Telemaco nella stanza del drago
di Massimo Rizzante
«Una parte di me – disse – una parte profonda, la mia parte poetica ha residenza fissa nella stanza del drago. È prigioniera del drago e, a differenza del santo della tradizione cristiana, non può sconfiggerlo.
Sconfiggere il drago non porterebbe a nessuna liberazione dal male. Non solo perché il male è nel volersi liberare dal male, ma perché sconfiggere il drago significherebbe accettare un’altra sconfitta, la sconfitta della creazione poetica. La vita mi invita ogni giorno a uscire da questa stanza: la vita è questo vecchio usciere maligno.
Io, lo confesso, amo molto le sue lusinghe, le terre straniere, i viaggi, gli amici, le molte lingue, le donne, i bambini, le città, tutta la prosa del mondo, tutto il tesoro di esperienze con cui egli cerca ogni giorno di convincermi che nel chiuso della stanza del drago per me non c’è futuro.
Ed egli ha ragione: nella stanza del drago per me non c’è futuro, e neppure passato. Tutto è come sempre è stato.
La lotta dell’arte poetica contro la prosa del mondo sta infatti nel non raccogliere gli inviti di quel usciere maligno, ma nel raccogliersi dentro le pareti di Cronos, nella stanza del drago, e sperare, in silenzio, che il male non venga sconfitto dalla nostra quotidiana distrazione.
Ma il fatto è che l’altra parte di me è quel vecchio e distratto usciere maligno. È lui che si lascia governare dalle voci del mondo. In questo sta la sua originalità: nell’essere un devoto imitatore di voci.
Il fatto paradossale è che il custode della mia casa poetica è un uomo prosaico.
Quest’uomo è un uomo distratto, generoso, impaziente, pieno di vizi, perversioni, ossessioni, un uomo debole, di una debolezza che è il suo modo di respirare e di percepire tutto ciò che succede, un uomo pigro, di una pigrizia devastante, che è il solo salvacondotto che possiede per non uscire dai confini del tempo.
Egli farebbe entrare chiunque nella stanza del drago, perché chiunque è degno di essere conosciuto. La sua non è carità, e neppure pietà: egli vuole comprendere chi è. Non solo. Egli ha la pretesa diabolica di entrare dentro l’anima dell’altro e di immaginarsi il suo dolore. Egli pensa che ogni individuo può portare con sé una pepita d’oro, un miliardesimo di diversità intoccabile. Il suo sguardo è diabolico perché non è un punto di vista. Un punto di vista è sempre anche un punto di forza da cui giudicare, mentre la sua pretesa diabolica è quella di rendere la stanza del drago un luogo dove ogni giudizio è sospeso.
È chiaro che la debolezza e la devastante pigrizia sono i suoi punti di forza: senza di loro non potrebbe accogliere le voci del mondo. Ma sono anche la sua condanna. La condanna della sua arte poetica, del suo connivente che cerca di raccogliersi nella stanza del drago e si sforza di far fallire i diabolici progetti di quel maligno usciere che egli stesso è.
Se fosse per quell’usciere maligno la stanza del drago sarebbe un asilo di vecchi e bambini, un manicomio di folli veri e presunti, una comunità di fedeli e di vagabondi, un viavai di gente che entra e che esce senza neppure salutarsi, una strada di prostitute e misteriosi clienti, una metropoli di uomini di affari e senzatetto, un crocevia di senza patria, paria e provinciali.
Un luogo di compresenze: non è questo la prosa? Qualcuno che ci sta a cuore sta morendo nella stanza del drago e dalla finestra si sente salire il riso complice di una coppia di amanti.
Se fosse per lui la stanza del drago sarebbe sempre diversa, come il suo custode, devota al cambiamento. Sarebbe già stata ridipinta mille volte, i pochi mobili venduti, il vecchio materasso bruciato, il pavimento rifatto, sostituita quella vecchia porta, cambiata la serratura, gettata la chiave nel pozzo del tempo.
Ma la prosa custodisce la poesia come un frutto il suo nocciolo: senza la stanza del drago, oscura, invincibile e senza tempo neppure le altre stanze del mondo, agitate da migliaia di corpi e di anime, potrebbero essere immaginate con lo stesso dolore.
Per questo mentre il vecchio e distratto usciere fermo sulla soglia continua a domandare a chi entra: “scusi, che cos’è l’immaginazione senza il dolore?”, dall’ interno della stanza si sente risuonare, nel silenzio, una risposta a forma di domanda, speculare: “e che cosa il dolore senza immaginazione?”.
