
poi vedo: tu che aggiri quelle scale
di casamento buono di famiglia;
lo stesso smarrimento elicoidale
di porpora di interno di conchiglia
sconvolge la mente (come per caso)
poi sento il sangue che cola dal naso.
XII
Ciò che rimane è il ricordo oramai
dell’ultima notte nella tua tana
(ho te dentro l’occhio che non esci mai):
tu che stai in ginocchio con la katana
in mano e miri al cielo mio samurai
mi ingiuri o ti adiri – porca puttana –
per lo sfacelo che viene da te
o per il seme che sfocia da sè?
XIII
Non era il manico del basso è vero
che tenevi in grembo ma la katana
(quello che ho visto) nobile guerriero.
Trascorsi di anni luce meridiana
sul bambino dell’album bianco e nero:
di che colore era quella bandana
dove ho seduto – fazzoletto verde –
al colmo di un potere che si perde?
XIV
Non sei tu che mi manchi mio tesoro
quello che manca sono io con te
è il nostro gioco coi dadi d’oro
per aria e in terra ogni volta che
(a pensarci ora mi discoloro)
facevamo Eldorado io e te.
Versavi una tazza di tè alla menta
dentro la mente accesa poi spenta.
XV
Se io potessi parlare coi morti
dentro al telefono ogni volta che
bisogno c’è di riparare i torti
ma in nessun posto nessuno c’è
che ti consola e che ti conforti
io cercherei di parlare con te
e starei fissa sul ricevitore
senza il tuo numero per ore e ore.
XVI
Quando ti muore una persona cara
si porta via un pezzo della tua vita
hai la coscienza più nitida e chiara
che non si tratta di una ferita
ma conoscenza verissima e rara
della diritta via che si è smarrita.
A nulla serve versare il pianto
ma ricordare sì di tanto in tanto.
XVII
Tu consola queste due orecchie vuote
di suono di parola che ormai sorde
sono al solito tuo gesto che scuote
l’ansia sola che da dentro mi morde.
Trova tutte le scandalose note
delle mie interiora che hanno le corde
scordate dalle poche mani rozze
di amori scorretti o di giuste nozze.
XVIII | Brevi danze (Trance)
Ne ho scelte sei tra tutte le parole
tra tutte quelle che mi mettono ansia
quelle che rappresentano un complesso
quelle all’origine delle mie pene
quelle che sono nome ma non verbo
quelle che non se ne vanno più via.
È proprio percorrendo questa via
che ho scoperto che tra queste parole
che ho scelto non compare un solo verbo
nemmeno uno e questo mi procura ansia
tale da rinnovare quelle pene
all’origine del noto complesso.
Io sto proprio parlando del complesso
complesso che te lo portino via
complesso di castrazione del pene
se proprio voglio usare le parole
quelle più adatte ad esprimere l’ansia
di non essere di mio padre il verbo.
Logos o ragione eterna: il verbo
non indica un’azione ma un complesso
di stati che mi procura quell’ansia
da prestazione che non mando via
nemmeno se mi riempio di parole
perché tra quelle c’è senz’altro pene.
È proprio quello che mi manca il pene
quello che ha fatto sì che io non sia il verbo
del padre – per dirlo con due parole –
un uomo. Ed è proprio questo il complesso
all’origine dell’Edipo e via
via dicendo di tutta quell’ansia.
Paura futura del male l’ansia.
Castigo per il peccato le pene
che ora sconto e che tracciano la via
crucis per un Cristo che non è verbo
che non è uomo ma che è solo un complesso
di cose che non trovano parole.
Ma l’ansia di non trovare parole
qui non c’entra col pene o col complesso
ma è la sola via che porta al verbo.
(Da: Frau – Torino Poesia, 2007. Immagine: Alex Katz, September afternoon, 1999)
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Sister Francesca, di sillabe anche. Che strano, oltre quel favo, ma che strano. E’ l’endecasillabo un metro strano, ti si snocciola lì senza volere, come una cascatella di ghiaino, di quello piccolo da cimiteri. Conti e sono undici, lì perfetti e taglienti a dirti quel che volevi fra gli accenti che battono il ritmo. Per non parlare di quelli che si annidano, in agguato, nella prosa. Per una sartoria di sentimenti, taglia e cuci e rammenda, prima o poi bisogna avere a che fare con i metri.
Oggi, due dei morti, dal mio ponte di lance, getto monetine nell’acqua ferma.
Un saluto a punto croce.
una poeticità ferma, suadente e drammatica nel suo farsi, non di rado, preghiera.
i miei complimenti.
e saluti cari,
rs
bellissimi componimenti, sanno di taglio, di urto. complimenti.
finalmente poesia come suono, in cui l’acustico non è inferiore al semantico!
brava Francesca,ormai non so più cosa aggiungere per i tuoi canti.
un abbraccio fortissimo
jolanda
@Miss Moneypenny
carissima sorella,
sono felice di ritrovarti qui, poiché possiamo contare, misurarci e persino battere il tempo.
un “saluti da qui” a punto assisi.
al prossimo incontro,
francesca
@ ruggero solmi
grazie per i complimenti e per i saluti che da lei, cari, non ci sia aspetterebbe.
curiosa l’idea del farsi preghiera: a me sembra non di rado, qui, di cristonare.
ma sul tema, aspetto con impazienza una sua lezione, un aforisma di di buona educazione.
saluti più cari,
francesca
@ mario
@ lu
grazie a entrambi, vi unisco nello stesso ringraziamento, perché non c’è taglio o urto che non produca il proprio suono.
epperò preferisco il taglio all’urto, ché il taglio sottrae materia e l’urto ne aggiunge.
un caro saluto,
francesca
@ jolanda catalano
cara sister, va bene che ci abbracciamo, anche fortissimo, ma non smettiamo di dirci cose, di indicarci reciprocamente che cosa stiamo facendo, a me serve moltissimo, davvero più che un brava.
ti abbraccio,
francesca
Francesca hai ragione.neanche a me piace un “brava” e basta.
ho scelto un giorno sbagliato per il mio commento,tutto qui.
in quel “fortissimo”c’era tutta l’intensità che avrei voluto trasmetterti di ritorno a quella dei tuoi versi,ma un blog è fatto di parole e da novizia
quale mi ritengo,forse qualche volta me ne dimentico o forse,a volte,
mi sembra di avervi di fronte pur non conoscendovi ,ma pur essendo
una bella empatia,non con tutti è ovvio,un abbraccio non può bastare.
un caro saluto notturno
jolanda
carissima Jolanda,
grazie ancora per l’abbraccio che è arrivato fortissimo e che ho sentito stringere anche la Miss Moneypen!
Spero di poterti sentire ancora per altri versi, i tuoi.
a presto!
francesca
Cara Francesca,
le tue brevi e profonde danze toccano l’anima. Ritmicamente.
Un abbraccio
brunella