Così alla fine una parte di me continua a domandare, mentre l’altra combatte contro il drago. La poesia è questa lotta contro il drago. Questa lotta non può finire. Io non posso sconfiggere il drago, pena la fine della mia creazione. Il drago non può morire. E con lui neppure io»
Il testo è tratto da Massimo Rizzante Nessuno, Manni, Lecce 2007
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[finalmente
che bel testo]
nella prosa si annida poesia
come note su pentagramma fra voci
max, è bellissimo, riconosco quel drago come vivesse con me tutte le sere e cercassi di buttarlo fuori dalla mia stanza tutte le mattine. Abbasso San Giorgio!
Bene, ma mi spieghi perché tra tutti gli animali e in particolare quelli mitologici, hai scelto proprio il drago? Gli utlimi cartoni animati che guarda mia figlia (Barbie Raperonzolo e Shrek) li dipingono ormai coma animali bonaccioni e amici delle fate.
@ beppe. Non so se hai scritto quello che hai scritto per gioco o credendo seriamente in quello che dici. Ma hai colto perfettamente nel segno: tua figlia, tu, io viviamo nell’Impero del Bene Incurabile, dove la colpa, il senso della colpa, il male, la lotta per sconfiggere i propri demoni, la stessa esistenza dei demoni, la stessa esistenza del nostro stesso daimon è al massimo l’opera di un cartoonist.
Tuttavia, come scriveva Philipep Muray: «Il Bene rimpiazza il Male , ma all’unica condizione che si continui a dire e a far dire che il Male non è mai sato così minaccioso, così spaventoiso, così paralizzante come oggi. E che lo si filmi, lo si rifilmi al cinema e alla televisione, di continuo, sempre».
Il discorso si sta facendo interessante. Ti riporto qui quello che ho scritto in altra sede sul tema (nel mio unico romanzo):
“Non è conformismo, ma l’etica spicciola del bene capito male.
Il bene è capito male.
Il male è capito bene.
Tutto è male dunque?”
“Cambiare così tanto da sentirsi il nuovo innato, e se stesso
rinato.
E perché poi dovrebbe capitare il male?
Perché poi dovrebbe capitare solo il male?
Voglio dire: perché dovrebbe prevalere il maligno? Non è
plausibile.
Un po’ di bene capiterà pure…
Anzi è sicuro!
Se scaturirà dal male sarà un bene con portata dirompente!
Infatti: un bene che scaturisce da un altro bene ha qualcosa
in sé che non è bene.
È una sorta di rendimento.
Il secondo bene è ‘frutto’ del primo e quest’ultimo, cioè il primo,
è un investimento: un capitale.
Insomma non c’è gratuità, non c’è sorpresa quando il bene
promana dal bene.
Il bene che deriva dal male invece è un bene originario: viene,
non si sa come, e in qualche direzione esplicherà i suoi effetti.
È assolutamente inaspettato.
Quel bene lì, il bene primo intendo, è puro e sarebbe bene
non si corrompesse, non diventasse mai meno bene, mai capitale,
capitale da dare a frutto di altro bene intendo.
Ma non è possibile?
Male.”
complimenti, mi è piaciuto parecchio.
Ti ringrazio.
Riflettevo ancora sulle tue parole e sulla lotta incessante contro il drago che genera poesia. A parte la nostra società buonista, mi chiedevo se la Poesia (direi più in generale l’arte) sia dunque identificabile con il bene, o semplicemente non sia altro che il frutto del male, del drago, della lotta contro il male-drago. Una sorta di palliativo che lenisce il dolore ma non genera alcun bene autonomo: solo consolazione?
Ma poi il drago è il male?
L’arte non può essere davvero altro che questa lotta senza fine?
Non è concepibile un’estetica-etica che cerchi di andare al di là del conflitto per sfociare nella pura elevazione?
Non lo so.
Mi sembra che nel testo di Massimo i due discorsi siano co-implicati in profondità. Inanzitutto perché si sposta il discorso dalla lotta col drago alla tana del drago, poi perché qui mirabilmente si condensano giardino dell’Eden e prima tentazione. Ma gli spostamenti non finiscono qui, perché anche la prima tentazione da scegliere di agire per conoscere diventa scegliere di accettare senza giudicare.
E ancora, lo scenario senza tempo non è più la scena iniziale per sempre già perduta come quella di Adamo ed Eva, ma una sorta di buon ritiro interiore sempre aperto, che sembra estendere il dominio dell’accidia come la intendeva il medioevo anche all’otium del poeta.
Ma forse sto ricamando troppo, e varrebbe la pena di parlarne a testo intero letto.
Per esempio: perché Telemaco? E chi sta parlando?
@ Paolo S
Leggi Nessuno (Manni, Lecce 2007) e le tue domande troveranno risposta!